Una delle prime telefonate di congratulazioni a Berlusconi è arrivata da Tony Blair: l’ex premier, che ambisce alla presidenza del consiglio dell’Unione Europea, è col suo amico italiano praticamente certo di ottenerla. La carica è prevista dal nuovo Trattato dell’Unione, che entrerà in vigore a gennaio, e configura una sorte di vero governo europeo.
Il governo italiano è la chiave per sbloccare la contrapposizione tra socialisti e popolari che rischiava di bloccare la nomina di Blair. Il fronte di centro destra gli aveva contrapposto una serie di nomi, i primi ministri del Lussemburgo, della Danimarca e dell’Irlanda, Juncker, Rasmussen e Ahern, e il presidente in carica della Commissione, Barroso. La contrapposizione avrebbe dovuto sbloccarsi, nei calcoli del governo tedesco, con la nomina dell’ex ministro degli Esteri di Berlino, Joschka Fischer, Verde e quindi accettabile dai due schieramenti. Ma la vittoria di Berlusconi torna a far pendere la bilancia a favore di Blair. La considerazione è stata fatta dallo stesso ambasciatore della Germania, Michael Steiner. La cancelliera Angela Merkel sta studiando come tornare a essere determinante, ma la partita sembra già giocata.
Quello di Berlusconi è ora il partito più forte tra i Popolari europei. Ai quali ha dato un impulso straordinario per la misura della sua vittoria elettorale. Dati i personali rapporti tra i due personaggi, e la disponibilità, di cui Berlusconi si fa una bandiera, di candidare anche personalità di schieramenti avversi, come Bonino e Amato, si dà per scontato che Berlusconi sosterrà Blair. E anzi, si dice, lo candiderà in proprio.
Contro Blair gioca il fatto di rappresentare un paese non fondatore dell’Ue, che resta fuori dell’euro e di Schengen. Ma anche gli altri candidati hanno dei punti deboli. La Daminarca è anch’essa fuori dell’euro. Il Lussemburgo è uno Stato minimo, e ora sotto contestazione come paradiso fiscale. Ahern è stato rinviato a giudizio per concussione quando era ministro delle Finanze quindici anni fa, e per questo lascerà la guida del governo il prossimo 6 maggio. Barroso, in carica come presidente della Commissione, non sarebbe una buona scelta in quanto il Trattato di Lisbona intende innovare. Blair d’altra parte, può far valere il solido impegno personale quale mezzo per europeizzare definitivamente la Gran Bretagna.
mercoledì 16 aprile 2008
Come si batte Berlusconi? Coi botti
Si chiedono già i conti ai vincitori. Perché non danno una Camera a Veltroni? Dove prendono i soldi per abolire l’Ici? E il bollo auto? E il bonus bebè? E la detassazione degli straordinari? L'aumento delle pensioni minime? L’aumento ai dipendenti pubblici? L'assunzione dei precari? E toglieranno l'Ici prima casa anche alla villa con piscina? E a chi venderanno l’Alitalia? Che faranno con la Lega? Che ha già fatto la secessione. Veltroni farà il temibile governo ombra, che tanti altri hanno fatto prima di lui senza traccia nella memoria, Berlusconi che fa? La “cassa infernale” si è subito messa in moto.
Si chiama cassa infernale nella pirotecnica napoletana il susseguirsi di botti sempre più rapidi e potenti che conclude lo spettacolo, ma nell’opinione italiana ormai precede qualsiasi altro spettacolo. Il modello Rai-Repubblica, “confessa i tuoi peccati”, di preti che, loro, non peccano ma sono lì per estorcere confessioni, si è subito messo in moto. Un sacerdozio allargato alle beghine e ai begardi, le maestrine d'Italia così attente alle ragioni del Cuore, del libro "Cuore", e le rosybindi e i franceschini che dicono amen all’inarrestabile sir uolter, che pure nella sconfitta continua a parlare inglese, nell’inconfondibile tono piatto dell’uomo in trance. Confortato dal mago Piepoli, da ultimo con la crescita in città", ma partito urbano. Adesso aspettiamo Abu Omar, le veline, le corna, e le barzellette, quelle dell’“Economist” comprese, e ri ricatti delle banche d’affari in gara sul “Financial Times".
Dice: è la libertà, la stampa dev'essere critica. Bene. E perché non si chiede come mai Berlusconi vince le elezioni con nove punti di distacco. Le vince anche senza la Lega. Le vince anzi con quattordici punti di distacco (quelli dell’Udc votano contro Veltroni, solo il loro capo si può illudere del contrario, impegnato com’è ad assistere alla poppata dei bambini - assistere alla poppata?). Le vince coi voti degli operai e dei pensionati, mentre sir Uolter ha i soldi e la stima dei ricchi - ne ha la stima ma non il voto, i ricchi implacabili confessano di aver votato Casini: i Fiat, i Pirelli, e Rovati, il consigliere più stretto di Prodi (in cuor loro tremando per Berlusconi, per via della detassazione e dell'Irap). E perderà ma per ora vince pure a Roma, dopo otto anni di feste bianche e strade rotte, e quattro o cinque elezioni passate trionfalmente al primo turno, facendo tremare il “modello Bettini”. È su questo che la politica si sta affannando in queste ore, la possibile crisi del modello dei buoni affari, lasciando ai media il “dovere della critica”.
Si chiama cassa infernale nella pirotecnica napoletana il susseguirsi di botti sempre più rapidi e potenti che conclude lo spettacolo, ma nell’opinione italiana ormai precede qualsiasi altro spettacolo. Il modello Rai-Repubblica, “confessa i tuoi peccati”, di preti che, loro, non peccano ma sono lì per estorcere confessioni, si è subito messo in moto. Un sacerdozio allargato alle beghine e ai begardi, le maestrine d'Italia così attente alle ragioni del Cuore, del libro "Cuore", e le rosybindi e i franceschini che dicono amen all’inarrestabile sir uolter, che pure nella sconfitta continua a parlare inglese, nell’inconfondibile tono piatto dell’uomo in trance. Confortato dal mago Piepoli, da ultimo con la crescita in città", ma partito urbano. Adesso aspettiamo Abu Omar, le veline, le corna, e le barzellette, quelle dell’“Economist” comprese, e ri ricatti delle banche d’affari in gara sul “Financial Times".
Dice: è la libertà, la stampa dev'essere critica. Bene. E perché non si chiede come mai Berlusconi vince le elezioni con nove punti di distacco. Le vince anche senza la Lega. Le vince anzi con quattordici punti di distacco (quelli dell’Udc votano contro Veltroni, solo il loro capo si può illudere del contrario, impegnato com’è ad assistere alla poppata dei bambini - assistere alla poppata?). Le vince coi voti degli operai e dei pensionati, mentre sir Uolter ha i soldi e la stima dei ricchi - ne ha la stima ma non il voto, i ricchi implacabili confessano di aver votato Casini: i Fiat, i Pirelli, e Rovati, il consigliere più stretto di Prodi (in cuor loro tremando per Berlusconi, per via della detassazione e dell'Irap). E perderà ma per ora vince pure a Roma, dopo otto anni di feste bianche e strade rotte, e quattro o cinque elezioni passate trionfalmente al primo turno, facendo tremare il “modello Bettini”. È su questo che la politica si sta affannando in queste ore, la possibile crisi del modello dei buoni affari, lasciando ai media il “dovere della critica”.
