astolfo
Antiamericanismo – Era fascista all’origine, nazionalista, reazionario. È passato a sinistra con la Guerra Fredda. Finita l’Urss, resta a sinistra, e anche a destra, a coprire il vuoto.
È europeo e latinoamericano. È quindi pregno d’invidia: in nessun’altra parte del mondo si desidera così tanto “emigrare” negli Usa, identificarvisi.
Un giovane nero e una donna che si contendono la presidenza - poiché la presidenza andrà ai Democratici. Due Democratici. Ce ne sarebbe abbastanza per ogni tipo di sinistra per suscitare entusiasmo, e pure invidia. Non per le arcigne sinistre in Italia, che fanno il tifo per i kamikaze e, sotto sotto, per Osama. E più tra i cattolici e i fascisti. Si dovrebbe dedurne a contrariis che quella americana è una vera democrazia.
Non si dà altro criterio in materia di antiamericanismo. In Iraq non furono criticati i bombardamenti, anzi la guerra lampo suscitò curiosità e apprezzamento. I kamikaze invece, benché fondamentalisti islamici, e perfino sunniti anti-sciiti, sono eretti a guerriglieri, partigiani di non si sa quale Resistenza, fronte di libertà. La Resistenza è un fronte di libertà, ma il paradigma della Resistenza si è attorcigliato in Italia fino a significare il contrario, un impegno assolutistico e dittatoriale.
Arabi (la guerra civile degli -) - Una storia, ancorché breve, presuppone delle peculiarità, di qualsiasi soggetto o fenomeno, e gli arabi non si sottraggono. Sono anzi oggi ben caratterizzati: cos’è “arabo”? Il petrolio, carissimo e sporco. La donna velata, muta, ignorante. Il terrorista, tagliagole, killer di indifesi, sugli aerei, a Fiumicino, alle Torri Gemelle, a Atocha, a Londra, prima di essere kamikaze, fanatizzato o prezzolato. L’immigrato spacciatore e stupratore, prima del “rumeno”. Il groom senza nome, “mohammed”, delle prime vacanze italiane a buon mercato, in Tunisia, Marocco, Mar Rosso, nell’esotico di cui non si sa il nome. Insomma, tutta o quasi la nostra realtà. Ma le peculiarità della storia politica degli arabi non sono quelle che l'attualità fa valere. Eccone alcune.
Vendetta
Nella guerra per l’indipendenza algerina, fra il 1954 e il 1960-62, si sono contati sei-settecentomila morti. I morti francesi sono stati 35 mila: 28.500 militari, 2.800 civili uccisi e 3.150 scomparsi dopo il cessate il fuoco. Degli oltre seicentomila morti algerini, 141 mila risultano combattenti del fronte di liberazione, più trentamila civili morti o dispersi per effetto della guerra. Gli altri quattro-cinquecentomila morti sono vittime delle vendette dopo il cessate il fuoco il 19 marzo 1962, e fino alla costituzione del nuovo Stato indipendente a fine anno, in Algeria e altrove, in Marocco, in Tunisia, in Francia: algerini dell’esercito francese, con i loro familiari, concorrenti del Fln, berberi. In città e nelle campagne isolate, dove forse la vendetta fu più feroce.
“Yasmina Khadra”, pseudonimo del colonnello Moulessehoul, il giallista che è stato colonnello dell’esercito algerino, lo spiega in “La parte del morto”: “Appena i soldati francesi ebbero cominciato a evacuare il paese, le violenze sono ricominciate ancora più feroci. Intere famiglie venivano braccate giorno e notte dai sedicenti liberatori. I fellaga erano scatenati, davano alle fiamme le case e i campi degli sconfitti, le esecuzioni sommarie si trasformarono in stragi inaudite”. La notte tra il 12 e il 13 agosto 1962, alla fine del Ramadhan, molti algerini furono mutilati e trascinati per i villaggi prima di essere decapitati. E in alcune zone si ricorda ancora il fenomeno dei disparus, intere famiglie scomparse di notte. Ma senza che nessuno, ancora quarant’anni dopo la fine della guerra, sappia o si chieda come. Almeno duecentomila morti si sono contati in Algeria nei dodici anni di guerra civile 1992-2004 contro l'islam radicale.
