Un tuffo nel “secolo breve” che non può che rinvigorire anche i più restii. Un bilancio e una testimonianza, che è anche il racconto di una vita – non a caso dedicato al padre. Pedullà è stato e continua a essere l’ingegnere della letteratura, uno che non la scrive né la inventa ma la costruisce, con apporti solidi e vista acuta, con tutti i materiali, fino agli avanzi. In dieci righe riassumendo la propria vicenda a specchio del maestro Debenedetti, da Contini eletto a “maggior critico militante”. Giudizio che Contini più tardi “ribadì, attenuò ed estese: Debenedetti è anzitutto un grande prosatore. Grandezza non minore di quella degli altri grandi del Novecento, ottenuta stavolta attraverso la critica militante, genere marginale che lui ha collocato nel centro più alto, come una di quelle sue epifanie con cui un povero bambinello diventa Dio. La vita attraverso i libri altrui, un libro diverso al giorno, cento testimonianze brevi in attesa di costruire un romanzo, nella fattispecie Il romanzo del Novecento, che è un capolavoro della letteratura contemporanea”. E ancora: “La doppiezza del critico non è un episodio insignificante della realtà del Novecento”.
Il riferimento di questo bilancio del Novecento, anticipato nel 2007 con la silloge palazzeschiana E lasciatemi divertire!, è Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti, “il libro” mancante con cui i censori universitari angariavano Debenedetti (“Debenedetti ha insegnato quindici anni quasi gratuitamente e col pericolo del licenziamento”), che poté uscire solo postumo. Si va dal futurismo, che Pedullà recupera – oggi come cinquant’anni fa, in tempi sospetti - in chiara luce positiva, al postmoderno, il futuro che si sta scrivendo, in cui “trionfa l’avanguardia di massa, quella che ha trasformato in natura spontanea la cultura artificiale che ha previsto la nuova nascita”. Per la fisica dell’evento che trasforma la realtà.
Per la predilezione, che fu di Contini più che di Debenedetti, per la letteratura come invenzione, per l’invenzione della lingua, punto d’interesse quasi unico, e sempre stimolante. Come espressione fattiva, risolta anche se individuale, delle avanguardie. Che sono privilegiate in quanto ampliano il reale, la ricerca di senso. Per Pizzuto e D’Arrigo, quindi, e per una certa lettura di Palazzeschi, Svevo, Gadda, Malerba, il futurismo.
Anche se il siamo ciò che vogliamo non è più la misura di tutte le cose. Non gagliarda, nemmeno da retroguardia: “Il processo di estetizzazione del mondo è totale. È l’anarchia, ma è anche il massimo di democrazia” (o non: che è anche massimo di democrazia?). Il Novecento finisce come finì l’Ottocento, contento di sé, e irrintracciabile, inutile . “Siamo un paese in cui si pubblicano quaranta romanzi al giorno”. Quindicimila l’anno, dunque? Per chi? Perché?
Ma il bilancio è attivo. Se non altro perché il viaggio di Pedullà dentro il secolo è avvincente. Il passo è sicuro, gli scarti regolati da solida briglia, senza nulla togliere allo slancio, e le scelte realistiche, specie sullo sfondo del confuso ribellismo dell’ultimo quarto di secolo, come si conviene a un bilancio. Di cui Pedullà, che è stato anche manager della cultura, alla Rai e al Teatro di Roma, è un esperto tanto quanto dell’innovazione, dello spirito di avventura che o appassionano.
Il secolo non mostra peraltro di essere chiuso: il secolo che si vuole tanto breve non è ancora finito. Ma certo si tratta di un bilancio, di ciò che il secolo è stato. In termini di libro mastro, le assenze sono cospicue. Papini, con i suoi racconti fantastici , Il tragico quotidiano, 1903, Il pilota cieco, 1907, e le sue riviste piene di cose e fermenti. Prima del futurismo su “Le Figaro”. Quando ancora l’attore mancato Palazzeschi, alla sua terza raccolta di poesie, era fermo a “Rio Bo”. Che, certo, è parolibero, ma non di più. E poi Sciascia, Calvino, Primo Levi, Buzzati, Soldati, per restare al filone dell’invenzione della realtà. Ma Pedullà può vantare l’anticipo, in un pamphlet del 1995, Sappia la sinistra quello che fa la destra, del genere che oggi invade le librerie, sui ritardi, le divisioni, l’inconsistenza della sinistra politica: “In Italia la voglia di cambiamento, se non la rivoluzione, arriva con l’antica cadenza dell’Anno Santo. In questo secolo è dunque arrivata due volte, nel 19943 e nel 1993”…. “Chi tiene la destra va diritto, ma a sinistra non sappiamo dove si sta andando”. Dunque bisogna fidarsene.