Il Partito Dolori
Molti prodiani hanno votato Casini e non lo nascondono: gli ex Dc della Margherita non sanno che faranno. Sono usciti dimezzati al Sud e al Nord rispetto alla consistenza che avevano nella Margherita, e il motivo a loro avviso è uno solo: il centralismo di Veltroni. A Nord soprattutto i beghini del Pd rosicano, avendo dovuto fare posto a due nullità come Calearo e Colaninno jr., che non hanno portato un solo voto, per le smanie di rinnovamento del Capo. Il risentimento è anche degli indipendenti, Soru, Illy, Cacciari, lo stesso Chiamparino, che pensavano di avere un ruolo e dare un contributo, per essere stati sopravanzati dai Calearo. Si aspetta il secondo turno delle amministrative e poi si vedrà, da Bologna già giungono segnali precisi. Ma se Berlusconi dovesse accedere a qualche nomina bipartisan, con esponendi cioè del Pd, il dissidio potrebbe emergere prima.
Il secondo turno è decisivo a Roma: se Rutelli non ce la facesse salterebbe il modello Roma, o modello Bettini, che regola le grandi città (gli appalti, il credito, il lavoro), e gli amici sono molto sensibili agli assetti di potere. Il modello è quello sintetizzato dall’Avvocato Agnelli in clima compromissorio: solo la sinistra garantisce gli affari. Ma se Roma lo rifiutasse, allora da Bologna il segnale è chiaro: rimescolare le carte in un congresso del Pd, e rimettere in circolo Casini per il partito del Centro. Prodi si smarca da Veltroni ma non dal Pd, ha preso gusto a sentirsi capo-partito, e non dalle questioni di potere.
Il Pd ha tenuto ma solo sulla sinistra politica. E al centro geografico - non tutto: nel Lazio solo a Roma, anche se non abbastanza. Il partito Democratico al debutto sarà, come vuole Veltroni, l’unica realtà della sinistra, ma al suo interno alcuni ex Ds e molti ex Dc hanno il magone: non sanno che faranno, ma oscillano tra l’abbandono e la rivolta. Questi ultimi in particolare: in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, hanno perduto posizioni consolidate, a favore dei veltroniani e di Casini. Al Nord e al Sud, pur annichilando la sinistra, il Pd ha raccolto meno che nelle passate elezioni. Il dato è certo e il motivo è semplice: molti ex compagni dall’Appennino in su hanno preferito la Lega, mentre da Rieti in giù molti ex amici, risentiti dalla mano dura di Veltroni, “il comunista”, hanno votato Casini o Berlusconi.
Il secondo turno è decisivo a Roma: se Rutelli non ce la facesse salterebbe il modello Roma, o modello Bettini, che regola le grandi città (gli appalti, il credito, il lavoro), e gli amici sono molto sensibili agli assetti di potere. Il modello è quello sintetizzato dall’Avvocato Agnelli in clima compromissorio: solo la sinistra garantisce gli affari. Ma se Roma lo rifiutasse, allora da Bologna il segnale è chiaro: rimescolare le carte in un congresso del Pd, e rimettere in circolo Casini per il partito del Centro. Prodi si smarca da Veltroni ma non dal Pd, ha preso gusto a sentirsi capo-partito, e non dalle questioni di potere.
Il Pd ha tenuto ma solo sulla sinistra politica. E al centro geografico - non tutto: nel Lazio solo a Roma, anche se non abbastanza. Il partito Democratico al debutto sarà, come vuole Veltroni, l’unica realtà della sinistra, ma al suo interno alcuni ex Ds e molti ex Dc hanno il magone: non sanno che faranno, ma oscillano tra l’abbandono e la rivolta. Questi ultimi in particolare: in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, hanno perduto posizioni consolidate, a favore dei veltroniani e di Casini. Al Nord e al Sud, pur annichilando la sinistra, il Pd ha raccolto meno che nelle passate elezioni. Il dato è certo e il motivo è semplice: molti ex compagni dall’Appennino in su hanno preferito la Lega, mentre da Rieti in giù molti ex amici, risentiti dalla mano dura di Veltroni, “il comunista”, hanno votato Casini o Berlusconi.
lunedì 14 aprile 2008
L"inesauribile letizia" di Rosa Luxemburg
Il 28 giugno 1916 Rosa Luxemburg fu arrestata con Karl Liebknecht dopo uno sciopero, proibito in guerra, e condannata a due anni di carcere. In carcere scrisse articoli, compreso il famoso “La Rivoluzione Russa”, sul rischio di una dittatura boscevica in Russia, e il “Pamphlet Junius”, con l’alternativa “socialismo o barbarie”. In carcere scrisse anche alla sorella di Liebknecht, Sonja. Fra le tante una lettera sulla sofferenza degli animali, che Karl Kraus pubblicherà due anni dopo, dopo la morte di Rosa, e Marco Rispoli ripresenta in questo aureo libretto, insieme con l’articolo di Kraus, e altri pezzi sulla sofferenza animale di Kafka, Canetti e Joseph Roth.
Un po’ di compassione per gli animali, dunque. Ma è anche una maniera per Rosa Luxemburg, una figura sommersa anch’essa dalla caduta del Muro, di tornare all’attenzione. La bizzarria è che, nella traduzione di Rispoli, la lettera della Luxemburg sembra un capolavoro, al confronto degli altri contributi, Kafka compreso. In grazia, direbbe lei, della “mia inesauribile letizia interna”. Riesce ad amare anche la notte: “La profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare”. In più della riconosciuta sensibilità politica: una cosa giusta la rivoluzione in Russia l’ha fatta, “ha ripulito l’aria dai miasmi” e dai pogrom. In Germania invece: “Riesco piuttosto a immaginarmi dei pogrom… in Germania”. Sembra una cosa fuori del mondo, ma: “Di certo vi è l’atmosfera giusta, fatta di bassezza, vigliaccheria, reazione e ottusità”.
Di Rosa Luxemburg si parla ancora per la vicenda umana. Uscita di prigione, Rosa si oppose nel 1918 alla sollevazione Spartachista, che riteneva avventata, e alla formazione del Partito Comunista perché prematura. All’alba della Rivolta di Gennaio, il 15 gennaio 1919, venne rapita e assassinata, a colpi di canna da fucile, dice Kraus, insieme con Liebknecht, dai soldati dei Freikorps, agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert. L’operazione ha un risvolto romanzesco che non va taciuto. Il rapimento fu reso possibile grazie al pedinamento di Wilhelm Pieck, il futuro presidente della Germania Est. Ma Pieck, preso assieme agli altri, fu rilasciato. Da qui l’ipotesi che Rosa Luxemburg e Liebknecht siano stati “venduti” ai Freikorps da Karl Radek, il capo del comunismo tedesco, in sintonia con Lenin.
Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, pp.65, €5,50
Un po’ di compassione per gli animali, dunque. Ma è anche una maniera per Rosa Luxemburg, una figura sommersa anch’essa dalla caduta del Muro, di tornare all’attenzione. La bizzarria è che, nella traduzione di Rispoli, la lettera della Luxemburg sembra un capolavoro, al confronto degli altri contributi, Kafka compreso. In grazia, direbbe lei, della “mia inesauribile letizia interna”. Riesce ad amare anche la notte: “La profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare”. In più della riconosciuta sensibilità politica: una cosa giusta la rivoluzione in Russia l’ha fatta, “ha ripulito l’aria dai miasmi” e dai pogrom. In Germania invece: “Riesco piuttosto a immaginarmi dei pogrom… in Germania”. Sembra una cosa fuori del mondo, ma: “Di certo vi è l’atmosfera giusta, fatta di bassezza, vigliaccheria, reazione e ottusità”.
Di Rosa Luxemburg si parla ancora per la vicenda umana. Uscita di prigione, Rosa si oppose nel 1918 alla sollevazione Spartachista, che riteneva avventata, e alla formazione del Partito Comunista perché prematura. All’alba della Rivolta di Gennaio, il 15 gennaio 1919, venne rapita e assassinata, a colpi di canna da fucile, dice Kraus, insieme con Liebknecht, dai soldati dei Freikorps, agli ordini del governo del socialdemocratico Friedrich Ebert. L’operazione ha un risvolto romanzesco che non va taciuto. Il rapimento fu reso possibile grazie al pedinamento di Wilhelm Pieck, il futuro presidente della Germania Est. Ma Pieck, preso assieme agli altri, fu rilasciato. Da qui l’ipotesi che Rosa Luxemburg e Liebknecht siano stati “venduti” ai Freikorps da Karl Radek, il capo del comunismo tedesco, in sintonia con Lenin.
Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, pp.65, €5,50
Venezia e l'amore che non si dice(va)
Lontano cugino di Pasolini, più giovane di lui di sette anni, Naldini è stato compagno di scorribande del poeta, e poi appassionato suo curatore e biografo. Insieme, dirà, avevano in comune “la risata completamente muta”. Escluso dall’eredità, anche letteraria, Naldini ha riacquistato con lentezza una sua autonomia di scrittura, allontanandosi anche fisicamente dagli ambienti che la presenza massiccia di Pasolini ingombra. La sua cifra è ora quella della sessualità libera del più giovane Tony Duvert, che l’ha preceduto anche fisicamente in Nord Africa, dove l’amore dei ragazzi è (si suppone) libero. Nella prima narrativa, “Come non ci si difende dai ricordi”, di due anni fa, Pasolini è sempre presente, ma già con un certo distacco. La fuga a Roma di Pier Paolo e della madre Susanna, per abbandonare il padre Carlo Alberto, vi è già un racconto. O Parise che fa la pennichella in albergo a Milano sporcaccione tra le lenzuola. Di altri veneti ci sono ottimi ritratti, Bartolo Cattafi, Biagio Marin, e di Vittorio Sereni. E di Guido Pasolini, il fratello minore di Pier Paolo, coraggioso, pugnace, anche in difesa del fratello, e figlio mal amato. Liberamente di Pier Paolo Naldini vi tratteggia la sessualità brutale, rozza (un primo moto di distacco l’aveva avuto col contributo a “Desiderio di Pasolini”, la collettanea pubblicata nel 1990 da Stefano Casi sull’omosessualità “non accettata” del poeta).
Sulla stessa vena Naldini tratteggia in questa brochure, sotto forma di “lettere non spedite”, una serie di personaggi visto o incontrati a Venezia all’epoca dei suoi studi negli anni 1950. Ancora con timidezza, ma sapendo già narrare di se stesso. Direttamente e sotto le specie di De Pisis, dell’inevitabile De Pisis, e a sorpresa di Frederick Rolfe, il Baron Corvo ultimamente scomparso dagli scaffali ma gran protagonista di quella Venezia.
Nico Naldini, Il nobile Von., Manni, pp.47
Sulla stessa vena Naldini tratteggia in questa brochure, sotto forma di “lettere non spedite”, una serie di personaggi visto o incontrati a Venezia all’epoca dei suoi studi negli anni 1950. Ancora con timidezza, ma sapendo già narrare di se stesso. Direttamente e sotto le specie di De Pisis, dell’inevitabile De Pisis, e a sorpresa di Frederick Rolfe, il Baron Corvo ultimamente scomparso dagli scaffali ma gran protagonista di quella Venezia.
Nico Naldini, Il nobile Von., Manni, pp.47
"Nessuno è mai morto per il capitalismo"
L’eugenetica (bisogna non nascere? bisogna morire?), l’evoluzione, lo statuto dei lavoratori, negli anni 1920. E la prevedibile serie di battute. “Indossava gli occhiali scientifici più avanzati e più potenti chiudendo gli occhi”. “Il tiranno non governa con la sola forza, anzi governa soprattutto con la parola”. “Una vera rivoluzione ha tutti i colori dell’aurora, o della fine del mondo”. Con Chesterston non ci si annoia, anche in questa "Utopia degli usurai" rimasta così a lungo inedita in Italia.
Chesterston è in Italia vittima di se stesso, un anticonfomista ridotto a pedagogo e a moralista per essere cattolico. Bompiani ripubblica tal quali le vecchie Edizioni Paoline di Gian Dàuli, di cinquant'anni fa. Che ripetevano quelle Alpes, dello stesso Gian Dàuli, di ottant'anni fa. Ciò malgrado "L'osteria volante", con la sua alleanza segreta tra i potentati economici occidentali e i cattivi dell'islam, resta godibile. Anzi è forse di lettura più brllante in questa epoca complottarda.
Chesterston è una lettura sempre speciale: richiede che si entri in un linguaggio diverso, un modo di rappresentare il mondo diverso, benché rispettoso della grammatica e della sintassi. Enrico Ghezzi, che riedita il romanzo, evoca la "concretezza fantastica dell'astratto". E' il principio anarchico applicato alla stessa scrittura, e per questo imprevedibile. E' la cifra anche di Conan Doyle, depurata delle melensaggini e le lungaggini, e la fortuna di Sherlock Holmes, l'approccio irrispettoso, verbalmente violento: lo scherzo è lo scarto.
"L'utopia degli usurai" rende fruibili alcuni degli sketch giornalistici sui quali la fama di Chesterston si è costituita, ma la cui conoscenza è limitata in Italia alla raccolta "Ortodossia". Quelli scritti per il “Daily Herald”, il quotidiano socialista, dopo una lunga militanza col "Daily Mail”, abbandonato per il rifiuto di condannare la corruzione del partito liberale al governo. Il creatore di Padre Brown vi scrive da destra le cose di sinistra. Gli articoli, riveduti dall’autore e postillati riccamente, sono confluiti in un libro per il pubblico americano. Con effetti sorprendenti: la Società degli usurai è il socialismo burocratico... Ma soprattutto con un senso vivo della realtà, per tanti aspetti ritornante, come si vede dall’indice, senza il gossip, l’acquario, il velinaggio: una boccata di realtà col denaro, l’avidità e lo sfruttamento, e con le verità che non si dicono: “Nessuno è mai morto per il capitalismo”. C’è un fondo di anarchia in ogni conservatore.