Cifre analoghe si registrano in Iraq a cinque anni dalla guerra imposta da Bush. A perpetuazione di una serie di soprusi politici, che ha visto prima le vendette sugli uomini di Saddam, poi la riscossa dei vinti, e su tutti il terrorismo islamico, di Al Qaeda, dei salafiti, della Shura e di altri gruppi. I morti in Iraq da marzo 2003, dalla fine della breve guerra e dall’inizio dell’occupazione americana, sono fra mezzo milione e un milione. Si tratta di stime di vari organismi, l’università John Hopkins, l’Onu, la Croce Rossa, basate su rilevazioni rapsodiche, e tuttavia non contestate. Ai morti degli attentati registrati dal governo legale bisogna in ogni caso aggiungere una serie di vendette private, statistiscamente non rilevate, per una cifra media di morti non inferiore al centinaio al giorno. I morti americani delle truppe d’occupazione erano a settembre 3.500, e potrebbero ora avvicinarsi ai quattromila.
Tribalismo
L’eccidio si è aggravato in Iraq per la persistente componente tribale, fortissima tra i sunniti. Anche se essi sono paradossalmente i gruppi egemoni nella parte urbanizzata del paese, attorno a Baghdad. L’Iraq è, insieme all’Afghanistan e alla penisola arabica, l’area ancora più fortemente tribalizzata del Medio oriente.
Sono fuori dalle vendette sistematiche in Iraq il Nord curdo, dove la famiglia Talebani “regna” dagli anni 1960. E il sud, che è in totalità sciita. Il centro del paese, a nord di Baghdad, è sunnita e tribale. E così pure l’Ovest, la provincia di Anbar, grande quasi come metà dell’Italia ma desertica e scarsamente popolata, alla frontiera con la Siria, la Giordania e l’Arabia Saudita, dove circa due milioni di abitanti possiedono venti milioni di armi, una cinquantina ogni maschio adulto, con i centri diventati famosi per gli attentati di Falluja, Haditha e la capitale Ramadi.
La pacificazione tentata dal generale Petraeus è in pratica una mediazione tribale: la tela continuamente ricostituita dei favori da pagare a questo quel gruppo tribale per ottenerne il sostegno, nel cosiddetto “triangolo della morte” a nord-est di Baghdad, e nell’Anbar.
Il fondamentalismo come questione moraleIl radicalismo islamico è una reviviscenza, all’interno di un processo di occidentalizzazione avviato negli anni Cinquanta con la decolonizzazione e il nasserismo in tutto il mondo arabo. Chi ha conosciuto Il Cairo fino agli anni Ottanta, o anche solo la Tunisia di Burghiba, confidenti, curiose, vivaci, fatica a riconoscerle nella realtà attuale. Per non dire di Beirut, per la cui rovina sono bastati gli intrighi del regime siriano. Ma chi conosce anche un poco la storia degli arabi sa che il grigiore e la tristezza attuali, se fanno tendenza, non faranno epoca.
Il radicalismo è periodico, altri casi di fondamentalismo islamico trasceso in terrorismo si registrano periodicamente nella storia araba. Su un fondo di crudeltà, per la persistenza dell’isolamento cupo del nomadismo e del deserto nella cultura metropolitana, o disadattamento. Il capo degli Hezbolah del Libano che si vanta di avere in casa teste e mani di soldati israeliani non è inventato dal Mossad. Il purismo islamico si associa alla crudeltà dal tempo del Vecchio della Montagna, nel Duecento, una storia mitica che è molto reale.
