Ci sono folle sugli spalti del Tevere i giorni e le notti della piena per fotografare. Si fermano tutti, non solo gli amanti della fotografia con le loro macchine professionali per immagini d’eccezione. Tutti vogliono fissare il fiume che lambisce gli ospedali sull’isola Tiberina, o sbatte i barconi contro i pilastri dei ponti. Col cellulare o la digitale, tutti a inquadrare il fiume, che pure in quelle macchinette viene male, marrone, sporco, scuro. I ragazzi che si fanno i ponti coi motorini, le casalinghe con le borse della spesa, i manager in grigio con la valigetta: estraggono la macchinetta e fotografano. Non per catturare un’immagine d’album, per ricordarsi che il giorno ics c’è stata un’alluvione. La pagina del diario che nessuno leggerà si scrive ora con la fotografia.
Per una ambizione non nascosta anche: che la propria foto o ripresa venga data da qualcuna delle tv nazionali che da qualche tempo invitano a farsi la propria televisione. Il modello You Tube spopola, anche se è nato dal disprezzo, il nome lo dice (“voi lavorate, noi ci guadagniamo vendendo il vostro lavoro”). Qualcuno dice anche: “Potrebbe crollare il ponte”, il ponte sopra il quale si trova. O spera che le tonnellate di cemento dei barconi disancorati facciano crollare il ponte a monte, o a valle, per poterla raccontare.
È il linguaggio dell’evento che la televisione impone: l’immagine (che sia disastrosa, eccezionale), l’attesa del peggio, la minaccia, la testimonianza (“ha piovuto tanto”). È il villaggio globale, altroché. Non è simpatico (solidale, intelligente, risarcitorio), ma è solo quello, McLuhan aveva ragione. Si può vederla in quest’altro modo: le tv, specie la pay tv, avevano tutto predisposto per la notte bianca dell’alluvione, e gli è andata buca. Ma non è una consolazione: se non migliora la televisione non migliora il mondo.
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