G.K.Chesterston, L’utopia degli usurai, excelsior 1881, pp.260, € 15,50
L'osteria volante, Bompiani, pp. 322, € 8,40
Chesterston è in Italia vittima di se stesso, un anticonfomista ridotto a pedagogo e a moralista per essere cattolico. Bompiani ripubblica tal quali le vecchie Edizioni Paoline di Gian Dàuli, di cinquant'anni fa. Che ripetevano quelle Alpes, dello stesso Gian Dàuli, di ottant'anni fa. Ciò malgrado "L'osteria volante", con la sua alleanza segreta tra i potentati economici occidentali e i cattivi dell'islam, resta godibile. Anzi è forse di lettura più brllante in questa epoca complottarda.
Chesterston è una lettura sempre speciale: richiede che si entri in un linguaggio diverso, un modo di rappresentare il mondo diverso, benché rispettoso della grammatica e della sintassi. Enrico Ghezzi, che riedita il romanzo, evoca la "concretezza fantastica dell'astratto". E' il principio anarchico applicato alla stessa scrittura, e per questo imprevedibile. E' la cifra anche di Conan Doyle, depurata delle melensaggini e le lungaggini, e la fortuna di Sherlock Holmes, l'approccio irrispettoso, verbalmente violento: lo scherzo è lo scarto.
"L'utopia degli usurai" rende fruibili alcuni degli sketch giornalistici sui quali la fama di Chesterston si è costituita, ma la cui conoscenza è limitata in Italia alla raccolta "Ortodossia". Quelli scritti per il “Daily Herald”, il quotidiano socialista, dopo una lunga militanza col "Daily Mail”, abbandonato per il rifiuto di condannare la corruzione del partito liberale al governo. Il creatore di Padre Brown vi scrive da destra le cose di sinistra. Gli articoli, riveduti dall’autore e postillati riccamente, sono confluiti in un libro per il pubblico americano. Con effetti sorprendenti: la Società degli usurai è il socialismo burocratico... Ma soprattutto con un senso vivo della realtà, per tanti aspetti ritornante, come si vede dall’indice, senza il gossip, l’acquario, il velinaggio: una boccata di realtà col denaro, l’avidità e lo sfruttamento, e con le verità che non si dicono: “Nessuno è mai morto per il capitalismo”. C’è un fondo di anarchia in ogni conservatore.
G.K.Chesterston, L’utopia degli usurai, excelsior 1881, pp.260, € 15,50
L'osteria volante, Bompiani, pp. 322, € 8,40
Montalbano s'impegna ma non ne ha voglia
L’aneddoto del “Campo del vasaio”, l’ultimo Montalbano, è magro (è evangelico). Benché sublimi la vendetta, passione perdurante nell’età dell'acquario. E l’autore si sorpassa, a grande velocità – è a un libro al mese. Non ha più “gana” di Montalbano, e neppure dei romanzi storici. Perfino Caravaggio gli resta al di sotto del ricchissimo personaggio quale fu Caravaggio, anche in un ottimo libro del suo editore, quello che lo ha lanciato, Sellerio, su Caravaggio in Sicilia (non c’è neppure Caravaggio a Messina, dove ha lavorato a lungo tra molte ombre, c’è Caravaggio a Palermo, che non c’era). Ma tutto quello che non può più ingurgitare, di whisky e pesce di giornata, lo divora come scrittore civile, di se stesso, e del profumo di donna, nei romanzi "francesi" e nella favola della sirena Maruzza bene in carne.
Montalbano stesso è stanco. Non ha sorprese, non incontra più straordinari personaggi, non apre insomma la Sicilia trascendentale come soleva. Lui dichiaratamente non ha “gana”, neanche di menù succulenti. È sempre sostenuto con brio da Salvatore Silvano Nigro, ma niente. Per inventarsi qualcosa il suo scrittore preferito Camilleri deve traviargli l’impalpabile vice Augello, figurarsi. Mentre lui, l’eroe del “vaffa” ante litteram, se stesso fantasmizza quale cavaliere della Resistenza, a Mussolini, agli americani, alla mafia e a Berlusconi, che chiama lo stronzo e contro il quale si voleva pure dimettere, in un precedente romanzo.
Può essere l’età. Ma, conoscendola, è la Sicilia che s’è ripresa Montalbano-Camilleri, la Sicilia del cliché. Da sfottente, scorbutico, geniale, come un vero siciliano, il personaggio è diventato col suo autore il siciliano obbligato, e il bozzettismo dilaga, come già ne “Il re di Girgenti”, nella “Biografia del figlio cambiato”, e ora in "Maruzza Musumeci". Che va avanti per due terzi come un promettente racconto gotico (riesce perfino la scena di sesso, che la ricetta del libro che si vende vuole a un terzo della narrazione, e altrove in Camilleri è sempre impacciata), ma poi inciampa nei fascisti e la guerra, contro cui tutti siamo. Entrambi sembra che vogliano dare ragione a Calvino, quando rimproverava a Sciascia una Sicilia risaputa: “Questa Sicilia è la società meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido, cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologie, pettegolezzi, delitti, non hanno più segreti”.
Montalbano è, era, il tipico fascistone, con la fidanzata, gli amici, i subordinati, i superiori, duro e anarchico. Simpatico, e anche giusto, ma non comunista come si professa, non nel senso degli appelli e la mobilitazione permanente. Nei suoi romanzi tutto finora si è svolto nel segno di questa figura, molto meridionale, di una parte del meridione. Sono del fascistone i cliché che fanno Montalbano consolatorio. I luoghi comuni: tutto è bello in Sicilia, gli sbirri sono un po’ scemi (in basso e in alto, i piantoni e i questori), la politica è bugiarda e ladra, la mafia strana, le donne infide, e c’è pure la svedese, facile. Il lieto fine. I ruoli notabilari. L’immutabilità soddisfatta. Tutto peraltro realistico. Molto. Sicuramente più del tutto mafioso, e più produttivo. Ma in un quadro di compiaciuta stabilità. Che questo Montalbano abbia stufato il suo scrittore preferito, Camilleri, è possibile: lo scrittore ora si diverte con la vena civile. Aveva smentito Calvino, che sempre a Sciascia, a proposito di “A ciascuno il suo”, aveva stabilito “l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”. Ora non più – Calvino ha sempre ragione, per un autore della vena civile.