Il radicalismo islamico viene recepito come anticristiano. Non del tutto a torto, negli innumerevoli attentati in Pakistan, negli attentati isolati ma sempre più frequenti in Turchia, e nei casi del Libano, dell’Iraq, e prossimamente dell’Egitto. In Libano e Iraq le comunità eredi del cattolicesimo siriaco, anteriore all’islamizzazione, i maroniti e i caldei, sono oggetto di restrizioni e di assassinii. In Libano, dove avevano una posizione finanziaria dominante, i cristiani sono il bersaglio comune delle due potenze arabe che se ne contendono la leadership, la Siria e l’Arabia Saudita. In Egitto i copti, che pure sono una minoranza sostanziosa nelle città, e si ritengono i primi egiziani, si sentono sempre meno al sicuro nella nuova ondata islamica. Ma il radicalismo religioso è primariamente un fatto di politica interna, se si può presumere una politica interna al mondo arabo, che è frazionato e distinto.
L’islam radicale è nemico dei governi arabi che collaborano con Israele, e dei “governi corrotti”. È in superficie un movimento purista analogo a quelli in corso in tanti paesi occidentali, Italia in primo luogo, in cui la questione morale è agitata come clava politica. Ma nel gergo dei radicali dell’islam sono corrotti i regimi che non aiutano finanziariamente e logisticamente il terrorismo. Da qui le collusioni accertate dei servizi segreti pakistani, giordani, sauditi, con i talebani, i salafiti, i wahabiti, Al Qaeda, per comprare l’immunità. E quelle presumibili della Siria degli Assad e della Libia di Gheddafi, come già dell’Iraq di Saddam e degli Emirati del Golfo, anch’essi immuni al terrorismo. È una lotta alla corruzione che resta sempre terroristica, e di clan, di gruppi, perfino di mafie.
L’Occidente all’orizzonteMalgrado tutto, il fondamentalismo nella sua accezione terrorista è nemico sopratutto degli arabi, così è risentito. La gente osannante che nelle piazze brucia soldati amerivani in effigie è sempre esigua, sospettata, e referente di organizzazioni palestinesi o iraniane. Il militantismo islamico attuale, compreso il khomeinismo, è stato promosso all’origine e poi aiutato dagli Stati Uniti nel quadro del contenimento anti-Urss. Ciò avveniva negli anni 1970-80, in Pakistan, in Afghanistan e nella stessa Algeria. Esso rientra tuttora, malgrado i talebani e l’11 settembre, nell’elenco dei buoni del dipartimento di Stato. E a sua volta non contesta, a una sommatoria, il ruolo sovrano degli Usa. Contesta l’integrazione del mondo arabo nel sistema occidentale. Ma in questo senso è più antieuropeo.
La storia degli arabi è sempre stata intrecciata con quella europea, dal tempo della Conquista. L’intreccio è stato culturale, politico, economico. Dal Duecento, dal tempo di Federico II, gli arabio e poi gli ottomani sono stati anche parte del concerto europeo, della diplomazia. Ma l’Europa, se non tutto l’Occidente, da tempo non è più all’orizzonte degli arabi, se non come partner economico, come sbocco del petrolio e della forza lavoro. Con poca stima, e nessun timore. Gli Stati Uniti al contrario, malgrado l’11 settembre, mantengono intatta l’aura di rispetto. È così dappertutto nel mondo globale, per la forza del mercato americano, che solo consente a tutti gli altri di arricchirsi, dagli Emirati alla Cina. Il mondo arabo, in più, riconosce e rispetta la forza.
