Titolo saviniano – inconscio? s’immagina in Arbasino orrore per il finto strapaese di Savinio – per l’ormai consueto racconto gotico dell’ultimo Lombardo, oggi come dieci anni fa. Le muse in autostrada, invece che nei boschi, nella città per eccellenza non città, è parusia non indifferente. Ma poi Los Angeles, nomen omen, è Hollywood, la città dei sogni, e quindi per necessità delle muse.
Arbasino è iconologo sorprendente, non solo del “romantico musico del «Concerto»” a Pitti. È critico superiore della civiltà: il Getty di Los Angeles come epitome del museo – cos’è un museo, cosa dice – per ambientazione in altre “culture”, altre generazioni, altre epoche. Ed è, potrebbe essere, dieci Ginsberg insieme, tanti, inesauribili «Urlo» all together, uguali per potenza espressiva, filologicamente più curati, ritmicamente, per capacità di evocazione. Con le solite fulminazioni, “i centri sociali italiani… organismi vandalici contro la società medesima”, per la fine, incomprimibile vocazione al social scientist se non al pedagogo.
Ma dà vertigine la claustrofobia. Anche nei viaggi. Specie nei viaggi. Un disadattamento che rifletterà una interna insoddisfazione, un qualche tormento. O l’insoddisfazione per la mediocrità di un ambiente. L’avventura del “Mondo” finita nei compromessi e le sacrestie del politicamente corretto. La “letteratura” che circonda una persona che si ritiene normale nella sua eccezionalità, per le doti di lettura e di scrittura, il gusto estetico e la memoria, gli studi politici, l’esperienza di peone a Montecitorio, l’uso di mondo, “di sopra e di sotto”, direbbe, l’insopprimibile impegno civile, una seconda natura.
Arbasino, Le muse a Los Angeles, 2000
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