Heidegger è stato buon cattolico, chierichetto come tutti, seminarista, quasi gesuita, professore di scolastica. Traccia indelebile. Si spiega che la prima eco egli abbia avuto dai teologi, i quali credettero “Essere e tempo” un appello a una relazione autentica con la morte, e l’ontologia, con più fondamento, un altro nome per metafisica. L’altra lettura fu quella fenomenologica: l’analitica dell’esistere, il tempo, l’angoscia, il si dice, la cura. Ma l’antropologia della coscienza, si disse, è proprio quello che Heidegger vuole rovesciare. Essendo ripartito, fatte tutte le tare, da Aristotele e dal principio di non contraddizione, dalla domanda che non è posta: “In quale modo dev’essere dimostrato ciò per cui nessuna prova è possibile?”
A prima vista Heidegger è il pagano moderno, che non sa e non vuole uscire dal mondo, dove situa pure Dio, che non nomina ma non rifiuta. È invece il chierichetto eterno – la sua Cura è don Milani, seppure americanizzato, “I care”. Al primo insegnamento a Marburg tenne un seminario su san Tommaso, De Ente et Essentia, in latino, ancora non lo spregiava, utilizzando il commento di Tommaso de Vio, il cardinale “Gaetano”. Le percezioni di Heidegger, disse Jaspers subito, sono mistiche, presentate speculativamente in parabola, immagine e poesia. Rosenberg lo inquisì, quello della razza pura tedesca, per gesuitismo scolastico. E sempre ha onorato senza riserve la filosofia aristotelica, cioè scolastica, “che ha da sempre pensato realisticamente”. Di cui ha tesaurizzato il linguaggio e la peculiare metafisica. Forse è qui la magia della sua oralità, che Hannah Arendt, innamorata devota, da giovane e per sempre, e Jeanne Hersch (“c’è nella sua esposizione un aspetto incantatorio, come una formula di magia, che fa salire gli spiriti tellurici e vi chiede di accoglierli”) attestano, nel fascino del predicatore - che bisogna immaginare agostiniano o domenicano, non un imbonitore.
Per essere buon scolastico manca a Heidegger l’Expositio super salutatione angelica. Gli manca anche il detto “ex nihilo nihil fit, et in nihilum nihil potest reverti”, niente viene dal nulla, né vi può tornare. Ma questo è voluto, per poter lavorare. Per il resto c’è tutto. Compreso il Cusano del Dio Presupposto: “Se ci si domanda se Dio è, si presuppone l’essere”. Elementare Watson. Ma poi Cusano, si sa, pretese di pesare il respiro. Da ultimo Heidegger non ha trovato “un compito possibile per il pensiero”, dopo cento volumi, di quattrocento pagine in media l’uno. Si è nascosto, insomma, pure lui, per l’eclisse della chiesa e del sacro.
Ma se l’evoluzione, l’ereditarietà e la curvatura dello spazio, invece che leggi di biologia o fisica, scienze rampanti, fossero chiamate enti o essenze, che siedono in qualche iperuranio e di là governano il mondo, non ci sarebbero novità. Heidegger stesso lo spiega di Einstein: lo spazio e il tempo che non sono niente in sé, ma esistono solo in virtù dei corpi e le energie che vi s’imbattono e degli eventi che vi si producono, sono già in Aristotele. E “ciò che è stato sarà” si trova nell’“Ecclesiaste”. L’Ereignis, il Logos o Tao tedesco, intraducibile, è l’inconfessabile Avvento. E si dice scolastico ma s’intende agostiniano. Per quel parlare di Dio per platoniche analogie tra divino e spirituale, che rimise in circolo l’apofatismo già cancellato da Cristo e i primi padri. La sua ontologia è metafisica semplice, derivata dalla teologia, nella formulazione ben nota dell’agostiniano Lutero: “Vivere non è essere devoti ma diventare devoti, non è essere sani ma diventare sani, non è essere ma divenire”. Un agostiniano insomma, benché disprezzi il latino come lingua filosofica – anche Kierkegaard lo disprezza, ma secondo lui filosofare si può solo in danese – in quanto lingua dell’innominabile Scolastica. Peccato, avrebbe letto in Cicerone che non c’è assurdità che non sia stata detta da qualche filosofo, lui che ora è filosofo solo per i latini. Anche Nietzsche si meravigliava che gli italiani amassero “il grigiore e ancora grigiore della nostra Scolastica tedesca”. Ma uno Scolastico senza Dio, com’è possibile?