La vena civile è l’improbabile Resistenza. Da tempo Montalbano ha virato al politicamente corretto, tratta gli incidenti sul lavoro, la tratta degli immigrati e dei bambini, la Lega, l’omosessualità latente di Catarella, oltre alla gamma rituale degli antiberlusconismi. Anche Camilleri autobiografizza l’impegno, è quasi convinto di aver fatto la Resistenza, e ne è alfiere, contro la mafia e contro naturalmente Berlusconi. In compagnia di altri personaggi implausibili, Paolo Flores, Di Pietro, Travaglio, etc. Come in un quasiasi articolo di giornale.
L’impegno contro la mafia Camilleri sente stranamente alla Biagi. Stranamente per un siciliano, poiché magnifica Provenzano nei suoi pizzini. “Voi non sapete” è un libro contro la mafia, ma Provenzano sarà lusingato da un libro sui suoi pizzini. Non è il primo o il solo, bisogna darne atto a Camilleri. Ma Provenzano sarà lusingato in questa antologia mondadoriana del suo ruolo di prim’attore, in un libro di successo, orchestrato dal più grande siciliano sulla terra – Camilleri, che è uomo di teatro, lo sa. Una furbata editoriale ma non solo, poiché la firma l’autore più amato dagli italiani.
È un libro fastidioso. Volgare e indisponente. Provenzano è, col suo capo Riina, uno dei delinquenti più sanguinosi della storia mondiale. Ma qui è come La Fontaine, come lord Brummel. C’è perfino la mafia buona, quella “vecchia”. E il Capo della procura antimafia che vi certifica l’“assoluta sofferenza” di Provenzano ogni volta che ha dovuto ordinare un crimine, cioè ogni giorno – “dovuto”? Questa pubblicistica, che non è storia, non è antimafia, non è giustizia, ma fa tesoro della curiosità morbosa, non è niente di diverso dalla biografia di un pedofilo, uno stupratore, ogni altro delinquente abietto. Il mafioso ha un cervello semplificato: è rozzo. E nessun altro “significato” di cui valga la pena fare l’analisi. Provenzano è più notevole degli altri solo perché ha al suo attivo una quarantina di killeraggi. E quarantatré anni di finta latitanza, di cui non viene chiamato a rendere conto. Camilleri fa la semiotica dei suoi pizzini, gli appunti sgangherati con cui comunicava coi suoi affiliati. Come di un linguaggio superiore, analizzato con la stessa cura che si dedicherebbe a un’opera letteraria. Finendo per magnificare la mafia anche nel suo aspetto meno magnificabile, l’inarticolazione verbale, per analfabetismo o incapacità di argomentare - di uno che pure ha un figlio professore all'università di italiano, si vede che il crimine è incorreggibile. Una grande tristezza.
Si può aggiungere che Berlusconi, che Camilleri ultimamente chiama Berluscazzoni, è con Mondadori il suo editore principale. Che molto investe sullo scrittore e coraggiosamente ne valorizza ogni parola, compresi gli scarti, per tutti i lettori, dai Miti ai Meridiani che lo consacrano, ai Cd, ai Dvd, e al nuovo filone dei romanzi francesi, o dell’odor di femmina. E porrebbe un problema, a ogni resistente: come mai questo cazzone prende due voti su tre in Sicilia, da tempo ormai immemorabile. Ma non si può pretendere da Montalbano la soluzione di ogni rebus.
“Il tailleur grigio” è, come “La pensione Eva”, e la stessa favola di "Maruzza Musumeci", il sesso riportato al quotidiano. Di nuovo, nella formula del romanzo francese o di moeurs, c’è il colore: il rosa dell’adulterio è virato al nero – da qui il grigio del romanzo mondadoriano? Il romanzo francese in Italia è invenzione ormai secolare, tra Marco Praga, "La biondina", Ada Negri e Umberto Notari, o Guido da Verona, o Pitigrilli - se misurato sul Verga fiorentino anzi più che secolare, sono passati quasi centocinquant’anni. Anche se nobilitata quale letteratura Fine Secolo, di orizzontali, leonesse, allumeuses e altrettali finezze, e i Fine Secolo ormai sono due. Mentre la donna fatale resta nel novero di Hoffmann, o della letteratura delle androidi, che parte un po' prima, dalle "Misantrofile" di Révéroni de Saint-Cyr. E la sirena nel repertorio mediterraneo, fino all'Idrusa di Otranto che essa molto ricorda. Di diverso c’è, anche qui, l’italiano siculizzato di Montalbano, con cui Camilleri si racconta ora di preferenze le storie che va scrivendo - anche lei è diversa, benché l'aneddoto non sia nuovo, le corna in Sicilia: una moglie “Barbie”, che si anima in prossimità della morte di lui.
Questo italiano dialettizzato, con cui Camilleri raccoglie miriadi di lettori, sarà un fenomeno importante. Con tutto Bossi la Padania non ha avuto un ritorno di letteratura “nazionale”, né la Lombardia, né il Veneto. La Sicilia invece sì. Perché la Sicilia è una nazione, anche senza un Bossi. Anche di numero: tra siciliani dell’isola e siciliani del continente, per non contare quelli dei cinque continenti, fanno bene un popolo. I lombardi probabilmente sono di più, ma non esistono – si dice per dire: non esistono in letteratura. A parte quelli che sono siciliani. O pugliesi, o napoletani. La vera carica leghista – identitaria – è siciliana. Nel bene e nel male.
Nel bene la guida è Camilleri scrittore, che del dialetto ha elaborato una forma intermedia. Portando agli altri lettori, che sono pur sempre la maggioranza, un lessico comprensibile o, dove non lo è, subito tradotto, con la naturalezza teatrale, della scrittura parlata, introducendo cadenze nuove e sorprendenti. “Maruzza” è dialettale nel senso che Montalbano ha da tempo dimenticato, della specialità del tempo e del luogo, della caratterizzazione dei personaggi e delle cose. Con i profumi della terra, la terribilità del mare, per i terragni e non solo, le fantasie di un mondo senza parole. Perfino il “lavoro dei campi” Camilleri riesce a vivificare, la rimonda degli alberi, la bonifica del terreno, l’architettura del necessario. Si diverte anche, e fa divertire, colloquiando per proverbi (quanti proverbi sulle donne!), o magicamente in greco, con versi dell’“Odissea”, senza forzature.
Ma è una lingua d'autore e non un linguaggio - a meno che non sia quello borghese, della borghesia professionale, agrigentina, palermitana: contemporanea del leghismo ma ante Lega, è la lingua, questo italiano farcito di dialetto, delle borghesie meridionali dei medici, i farmacisti, e i baroni, per definizione nostalgici (le baronie siciliane, e più quelle imaginarie, desiderate, sono all'origine del più gran numero di memorie familiari, il genere dominante del tardo Novecento, che si prolunga in questo millennio, in italiano, francese, inglese e frange tedesche). Ma nemmeno questo si può dire del camillerismo.
