lunedì 1 dicembre 2008

Il vero realismo era "favola moderna"

Zavattini esce e va al mercato. Cioè no, esce in sonno e rifà il viaggio di Dante, accompagnato da se stesso, in volo a caso da spirito libero. È lui, il libro, il compagno di trasvolata, che “pur vivendo … in mezzo al romanzo”, non è mai stato protagonista di “un fatto notevole”, se non occasionale. Lungo il filone metafisico, ora definito surreale, aperto da Papini a inizio secolo con i racconti “Il tragico quotidiano” e “Il Pilota cieco”, quando Palazzeschi scriveva ancora “Rio Bo”, poi sviluppato dal futurismo e il dadaismo.
È la tipica moralità fantastica dell’autore che più è stato nel tempo del mondo, con i tanti Oscar. Per il folleggiare lieve del celta, malgrado l'ingombro redentorista. Con Malerba, Tonino Guerra, Delfini, D’Arzo, Cavazioni Fellini naturalmente, e l’emiliano di complemento De Sica, arruolato via neo realismo. Il celta dalla testa quadrata e il culo grosso, bonario e fantasioso. Che però “senza Petrolini non si capisce”, dice Silvana Cirillo nell’introduzione. Zavattini stesso cita Petrolini e il varietà – li cita contro Campanile, ma valgono per se stesso. Anche Sergio Tofano si può ricordare, “Il Signor Bonaventura”, altro riferimento non irriverente.
Zavattini ultimamente non ci teneva più, attestava venticinque anni fa, per i 77+1 dello scrittore, Walter Pedullà, il suo critico e sodale forse più affine: "A Zavattini piacciono di meno le "buffonate"; anzi non gli piacciono affatto... Non è successo solo a lui tra quelli che hanno frequentato e praticato la controcultura e lo sperimentalismo degli anni Sessanta fino alla contestazione" (Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio, 1983). Sarà stato dunque un grande scrittore malgrado se stesso, se ha perduto adulto la protezione di una vita contro le ideologie.
Qui è tuttavia sempre prosa degli anni trenta, rondista, calligrafica. Benché di uno scrittore che sarà il padre del neorealismo. Per il soggetto però – i poveri – e non per i linguaggi: tutti i suoi film che diceva di scrivere “con faciloneria”, chiamava “favole moderne”. E questo è da rivedere: il neorealismo, almeno quello di Zavattini, come una favola moderna.
“Parliamo tanto di me” dimostra che il pretesto (l’intreccio, i personaggi, i temi) sono irrilevanti, si può scrivere anche dell’acqua che scorre, o dei pesci nell’acqua, e perfino della canna da pesca, poiché si è fatto con ottimi risultati. Ma non si legge più di corsa. Né ridendo, come quando apparve nel 1931. Zavattini è come la sua conversazione, svia. Le storie sono fulminanti, poche righe e via. Ma nessuna storia è esemplare, né memorabile. Un ghirigoro di eventi e nomi improbabili, come è nella più tenace tradizione della letteratura italiana, anche contemporanea. In Zavattini con il grano di follia (coraggio) che fece grande il cinema e l’Italia tutta, che usciva dalla distruzione e la miseria.
Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me

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