La chiesa sembra voler uscire dalla catacombe, dopo il pontificato flamboyant del papa polacco – i polacchi sono combattenti, seppure a cavallo. Dal limbo dove la ributta il calderone spumeggiante del cosiddetto laicismo dei diritti, o liberale. La ragione semplificatrice, per intendersi, che l’Onu, l’Unesco, e altre assise severe dei diritti umani si arrogano e sventolano – il sesso libero, il sesso improduttivo, la buona morte, la famiglia allargata, frazionata, moltiplicata, il multiculturalismo, la bontà dei brutti-e-cattivi, l’essere che è il non essere, e questa è tutta la filosofia. La chiesa che ha il maggiore patrimonio estetico, pedagogico e politico del mondo, e anche in filosofia se la passa bene, ha la tradizione più forte, se non la più brillante.
Qui cinque filosofi morali si spalleggiano nel legare Heidegger alla tradizione, in una raccolta di saggi a cura di Aniceto Molinaro. Timidamente, più che altro danno l’interpretazione fenomenologica dell’epistolario di san Paolo, come dice il sottotitolo, non vogliono sembrare di annettersi il filosofo. Ma non possono negare l’evidenza. Berrnhard Casper specialmente, uno dei maggiori studiosi di Heidegger: con la pubblicazione delle prime lezioni e dei Beiträge “è divenuto più chiaro in che modo le origini del pensiero di Heidegger sono legate con il tentativo di contribuire a portare la fede cristiana in quanto attuazione umana a una nuova comprensione” di se stessa. E in particolare, nella lezione “Agostino e il Neoplatonismo”, sul Libro X delle “Confessioni” e sul significato della tentatio, dell’essere tentati: “L’analisi esistenziale della tentatio rappresenta una importante pietra miliare sulla via verso il fenomeno esistenziale dell’essere tribolato e della cura”. Anche solo leggere le lettere di san Paolo con Heidegger è peraltro un altro cristianesimo, con un che di autentico.
Nel suo furore cristiano Heidegger arriva a rimproverare a sant’Agostino l’oggettivazione “greca” di Dio, Umberto Regina, pur con i guanti, non manca di sottolinearlo. Il santo misconosce la nuova temporalità cristiana: “L’esperienza cristiana vive il tempo stesso”. Si può dire con Kierkegaard, chiosa Regina, che “lo «scandalo» cristiano è la salvezza dell’esistenza nel tempo”, nell’esistente, nell’attesa della “parusia”, il ritorno di Dio nella sua gloria. “Heidegger non elaborerà alcuna filosofia della religione”, come era nei suoi propositi iniziali, e così pure “Essere e tempo” resterà interrotto, in una con la perdita della fede, o meglio della chiesa. Ma “non si dimenticherà tuttavia delle caratteristiche che temporalità e storicità debbono avere, se autentiche”. Pietro De Vitiis, cui si deve una sorprendente rassegna delle ricezione del progetto heideggeriano di filosofia della religione, aggiunge: “All’influsso paolino si deve far risalire anche la preminenza del futuro – e conseguentemente della possibilità – nell’analitica esistenziale”. Von Hermann, che a Friburgo ha insegnato la Filosofia, già segretario di Heidegger e ora tra i curatori dell’opera omnia, lo dice con semplicità: la filosofia Heidegger vuole riformulare sulla “esperienza fattuale della vita”, e così “l’autentica filosofia della religione”, che va cercata “nella religiosità cristiana, così come questa viene vissuta” nell’esistenza.