La speciale lingua di Camilleri non è realistica, di personaggi e ceti che dicono l’italiano ma pensano in dialetto. Né è storica come avrebbe potuto, se Camilleri ha conquistato Milano meglio di Bossi. Prima di diventare insignificante, per incontinenza, è stata il siculo italianizzato alla D'Arrigo. Sì, ed è degno di nota: il siculo di Montalbano è quello del dimenticato autore di "Horcynus Horca", di cui ripete strutture sintattiche, fonemi e idiotismi, più che di Verga, e per niente di Pirandello, che pure è conterraneo di Camilleri, con analogo contrappunto umoristico di idioletti. Una lingua di fantasia, evcativa, sapiente anche, tra persone e vicende che alla lettura (e nei film del geniale Sironi) si presentano archetipiche, stagliate nel mito. Ma artificiosa.
Con un tocco giocoso che può giocare per antifrasi. Sorprendente cioè, lieve com'è e riderella, se i dialetti meridionali sono quelli di Corrado Alvaro, “piagati e grondanti sangue”. Un calco giocoso del terribilismo di Verga, di Pirandello, dei poeti dialettali, e delle cronache - che è anch’esso un calco, di maniera, la maniera della scrittura sociale. Ma liberatorio, meglio ancora che gli ambienti e le storie, per una volta non di mafia (Alvaro dice la lingua del Sud, “la parola magra e disadorna, acuta e dsperata, vestita di pelli e nutrita di locuste”, legata alla Passione, di Cristo).
Montalbano sarà stato l’altra Sicilia che a Calvino sfuggiva, questa quintessenza della nostra civiltà che sopravvive al genere mafioso, al genere editoriale, forse per caso.
Andrea Camilleri, Il campo del vasaio, Sellerio, pp. 285 €12
Voi non sapete, Mondadori, pp.216, € 17
Il colore del sole, Mondadori, pp.111, con 12 foto a colori, €6
Il tailleur grigio, Mondadori, pp.144, €16,50
Maruzza Musumeci, Sellerio, pp. 155, €10
Montalbano stesso è stanco. Non ha sorprese, non incontra più straordinari personaggi, non apre insomma la Sicilia trascendentale come soleva. Lui dichiaratamente non ha “gana”, neanche di menù succulenti. È sempre sostenuto con brio da Salvatore Silvano Nigro, ma niente. Per inventarsi qualcosa il suo scrittore preferito Camilleri deve traviargli l’impalpabile vice Augello, figurarsi. Mentre lui, l’eroe del “vaffa” ante litteram, se stesso fantasmizza quale cavaliere della Resistenza, a Mussolini, agli americani, alla mafia e a Berlusconi, che chiama lo stronzo e contro il quale si voleva pure dimettere, in un precedente romanzo.
Può essere l’età. Ma, conoscendola, è la Sicilia che s’è ripresa Montalbano-Camilleri, la Sicilia del cliché. Da sfottente, scorbutico, geniale, come un vero siciliano, il personaggio è diventato col suo autore il siciliano obbligato, e il bozzettismo dilaga, come già ne “Il re di Girgenti”, nella “Biografia del figlio cambiato”, e ora in "Maruzza Musumeci". Che va avanti per due terzi come un promettente racconto gotico (riesce perfino la scena di sesso, che la ricetta del libro che si vende vuole a un terzo della narrazione, e altrove in Camilleri è sempre impacciata), ma poi inciampa nei fascisti e la guerra, contro cui tutti siamo. Entrambi sembra che vogliano dare ragione a Calvino, quando rimproverava a Sciascia una Sicilia risaputa: “Questa Sicilia è la società meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido, cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologie, pettegolezzi, delitti, non hanno più segreti”.
Montalbano è, era, il tipico fascistone, con la fidanzata, gli amici, i subordinati, i superiori, duro e anarchico. Simpatico, e anche giusto, ma non comunista come si professa, non nel senso degli appelli e la mobilitazione permanente. Nei suoi romanzi tutto finora si è svolto nel segno di questa figura, molto meridionale, di una parte del meridione. Sono del fascistone i cliché che fanno Montalbano consolatorio. I luoghi comuni: tutto è bello in Sicilia, gli sbirri sono un po’ scemi (in basso e in alto, i piantoni e i questori), la politica è bugiarda e ladra, la mafia strana, le donne infide, e c’è pure la svedese, facile. Il lieto fine. I ruoli notabilari. L’immutabilità soddisfatta. Tutto peraltro realistico. Molto. Sicuramente più del tutto mafioso, e più produttivo. Ma in un quadro di compiaciuta stabilità. Che questo Montalbano abbia stufato il suo scrittore preferito, Camilleri, è possibile: lo scrittore ora si diverte con la vena civile. Aveva smentito Calvino, che sempre a Sciascia, a proposito di “A ciascuno il suo”, aveva stabilito “l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”. Ora non più – Calvino ha sempre ragione, per un autore della vena civile.
La vena civile è l’improbabile Resistenza. Da tempo Montalbano ha virato al politicamente corretto, tratta gli incidenti sul lavoro, la tratta degli immigrati e dei bambini, la Lega, l’omosessualità latente di Catarella, oltre alla gamma rituale degli antiberlusconismi. Anche Camilleri autobiografizza l’impegno, è quasi convinto di aver fatto la Resistenza, e ne è alfiere, contro la mafia e contro naturalmente Berlusconi. In compagnia di altri personaggi implausibili, Paolo Flores, Di Pietro, Travaglio, etc. Come in un quasiasi articolo di giornale.
L’impegno contro la mafia Camilleri sente stranamente alla Biagi. Stranamente per un siciliano, poiché magnifica Provenzano nei suoi pizzini. “Voi non sapete” è un libro contro la mafia, ma Provenzano sarà lusingato da un libro sui suoi pizzini. Non è il primo o il solo, bisogna darne atto a Camilleri. Ma Provenzano sarà lusingato in questa antologia mondadoriana del suo ruolo di prim’attore, in un libro di successo, orchestrato dal più grande siciliano sulla terra – Camilleri, che è uomo di teatro, lo sa. Una furbata editoriale ma non solo, poiché la firma l’autore più amato dagli italiani.
È un libro fastidioso. Volgare e indisponente. Provenzano è, col suo capo Riina, uno dei delinquenti più sanguinosi della storia mondiale. Ma qui è come La Fontaine, come lord Brummel. C’è perfino la mafia buona, quella “vecchia”. E il Capo della procura antimafia che vi certifica l’“assoluta sofferenza” di Provenzano ogni volta che ha dovuto ordinare un crimine, cioè ogni giorno – “dovuto”? Questa pubblicistica, che non è storia, non è antimafia, non è giustizia, ma fa tesoro della curiosità morbosa, non è niente di diverso dalla biografia di un pedofilo, uno stupratore, ogni altro delinquente abietto. Il mafioso ha un cervello semplificato: è rozzo. E nessun altro “significato” di cui valga la pena fare l’analisi. Provenzano è più notevole degli altri solo perché ha al suo attivo una quarantina di killeraggi. E quarantatré anni di finta latitanza, di cui non viene chiamato a rendere conto. Camilleri fa la semiotica dei suoi pizzini, gli appunti sgangherati con cui comunicava coi suoi affiliati. Come di un linguaggio superiore, analizzato con la stessa cura che si dedicherebbe a un’opera letteraria. Finendo per magnificare la mafia anche nel suo aspetto meno magnificabile, l’inarticolazione verbale, per analfabetismo o incapacità di argomentare - di uno che pure ha un figlio professore all'università di italiano, si vede che il crimine è incorreggibile. Una grande tristezza.