È l’altro Novecento, comico, fantastico, inventivo. Da un secolo che si voluto dannunziano, rondista sempre, e neorealista, Pedullà estrae il “fantastico del naturalistico”, una scoperta che fa ascendere a una lezione di Debenedetti nel 1953, per la forza del simbolismo. Il comico e il fantastico, quindi, come chiavi di lettura e non generi, magari minori. La intima natura, la più resistente, la più produttiva, di secolo “inquieto, ambizioso, radicale”, da Palazzeschi a Malerba, con l’amato Sud, Alvaro, Domenico Rea, Bonaviri e D’Arrigo, l’autore di Horcynus Horca di cui sta per restaurare l’opera omnia. Partendo da Marinetti, perché “in realtà si costruisce distruggendo”. Su autori e movimenti che Pedullà ha nel suo ormai mezzo secolo di critica indagato a fondo, con monografie e scorribande. Il morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia (1975), Alberto Savinio (1979), Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio (1983), con tre ampi saggi (tre libri) sugli amati D’Arrigo, Pizzuto e Zavattini, Il ritorno dell’uomo di fumo (1987), Lo schiaffo di Svevo (1990), Carlo Emilio Gadda (1997), Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti (2004), E lasciatemi divertire! (2007).
Maestro buono
Nell’aspetto e nelle intenzioni Pedullà è il vecchio maestro - vecchio nel senso che non usa più. Magisteriale, come sottintende peraltro il suo costante filiale riferimento al suo proprio maestro Debenedetti. Anche se pedagogico e non padronale. Pedullà all’“Avanti!” e all’università esercitava, ancora negli anni post-68, disincantati, con maestria la pazienza. Frequente era questo tipo di conversazione con una studentessa:
- Professore, volevo chiederle se posso fare la laurea con lei.
- Lei è appassionata di letteratura?
- Sì, molto.
- Cosa intende fare dopo la laurea? Insegnare?
- Ah se possibile sì, mi piacerebbe molto.
- Bene, e su quale autore si orienterebbe per la tesi?
- Mi piace Pavese. Se fosse possibile vorrei fare Pavese.
- Bene. Su quale opera di Pavese intende lavorare, su che aspetto?
- Non saprei.
- Il Pavese narratore, il poeta, l’editore?
- Direi il narratore.
- C’è un romanzo di Pavese che voleva indagare, un racconto?
- No, niente di particolare.
- Che cosa ha letto di Pavese che l’ha colpita di più?
- Ecco, questo volevo chiedere appunto a lei: che cosa mi consiglia di leggere?
Una conversazione estensibile ma non migliorabile. Per esempio:
- Lei ha già fatto l’esame di Letteratura contemporanea?
- Non ancora, sto completando la preparazione. - Niente smontava il Professore.
Poi magari la signorina si appassionava, e ce n’è che sono rimaste all’università, hanno approfondito gli studi. Gli autori invece Pedullà li correggeva con l’ironia. Di chi li aveva letti e capiti, o anche soltanto fiutati, ma carpendone le ragioni. Ai recensori che volevano smontare il mondo proponeva poche righe: “È essenziale entrare nell’opera e nell’autore. E per dirlo bastano poche righe, meglio non indisporre il lettore”. Tutto, insomma, meno che un ideologo. Ma ha avuto e ha una passione dominante, per la letteratura non solo come invenzione, che è di tutte le espressioni, anche infantili, ma come esercizio innovativo. E questo spiega le preferenze e le assenze del suo Novecento.
Il Novecento ha amato il nonsenso. Ma metaforicamente: non per gioco ma a rappresentazione filosofica del nulla. Esercizio “tragicamente tragico” per dirla alla Fantozzi, che si preclude la lievità che proclama. E tuttavia “non si è mai goduto della letteratura come nel Novecento”, “non si è mai riso tanto nei secoli precedenti quanto con la letteratura del Novecento”. Che il saggio sul comico di Pirandello apre. È la “falsificazione globale” di Campanile: “È dal versante del riso che la letteratura del Novecento ha ottenuto i più imprevedibili risultati”. Per il linguaggio, che “resta fondamentale, purché non si creda che «tutto è linguaggio»”. Gadda, per esempio, non s’illuse mai, che fu un ricercatore e un organizzatore: “La struttura linguistica non è intransitiva, anche se prova a vivere da single che basta a se stessa”.