La percezione che se ne ha in Italia e in Europa è ancora coloniale. O post-coloniale, che è la stessa cosa, lo schema sovietico dell’antimperialismo nella Guerra Fredda. Il mondo arabo invece, Osama compreso, cadute le comode barriere del non-allineamento e dell’antimperialismo, ha subito riconosciuto la forza dove si trova. Il rapporto non è facile, la modernizzazione non lo è: tra l’Europa e l’Asia, gli arabi sono sempre divisi tra l’occidentalizzazione e il deserto. Con casi accertati di schizofrenia anche clinica, per esempio negli anni 1970 dopo il primo boom del petrolio. Nel 1974 i fratelli propri del re saudita Abdullah, compreso il principe ereditario Sultan, da sempre ministro della Difesa e uomo forte, bivaccavano a Montecarlo con l’intento dichiarato di sbancare il casino con i rilanci. La tipica famiglia dell’establishment arabo, dall’Algeria all’Iraq, è quella di Osama: adolescente con fratelli, sorelle e cugini liberamente ai parties familiari e in discoteca, a Ginevra o Londra, fratelli che sono tuttora membri rispettati del gotha finanziario svizzero, un figlio di vent’anni che è stato già terrorista e vuole vivere a Londra con una moglie di cinquanta. O l’emiro del Qatar, che ha cacciato suo padre con un colpo di Stato, ha fondato Al Jazira, ha promosso un boom immobiliare, e lo vende frequentando le prime della Scala con una bellissima moglie. Ma la dissociazione non annebbia le scelte di fondo.
Guantanamo – La tentazione di rinchiudere i nemici di guerra in condizioni di durezza e senza salvaguardie, escludendo anche la Croce rossa, è vecchia in America, ben prima di Osama e Saddam. Il morgentavismo era questo, la dottrina di Henry Morgenthau, il ministro del tesoro Usa nella seconda guerra mondiale: internare in massa i capi nazisti e liquidare i “criminali di guerra” elencati in una lista. Ezra Pound fu uno degli internati, in una gabbia all’aperto a Pisa. È la procedura di guerra ai pellirosse.
Media – Sono la verità perché la fanno. Nel linguaggio soprattutto, e nella moda, la politica, buona parte dell’economia, la giustizia. Ma una verità che si vuole falsa: supponente, stonata, calcolatrice, scopertamente basata sul gioco delle influenze, più spesso di un semplice padrone. È la verità della pubblicità. Non devastante forse, ma demoralizzante: nulla a che vedere naturalmente con la democrazia, che vuole verità e lealtà, se questa è l'opinione pubblica, allora l'opinione pubblica non è più democratica. Lo svolgimento del compito è anche scomposto, per la ovvia cattiva coscienza: nessuno è mai morto per il capitalismo, per i soldi solo si diventa puttane, astiose.
Questi media fanno anche a gara a rendere obsoleti gli apocalittici, che al confronto della realtà sembrano angioletti, con la distruzione che giornalmente viene operata, dalla volgarità, la banalità, la violenza, di linguaggio, di gesti, dei “diritti”, la vera, vuota stupidità. Adorno e Benjamin, che temevano di averne detto troppo male, resterebbero senza parole. Altro che la Bomba e il buco dell’ozono, le moderne democrazie dell’irrilevanza sono devastanti. È così che finisce una umanità, a meno di un prossimo Medio Evo.
Occidente – È il Nord.
Eccetto che in America: il West, dice Borgese, è un po’ Mezzogiorno e un po’ Oriente.
Olocausto – Se ne legge sempre con interesse la letteratura, malgrado l’orrore, e benché sia necessariamente ripetitiva. È ricostituente. Ha l’effetto di sollevare dalla beghe e i soprusi di ogni giorno, affettivi, di lavoro, fiscali, perfino di mafia, e delle mafie politiche.
Resta sempre l’orrore, certo secondario, di vedere come venga sfruttato a fini di parte, più spesso politici o di carriera. Come l’Aids in Africa, o la “fame”. Ma quello è l’orrore della bontà, dello sfruttamento della bontà..
11 settembre - Fa epoca perché è una guerra vinta in un’ora. Contro la maggiore potenza mondiale. Senza missili né atomiche. Con perdite minime: Osama è imprendibile, gli Usa si sono imbarcati nella guerra a mezzo mondo senza effetto. Con spese da capogiro, con perdite enormi in uomini e materiali, senza effetto. Il bilancio militare americano è quest’anno di 500 miliardi di dollari, più 200 miliardi per l’Iraq e l’Afghanista, il doppio che nella Guerra Fredda.