Si può aggiungere che Berlusconi, che Camilleri ultimamente chiama Berluscazzoni, è con Mondadori il suo editore principale. Che molto investe sullo scrittore e coraggiosamente ne valorizza ogni parola, compresi gli scarti, per tutti i lettori, dai Miti ai Meridiani che lo consacrano, ai Cd, ai Dvd, e al nuovo filone dei romanzi francesi, o dell’odor di femmina. E porrebbe un problema, a ogni resistente: come mai questo cazzone prende due voti su tre in Sicilia, da tempo ormai immemorabile. Ma non si può pretendere da Montalbano la soluzione di ogni rebus.
“Il tailleur grigio” è, come “La pensione Eva”, e la stessa favola di "Maruzza Musumeci", il sesso riportato al quotidiano. Di nuovo, nella formula del romanzo francese o di moeurs, c’è il colore: il rosa dell’adulterio è virato al nero – da qui il grigio del romanzo mondadoriano? Il romanzo francese in Italia è invenzione ormai secolare, tra Marco Praga, "La biondina", Ada Negri e Umberto Notari, o Guido da Verona, o Pitigrilli - se misurato sul Verga fiorentino anzi più che secolare, sono passati quasi centocinquant’anni. Anche se nobilitata quale letteratura Fine Secolo, di orizzontali, leonesse, allumeuses e altrettali finezze, e i Fine Secolo ormai sono due. Mentre la donna fatale resta nel novero di Hoffmann, o della letteratura delle androidi, che parte un po' prima, dalle "Misantrofile" di Révéroni de Saint-Cyr. E la sirena nel repertorio mediterraneo, fino all'Idrusa di Otranto che essa molto ricorda. Di diverso c’è, anche qui, l’italiano siculizzato di Montalbano, con cui Camilleri si racconta ora di preferenze le storie che va scrivendo - anche lei è diversa, benché l'aneddoto non sia nuovo, le corna in Sicilia: una moglie “Barbie”, che si anima in prossimità della morte di lui.
Questo italiano dialettizzato, con cui Camilleri raccoglie miriadi di lettori, sarà un fenomeno importante. Con tutto Bossi la Padania non ha avuto un ritorno di letteratura “nazionale”, né la Lombardia, né il Veneto. La Sicilia invece sì. Perché la Sicilia è una nazione, anche senza un Bossi. Anche di numero: tra siciliani dell’isola e siciliani del continente, per non contare quelli dei cinque continenti, fanno bene un popolo. I lombardi probabilmente sono di più, ma non esistono – si dice per dire: non esistono in letteratura. A parte quelli che sono siciliani. O pugliesi, o napoletani. La vera carica leghista – identitaria – è siciliana. Nel bene e nel male.
Nel bene la guida è Camilleri scrittore, che del dialetto ha elaborato una forma intermedia. Portando agli altri lettori, che sono pur sempre la maggioranza, un lessico comprensibile o, dove non lo è, subito tradotto, con la naturalezza teatrale, della scrittura parlata, introducendo cadenze nuove e sorprendenti. “Maruzza” è dialettale nel senso che Montalbano ha da tempo dimenticato, della specialità del tempo e del luogo, della caratterizzazione dei personaggi e delle cose. Con i profumi della terra, la terribilità del mare, per i terragni e non solo, le fantasie di un mondo senza parole. Perfino il “lavoro dei campi” Camilleri riesce a vivificare, la rimonda degli alberi, la bonifica del terreno, l’architettura del necessario. Si diverte anche, e fa divertire, colloquiando per proverbi (quanti proverbi sulle donne!), o magicamente in greco, con versi dell’“Odissea”, senza forzature.
Ma è una lingua d'autore e non un linguaggio - a meno che non sia quello borghese, della borghesia professionale, agrigentina, palermitana: contemporanea del leghismo ma ante Lega, è la lingua, questo italiano farcito di dialetto, delle borghesie meridionali dei medici, i farmacisti, e i baroni, per definizione nostalgici (le baronie siciliane, e più quelle imaginarie, desiderate, sono all'origine del più gran numero di memorie familiari, il genere dominante del tardo Novecento, che si prolunga in questo millennio, in italiano, francese, inglese e frange tedesche). Ma nemmeno questo si può dire del camillerismo.
La speciale lingua di Camilleri non è realistica, di personaggi e ceti che dicono l’italiano ma pensano in dialetto. Né è storica come avrebbe potuto, se Camilleri ha conquistato Milano meglio di Bossi. Prima di diventare insignificante, per incontinenza, è stata il siculo italianizzato alla D'Arrigo. Sì, ed è degno di nota: il siculo di Montalbano è quello del dimenticato autore di "Horcynus Horca", di cui ripete strutture sintattiche, fonemi e idiotismi, più che di Verga, e per niente di Pirandello, che pure è conterraneo di Camilleri, con analogo contrappunto umoristico di idioletti. Una lingua di fantasia, evcativa, sapiente anche, tra persone e vicende che alla lettura (e nei film del geniale Sironi) si presentano archetipiche, stagliate nel mito. Ma artificiosa.
Con un tocco giocoso che può giocare per antifrasi. Sorprendente cioè, lieve com'è e riderella, se i dialetti meridionali sono quelli di Corrado Alvaro, “piagati e grondanti sangue”. Un calco giocoso del terribilismo di Verga, di Pirandello, dei poeti dialettali, e delle cronache - che è anch’esso un calco, di maniera, la maniera della scrittura sociale. Ma liberatorio, meglio ancora che gli ambienti e le storie, per una volta non di mafia (Alvaro dice la lingua del Sud, “la parola magra e disadorna, acuta e dsperata, vestita di pelli e nutrita di locuste”, legata alla Passione, di Cristo).
Montalbano sarà stato l’altra Sicilia che a Calvino sfuggiva, questa quintessenza della nostra civiltà che sopravvive al genere mafioso, al genere editoriale, forse per caso.
Andrea Camilleri, Il campo del vasaio, Sellerio, pp. 285 €12
Voi non sapete, Mondadori, pp.216, € 17
Il colore del sole, Mondadori, pp.111, con 12 foto a colori, €6
Il tailleur grigio, Mondadori, pp.144, €16,50
Maruzza Musumeci, Sellerio, pp. 155, €10
La giustizia è potere
Il giudice Boccassini rifiuta la Procura di Verona perché non è assortita della Dda, la procura distrettuale antimafia. Forse che non potrebbe per questo perseguire la mafia? No, il Procuratore uscente Papalia ha ben meritato, oltre che per avere liberato il generale Dozier e bloccato la deriva terroristica della Lega, senza lasciare alcun delitto impunito (ai Ris), per aver estirpato ogni traffico di droga e altre appendici mafiose dalla città. Che forse non è tanto mafiosa da meritarsi una Dda. Ilde Boccassini non vuole Verona perché non le dà abbastanza lustro, questo è tutto.