La ricostruzione è severa ma divertita, briosa sempre e bonaria: “Ha vinto il cerchio, concluderebbe Savinio, che lo odiava come figura della ripetizione e della contemplazione”. Se non che “il Novecento ha fatto il vuoto ma ha fatto pure il pieno”. Che sembra Epimenide il cretese, che tutti i cretesi diceva bugiardi: il novecentista dice che il Novecento è un gran secolo. Ma Pedullà ha pezze d’appoggio. Non solo teoriche, quali piacciono alla critica (ma quelle degli scrittori del Novecento appaiono, bisogna riconoscerlo, eccezionali: mai secolo ha saputo di più quello che faceva), anche narrative, drammaturgiche, poetiche.
Molte emozioni a una rilettura “non tornano”, è inevitabile, il critico segue anche in questo l’autore, non si può sempre “lavorare per la storia”. Anche per alcune presenze. Alvaro, per esempio, che si racconta “una favola per non disperare troppo delle sorti della sua Calabria: Gente in Aspromonte”. Dove la passione fa male, in Alvaro e in Pedullà, al punto da rendere ingenerosi – bisognerà rivedere la scoperta del Sud, compresa la letteratura del Sud sul Sud. O gli anni Settanta, che Pedullà trova oscuri, forse per la nigredo politica, e pure videro la pubblicazione postuma di Morselli e Satta, scrittori che tengono, ottimi Montale, Calvino, Pasolini, Campanile, Parise, Sciascia, Manganelli, buoni Moravia, Chiara, Primo Levi, due Volponi, il debutto del giallo italiano, il genere poi di maggior fortuna, con Fruttero e Lucentini in coppia, nonché, a fine decennio, Il nome della rosa, con cui per la prima volta un libro italiano fece mercato internazionale. E tuttavia, facendo il bilancio, è vero che “il Novecento vanta il migliore fra quelli presentati dagli altri secoli della modernità”. Si può qui leggere il Novecento, Pedullà ci porta anche a questo, sulle tracce di due lombardi cui ha dedicato molti studi, il realista Bontempelli e l’espressionista Gadda, “quello che «usa le parole con le gobbe», disse Moravia”.
Fra le pezze d’appoggio teoriche si leggono con gusto le sorprendenti tecniche, piane, ragionate, dell’insofferente Gadda. Dal celebre “barocca è la vita” a “ha una tecnica anche la Bibbia”, “organizzare significa sempre organizzare qualcosa”, “sostanza e mutamento sono connaturati”, “il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e così guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se stesso”. O del neorealismo: “Dirmi che una scarica di mitra è la realtà mi va bene; ma io chiedo che dietro a quei due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operosa, un mistero, forse le ragioni o irragioni del fatto” – irragioni è meglio che tradimento.
Pedullà è anche qui il critico sempre militante, decano dei contemporaneisti, attento, impegnato sull’oggetto. Mentre potrebbe ambire, come fa dire a Svevo, all’autobiografia, seppure non di se stesso. Benché storico, per ironia, del Novecento che è il secolo del soggetto: “È lui sempre, a sentire Carlo Dossi, il protagonista in una narrazione regolata dall’ironia”. È la sua natura, di critico. Il critico come lettore. Che accompagna la narrazione, la sottolinea, la commenta. La fa in qualche modo rivivere. Si entusiasma, è perplesso, interroga, si interroga, come fa il lettore, e presumibilmente l’autore. Il critico come prosseneta. Col gusto insopprimibile per il Witz - “la critica che si fonda sul fiuto” e “quella che si fonda sul fiato”… Che apre una finestra tra le “strutture”, i “metaforicamente” e le “linee di fuga” che hanno consumato l’ultimo Novecento. La critica che è creativa.
La scena di Pedullà non è quella delle epifanie, da Debenedetti scoperte e praticate, il richiamo, la coesistenza, tra l’immaginazione e il reale, la vista, la parola, gli eventi. Tra le cose e le idee delle cose. Critico del suo tempo, vive e fa rivivere il linguaggio, di necessità storico. E tuttavia questo “Novecento” è un libro d’autore. La scrittura saprofitica, per procura, può essere un privilegio – l’autore non è il suo critico? Per il piacere di stare in compagnia degli autori più che per l’esercizio dell’autorità. Poiché, non detto, il critico in questo tornante di millennio è singolarmente solo, specie se “militante”.
Walter Pedullà, Per esempio il Novecento, Rizzoli, pp. 570 €22,10
giovedì 4 dicembre 2008
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