È un esempio di guerriglia elevata a guerra per la sola potenza dell’idea: armare i kamikaze di aerei. L’arte militare la dirà la guerra perfetta.
È Davide contro Golia. È, a suo modo, un esercizio terribile di libertà.
astolfo@gmail.com
venerdì 14 marzo 2008
mercoledì 12 marzo 2008
Le mani di Milano sul foot-ball
Questo si poteva leggere su Anti.it giovedì 27 settembre 2007
Mancini è per Moratti un servo di casa
Quando l’Inter vince e quando perde sempre si discute di Mancini. Che di quella squadra, di trentasei nazionali di tutto il mondo, è in fondo solo l’allenatore. Mancini, l’uomo più pagato del calcio, più di Totti per dire, o di chi fa venti e trenta gol a campionato, viene detto sempre sul punto di essere licenziato: o perché non vince, o perché il gioco non è bello, o perché, se vince sempre, non fa giocare questo e quello. Cattiveria dei giornalisti? Può darsi. Ma una ragione c’è, ed è che il suo patron Moratti lo considera, più o meno, un servo di casa. Ora che ha vinto, dice: “Non dubitavo che Mancini avrebbe raddrizzato le cose”. Quando alternativamente gli chiedono se lo manderà via per prendere Mourinho, non rifiuta la domanda, ma risponde: “Ha un contratto con noi, intendiamo rispettarlo”. Mai un segno di stima, se non di amicizia. Né di rispetto professionale. L’Inter è il feudo del “giovane” Moratti, che ancora non ha scoperto che la storia ha girato millennio. Il suo superpagato Mancini non è il dio del calcio italiano, ma s’immagina ogni mattina come un qualsiasi vassallo, col ciuffo ribelle e le ottime camicie bianche, prono a ricevere interdetto i voleri del feudatario, in una Milano ignota e un po’ ostile.
Ciò avveniva dopo che l'Inter aveva perso una Supercoppa con la Roma, che non lpaveva neanche festeggiata. Questo si può aggiungere, copo che Mancini in tv ha lanciato il suo uppercut alla società, la squadra, la città, i tifosi:
Tutto ciò è ben Milano. Epitomizza l’Italia milanese di questi anni, molta boria e poco ingegno. Non si discute di un club che ha rovinato e scartato un’ottima nazionale: Toldo, Pasquale, Grosso, Cannavaro, Materazzi, Pirlo, Cristiano Zanetti, Morfeo, Semioli, Vieri, Corradi, allenatore Lippi. Di un bilancio ignoto, anche se benedetto dalla nobile Procura milanese, che si presume pagato di tasca propria dal patron. Del quale si sapeva in anticipo anche che sarebbe stato assolto dal collocamento bidone in Borsa della sua Saras due anni e mezzo fa - la Procura partenopea di Milano sa chi perseguire (anche questo di poteva leggere su Anti.it, il 27 settembre). Né si discute del commercio dei calciatori estero su estero, meglio se cari, le provvigioni sono più alte. In passato questa è stata una delle vie per lasciare soldi all’estero, una quota delle provvigioni ai procuratori. Si sono comprati giocatori in serie ovunque nel mondo, mai utilizzati. Ci fu chi comprò intere squadre di calcio, in Francia, Spagna, Grecia, per meglio ampliare la riserva. Questo non è naturalmente il caso dell’Inter, né di Moratti. Anche gli arbitraggi a favore e, quest’anno, quelli dichiaratamente contro, notevolissima novità nella pur variegata panoplia della corruzione italiana, non sono stati fatti, come tutti sanno, per favorire l’Inter. Che solo deve vincere in Italia, poiché fuori le perde tutte. E Mancini in fondo chi è? Uno che ha vinto le coppe e le supercoppe che nessuno vuole, e un campionato da cui i compari avevano provveduto a estromettere la Juventus, il Milan, la Fiorentina, e i banchieri la Roma.