Heidegger si sottrae, rabbino sofistico, anche in filosofia, il mondo confinando all’agrarismo alemanno: vino, proverbi, pipate lente tra uomini muti, il fuoco del camino, le stagioni, la malattia, la diffidenza del forestiero, la caccia insaziabile delle donne. È un pudico esibirsi, il suo, o celarsi. Alla Ponzio Pilato, la macchietta del romanesco, curioso stanco, che in Giovanni, XVIII, 38 so-spira: “Tì estìn alètheia?”, che cos’è la verità. Poiché nulla viene dal nulla, Heidegger non è. In realtà non è andato lontano, dal seminario da dove era partito: Esse est Deus. Ma per arrivarci, diceva Maestro Eckhart, “prego Dio che mi liberi da Dio”. Bisogna capirlo, a ventitré anni era ancora buon cristiano, beneficiario di una borsa cattolica per addottorarsi. Con Husserl, e la più giovane Edith Stein, anch’essa ebrea come la fatale Arendt, ma futura monaca. Dopodiché non lo fecero titolare di Filosofia Cristiana e se la prese. Continuerà ad andare a Messkirch a messa, nel banco del coro che era suo da ragazzo, lontano dal pettegolezzo universitario, e a segnarsi ingi-nocchiandosi nelle chiese di campagna. Ma quando nel 1917 sposò Elfride, studentessa di economia, che era disponibile a farsi cattolica, benché figlia di colonnello sassone, Martin dispose di non educare i figli al catechismo. Ha abiurato con Franz Camille Overbeck, il teologo amico di Nietzsche, e la sua distruzione della teologia. Ha quindi rimesso in circolo il vecchio camp e la morbida rêverie da adolescente. E non finisce bene: con la dissacrazione della storia, che il cristianesimo inocula su scala mondiale, la filosofia regredisce - sant’Agostino fa eccezione perché pagano di formazione, fu manicheo e forse ariano, tutta Milano lo era.
Il nulla e l’assurdo c’erano prima della storia. La storia è nata – la cosmologia, la filosofia – per cercare un rimedio. La prima religione è stata filosofia. La prima filosofia è stata cosmogonica e politica – interrogatrice, consolatrice. È a questo punto che interviene Heidegger, che potrebbe d’intuito ristabilire le cose ma annaspa. Senza colpa, è solo di recente, a opera del Sessantotto che lo ha contestato con Marcuse, che il gigantesco falso su cui l’Occidente edifica la filosofia e la morale è emerso, la trasformazione cioè dei fatti in essenze, degli eventi in parusie, con la mania diffusa delle apparizioni, della storia metafisica. Mentre la dimostrazione di Dio, che la Scolastica basa sul principio di causalità, viene anche meglio con la casualità.
La radicale assoluta solitudine dell’uomo è stata materia di vescovi in Concilio. E la discesa di Dio, nel Cristo, al bordo del niente. Il nichilismo, si sa, viene con la teologia. È materia cristiana – e ebraica, mussulmana: del discorso del Dio Unico. Il nichilismo rigoroso non è ateo, si sa, ma credente, si è atei perché si ragiona, si crede nella ragione: quando non c’è più il divino ma un Dio unico, il Principio di tutte le cose, ascendere a Lui, lo diceva William Blake, è “scendere nell’annientamento del proprio io”, che poi conseguentemente diventa annullamento dell’io - si ascende a Dio, già Dante lo sapeva, andando all’ingiù, bisogna essere umili. Heidegger a un certo punto il mondo voleva uniquadro, dei e uomini, cielo a terra, ai quattro angoli del ring. Disponili binariamente, cielo-dei, terra-uomini, ma al Filosofo piaceva l’immagine delle quattro punte, per ricavarne una croce, o meglio, accoppiandoli, la croce di sant’Andrea, con cui alla fine ha barrato l’Essere, non essendo riuscito a sbarazzarsene, malgrado lo scrivesse con la y, Seyn invece di Sein – das Geviert, l’uniquadrità, è l’essenza della Differenza. Insomma, quell’arrampicarsi sugli specchi che gli ha valso la fama di mago. Ma in questa chiave la sua magia è palese.
La ragione raramente ha ragione, e quindi la Scolastica ha torto. La ragione universale poi non ha mai ragione, bisogna essere contro Hegel, anche se si finisce con Schopenhauer e contro Marx e Sieyés. Ma con Heidegger la filosofia torna all’esse di san Tommaso, che il cogito di Cartesio superbo ha mandato in cantina. Con aggiornamenti e ritorni. La parola dell’essere è il verbo. La chiamata dell’essere è la grazia, repentina, illuminante, ingiustificata. L’isolamento e l’abbandono, si sa, sono dei santi. E “il dolore elargisce il suo balsamo là dove più non lo aspettiamo”, nell’al-dilà. Poi è venuto das Denken denkt, del linguaggio mistico e pietista: pensare gratifica. Qualche volta sì, evidentemente, malgrado il nulla. Più violento del nulla. E si finisce aspettando un Dio. Il Filosofo non lo ha scritto, ma lo ha chiesto allo Spiegel. Niente di più ovvio, per la corrispondenza niente-Dio. “Che cos’è l’Essere? è esso stesso”: questa scoperta centrale, filosoficamente ridicola, non è già di san Giovanni, l’apostolo rabbino: “Io sono colui che è”? Come die Frage, la questione, che altro non è che la tortura.
