Il feroce Saladino, nomen omen, c’è, massiccio, tenebroso. Uno che dai corsi di formazione, potenza della cultura, riusciva a mungere bei soldi. Tanti da pagare tutta l’Italia, da Prodi a Mastella, Mancino, Di Pietro, la massoneria, le banche svizzere, la Commissione di Bruxelles. Anche il suo nemico in commedia è quello che è: De Magistris di nome e di fatto, giudice da generazioni, e in quanto tale celebrato al tribunale Santoro (che anche lui vanta parentele magistrali), bello, elegante, fotogenico, un testimonial, il modello della giustizia al made in Italy. Non manca Gelli, con la P2. Manca però un personaggio fondamentale, ambientandosi la scena in Calabria: la ‘ndrangheta.
Il fatto è noto. Un atto d’accusa di 1.700 pagine, abbellito da una foto di Mancino, se il nome fosse sfuggito, e da sessantasei entrate e uscite del dottor De Magistris, e una compagnia dei carabinieri, 120 uomini, per circondare l’edificio e prenderlo all’alba di sorpresa, inviati con una corsa lampo di 400 chilometri, sull’autostrada accidentata che da Salerno porta a Catanzaro e ai sobborghi, fino a Soverato. Ma, questo è il punto: prendere d’assalto non le postazioni della ‘ndrangheta, ma gli uffici giudiziari deserti della capitale calabrese e le abitazioni di alcuni giudici. Con perquisizione corporale degli stessi, nonché degli uffici uno per uno. Dove nulla è stato trovato, né tesori né droghe, né altri pezzi di reato, né peraltro si cercavano, solo carte. E senza atti d’accusa né avvisi di reato per i tenutari degli uffici, né per i giudici investiti in brache a letto. Di che ubriacare i legulei per decenni, che infatti operosi si sono messi all’opera.
Da Catanzaro la colonna vittoriosa doveva poi risalire verso Napoli, per incolpare tutti i politici napoletani, tutti quelli di una certa corrente politica, da Mastella a Nicola Mancino, che è anche il capo del Csm. Questo il secondo giorno. Un attacco dissuasivo, insomma. Di paurosa efficienza, se non efficacia. Che al terzo giorno si dissolve, dopo il “fermo monito” del capo dello Stato. E questo fa più paura di tutto: il terzo giorno non è più successo nulla. Né il blitz in autostrada, né l’occupazione del Tribunale di Catanzaro, né il sequestro stanza per stanza di tutte le carte.
Mai nessuna azione di mafia ebbe risposta così massiccia e rapida, neppure le stragi dei magistrati.
Tutte le vittime della mafia indifese stanno ora a guardare, se non una compagnia almeno un plotone di carabinieri magari non arriverà un giorno a proteggerne la case, le fabbriche, le famiglie. Magari non da quattrocento chilometri di distanza, non per “dare l’esempio”. Anche a piedi. A meno che, coi carabinieri e tutto, quella di Catanzaro non sia stata un’azione di mafia. Non si diceva che la mafia punta a destabilizzare le istituzioni? Il delitto nella vicenda è la raccomandazione: questo Saladino avviava al lavoro anche i parenti degli amici.
E così, tra Napoli e Salerno, questo 2008 non è più del 1908. Gli anni di “Gente in Aspromonte”, che Corrado Alvaro rese celebre col famoso attacco idilliaco "Non è bella la vita dei pastori...". Ora però non più vera, i pastori, anche in Aspromonte, si urticano con la mala pianta del denaro, d'estate e d'inverno. Mentre altrettanto memorabile, e ancora vera, evidentemente, resta la chiusa. Così Antonello Argirò, cui i padroni hanno incendiato la stalla, vede arrivare in “Gente in Aspromonte” la giustizia, quando lui incendia il bosco dei padroni: “Aspettava la sua sorte. Quando vide i berretti dei carabinieri, e i moschetti puntati su di lui dietro agli alberi, buttò il fucile e andò loro incontro. «Finalmente», disse, «potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirlo, il fatto mio!»”
sabato 6 dicembre 2008
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