In fondo sono solo partite di calcio. Di solido ci sono i 250 milioni di euro di finanziamenti pubblici che ingrassano, nella Sardegna del virtuoso Soru, la Saras. Che può così fare tanti profitti da pagarsi, a Milano, l’Inter. Con la quale scardinare il foot-ball, l’unica cosa che ancora non era milanese, non tutta.
Mancini è per Moratti un servo di casa
Quando l’Inter vince e quando perde sempre si discute di Mancini. Che di quella squadra, di trentasei nazionali di tutto il mondo, è in fondo solo l’allenatore. Mancini, l’uomo più pagato del calcio, più di Totti per dire, o di chi fa venti e trenta gol a campionato, viene detto sempre sul punto di essere licenziato: o perché non vince, o perché il gioco non è bello, o perché, se vince sempre, non fa giocare questo e quello. Cattiveria dei giornalisti? Può darsi. Ma una ragione c’è, ed è che il suo patron Moratti lo considera, più o meno, un servo di casa. Ora che ha vinto, dice: “Non dubitavo che Mancini avrebbe raddrizzato le cose”. Quando alternativamente gli chiedono se lo manderà via per prendere Mourinho, non rifiuta la domanda, ma risponde: “Ha un contratto con noi, intendiamo rispettarlo”. Mai un segno di stima, se non di amicizia. Né di rispetto professionale. L’Inter è il feudo del “giovane” Moratti, che ancora non ha scoperto che la storia ha girato millennio. Il suo superpagato Mancini non è il dio del calcio italiano, ma s’immagina ogni mattina come un qualsiasi vassallo, col ciuffo ribelle e le ottime camicie bianche, prono a ricevere interdetto i voleri del feudatario, in una Milano ignota e un po’ ostile.
Ciò avveniva dopo che l'Inter aveva perso una Supercoppa con la Roma, che non lpaveva neanche festeggiata. Questo si può aggiungere, copo che Mancini in tv ha lanciato il suo uppercut alla società, la squadra, la città, i tifosi:
Tutto ciò è ben Milano. Epitomizza l’Italia milanese di questi anni, molta boria e poco ingegno. Non si discute di un club che ha rovinato e scartato un’ottima nazionale: Toldo, Pasquale, Grosso, Cannavaro, Materazzi, Pirlo, Cristiano Zanetti, Morfeo, Semioli, Vieri, Corradi, allenatore Lippi. Di un bilancio ignoto, anche se benedetto dalla nobile Procura milanese, che si presume pagato di tasca propria dal patron. Del quale si sapeva in anticipo anche che sarebbe stato assolto dal collocamento bidone in Borsa della sua Saras due anni e mezzo fa - la Procura partenopea di Milano sa chi perseguire (anche questo di poteva leggere su Anti.it, il 27 settembre). Né si discute del commercio dei calciatori estero su estero, meglio se cari, le provvigioni sono più alte. In passato questa è stata una delle vie per lasciare soldi all’estero, una quota delle provvigioni ai procuratori. Si sono comprati giocatori in serie ovunque nel mondo, mai utilizzati. Ci fu chi comprò intere squadre di calcio, in Francia, Spagna, Grecia, per meglio ampliare la riserva. Questo non è naturalmente il caso dell’Inter, né di Moratti. Anche gli arbitraggi a favore e, quest’anno, quelli dichiaratamente contro, notevolissima novità nella pur variegata panoplia della corruzione italiana, non sono stati fatti, come tutti sanno, per favorire l’Inter. Che solo deve vincere in Italia, poiché fuori le perde tutte. E Mancini in fondo chi è? Uno che ha vinto le coppe e le supercoppe che nessuno vuole, e un campionato da cui i compari avevano provveduto a estromettere la Juventus, il Milan, la Fiorentina, e i banchieri la Roma.
In fondo sono solo partite di calcio. Di solido ci sono i 250 milioni di euro di finanziamenti pubblici che ingrassano, nella Sardegna del virtuoso Soru, la Saras. Che può così fare tanti profitti da pagarsi, a Milano, l’Inter. Con la quale scardinare il foot-ball, l’unica cosa che ancora non era milanese, non tutta.