Lo stesso rifiuto del mondo si potrebbe dire molto cattolico, nel terribile ventesimo secolo. Il merito che Hannah Arendt attribuisce ai cattolici di avere riorientato la filosofia verso la politica, il mondo com’è, è vero solo di alcuni, Maritain, Mounier, Del Noce, Schmitt. Altri, Gilson, Voegelin, Guardini, Pieper, e ora lo stesso papa, hanno rifiutato il mondo, che appariva e appare loro sotto specie diabolica, della mistica laica, quella che entusiasta ha voluto la bomba atomica, e i sopravvissuti vorrebbe selezionare – Hitler senza Hitler. Heidegger sta, indeciso, nel mezzo. Ma queste sono argomentazioni volgari, storicizzate. Heidegger ripropone il già pensato come non è stato mai pensato, chiaro perfino: l’uomo ha cessato di capirsi nella metafisica, l’uomo occidentale, lui vuole ridargli il senso dell’Essere.
La metafisica, cioè Dio, è legata al Tempo (“l’Essere è svelato a partire dal Tempo: il Tempo rinvia allo svelamento, cioè alla verità dell’Essere”), questa peculiare costruzione mentale occidentale (“la metafisica in tutte le sue forme e in tutte le tappe della sua storia è sempre la stessa fatalità, e forse anche la fatalità necessaria dell’Occidente e la condizione del suo dominio esteso a tutta la terra”). Einstein ha abolito lo Spazio (“lo spazio non è niente in sé, non c’è spazio assoluto. Non esiste che con i corpi e le energie che racchiude”), e dunque anche il Tempo (“il Tempo non ha senso, il tempo è temporale”), ma la metafisica rinasce irresistibile. Un giorno magari scopriremo che Einstein ha torto, la relatività generale è sempre indimostrata, e comunque in queste cose, la metafisica, Dio, “ogni reputazione è un nonsenso. La lotta tra i pensatori è la «lotta amorosa», lotta che è quella della cosa stessa”.
Si può muovere da Dilthey e la fine della metafisica: “Il senso e il significato non appaiono che con l’uomo e la sua storia”. Il senso, dirà Heidegger, è il senso dell’essere. A differenza di ogni altro ente, l’uomo intrattiene un rapporto col suo essere, che è l’esistenza. Ma già il medio Evo l’aveva pensato, nell’haecceitas, la singolarità dell’esistenza: Individuum est ineffabile. Dio anche è ineffabile, come la verità. Dio non esiste in realtà se non filosoficamente – gli altri sanno che esiste. È la filosofia che la fede separa dalla ragione, la scienza dalla fede. Ma Heidegger, arrivato al bordo del nulla, riporta il mistero nella ragione – come Popper nella scienza. Rovesciando la prova di Locke, “non ne sapremo mai abbastanza per affermare che Dio non può infondere il sentimento e il pensiero nell’essere chiamato Dio”, avendo perduto la “fede nella ragione” – noi non sappiamo abbastanza nemmeno della ragione.
Abbandonando il dogmatismo, e le deformazioni subite al contatto con la filosofia greca, che si esprimono nella Scolastica, medievale e novecentesca, il Filosofo del nulla riporta in nuce il cristianesimo. Quella che sarà la versione contemporanea del cattolicesimo romano, essenziale, compassionevole, senza orpelli, riscoprendo attraverso Lutero sant’Agostino e l’escatologia terrena delle lettere paoline. La grazia opera nel fondo dell’anima, non nelle sue antenne sensibili. Se l’essere è il nulla, si dice, finisce la metafisica. O non ricomincia? Meister Eckhart, che vi giunse per primo, era metafisico ultra. Heidegger ricomincia a filosofare dal punto in cui Wittgenstein smetterà. Entrambi partendo dall’insufficienza della parola. Ma Wittgenstein è conseguente, negando ciò che rende Heidegger verboso, che l’essere parli attraverso la filosofia - gran mistico anche Wittgenstein, represso.
Heidegger e San Paolo, a cura di Aniceto Molinaro, Urbaniana University Press, pp.156, € 14
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