La vicenda caratterizza soprattutto l’antimafia, che si è ridotta a essere esattamente quello che Sciascia paventava venti anni fa. Ma conferma anche che non c’è alcuno spirito di servizio, né quindi di verità, nella giustizia, solo un fatto di potere. Il Csm non punirà Ilde Boccassini per il rifiuto, ma le troverà una Procura con l’antimafia. L’antimafia serve al magistrato inquirente perché ha più mezzi e meno vincoli. Non per prendere i ladri, gli estortori, gli incendiari, gli spacciatori, che sono delinquenti contro la proprietà, materia familiare e privata. Per quello comunque basterebbero i carabinieri, non c’è bisogno della Dda. Questa serve per controllare il resto della società, alcuni politici, alcuni imprenditori, alcuni giornalisti, alcune società di calcio.
La vicenda caratterizza soprattutto l’antimafia, che si è ridotta a essere esattamente quello che Sciascia paventava venti anni fa. Ma conferma anche che non c’è alcuno spirito di servizio, né quindi di verità, nella giustizia, solo un fatto di potere. Il Csm non punirà Ilde Boccassini per il rifiuto, ma le troverà una Procura con l’antimafia. L’antimafia serve al magistrato inquirente perché ha più mezzi e meno vincoli. Non per prendere i ladri, gli estortori, gli incendiari, gli spacciatori, che sono delinquenti contro la proprietà, materia familiare e privata. Per quello comunque basterebbero i carabinieri, non c’è bisogno della Dda. Questa serve per controllare il resto della società, alcuni politici, alcuni imprenditori, alcuni giornalisti, alcune società di calcio.
La debolezza dell'euro forte
Almunia ha finalmente scoperto che l’euro a due volte il dollaro “non rispetta più i fondamentali dell’economia”. E anzi teme la “combinazione” tra il deficit Usa e i surplus asiatici. Non si finisce di stupirsi dell’Europa di Bruxelles. Sarà il commissario un compagno no global travestito? Ma non ha più l’età per negare la realtà. No, Almunia ha perfino scoperto che lo yuan cinese si nasconde troppo dietro il dollaro – una questione che per altri è vecchia di sei-sette anni. No, è che Bruxelles è proprio un altro mondo: chiuso, cupo, borioso, inerte.
Il dollaro che passa da 0,83 a 1,60 nella presidenza Bush. Il prezzo del petrolio che, nella stessa presidenza, non ha politicamente alcuna logica, se non quella monetaria: sfiancare l’euro, elevandolo a valori stratosferici. I tre quarti dell’economia mondiale che prosperano col dollaro, mentre incensano farisaicamente la fortezza euro. Il peggio di tutto è Almunia o l’Europa, che pretendono dall’America e dalla Cina una rivalutazione. Pretendono cioè che gli Usa e la Cina se le taglino. Altrimenti… Altrimenti che?
Il dollaro che passa da 0,83 a 1,60 nella presidenza Bush. Il prezzo del petrolio che, nella stessa presidenza, non ha politicamente alcuna logica, se non quella monetaria: sfiancare l’euro, elevandolo a valori stratosferici. I tre quarti dell’economia mondiale che prosperano col dollaro, mentre incensano farisaicamente la fortezza euro. Il peggio di tutto è Almunia o l’Europa, che pretendono dall’America e dalla Cina una rivalutazione. Pretendono cioè che gli Usa e la Cina se le taglino. Altrimenti… Altrimenti che?
La corruzione del calcio
Si piangono le Domeniche sportive, nel mentre che se ne celebra la storia: nessuno più le vede. E la colpa si dà alla tv a pagamento, che invece langue. Mentre è della cialtroneria, del calcio consegnato ai legulei – compresi, anche qui, i magistrati: dove non s’infileranno? Quelli delle mosse, o delle moviole: il difensore è in linea? c'è luce tra le gambre? e il pestone è davanti o di dietro? o ha toccato prima la palla? Nell’apparentemente rinverginita Calciopoli, dopo la riconquista del potere sportivo da parte della vecchia Dc, Petrucci, Abete, Matarrese, con i moralisti del tipo Borrelli e Guidirossi – ricordate la vergogna della celebrazione romana del Mondiale di Germania? Quella della squadra in essa intrappolata si toccava con mano in televisione.
Il calcio del resto è quello che è, che la Roma ben simboleggia opposta al Manchester United. Le uniche due squadre che avevano una gestione legale, Juventus e Fiorentina, sono state colpite nell’onore, e si rifanno strada a fatica in questo mondo supercorrotto. Dove l’Inter stravince con bilanci talmente aggrovigliati da lasciare a bocca aperta più dei gol di Ibrahimovic, dopo aver distrutto una diecina di grandi atleti italiani, Cannavaro, Pirlo, Toldo, Materazzi eccetera, con un presidente che liberamente dà dello “stronzo!” all’arbitro, per alcuni secondi di recupero in più, o in meno. Molti soldi del resto non ci sono e bisogna arrabbattarsi. La Roma e la Lazio non possono spendere un euro, il nuovo padrone Profumo non lo consente. Gli altri vivacchiano, sperando di fare il colpo nei vivai sudamericani e africani. Visto da fuori, fa paura. Ma i giornalisti sportivi, che dovrebbero essere le vittime delle Domeniche senza pubblico, se la godono allegri: per loro il calcio è un optional?
Il calcio del resto è quello che è, che la Roma ben simboleggia opposta al Manchester United. Le uniche due squadre che avevano una gestione legale, Juventus e Fiorentina, sono state colpite nell’onore, e si rifanno strada a fatica in questo mondo supercorrotto. Dove l’Inter stravince con bilanci talmente aggrovigliati da lasciare a bocca aperta più dei gol di Ibrahimovic, dopo aver distrutto una diecina di grandi atleti italiani, Cannavaro, Pirlo, Toldo, Materazzi eccetera, con un presidente che liberamente dà dello “stronzo!” all’arbitro, per alcuni secondi di recupero in più, o in meno. Molti soldi del resto non ci sono e bisogna arrabbattarsi. La Roma e la Lazio non possono spendere un euro, il nuovo padrone Profumo non lo consente. Gli altri vivacchiano, sperando di fare il colpo nei vivai sudamericani e africani. Visto da fuori, fa paura. Ma i giornalisti sportivi, che dovrebbero essere le vittime delle Domeniche senza pubblico, se la godono allegri: per loro il calcio è un optional?
L'anti-politica è politica furba
L’anti-politica di Grillo è politica. Promuove la raccolta di voti, le candidature, le liste. È politica furba, come quella di Di Pietro, furbo dichiarato. È politichicchia, che tutti gli altri vuole maneggioni e corrotti mentre Grillo – e Di Pietro – vuole equo, intelligente, sempre, uno che ha tutte le soluzioni, che per definizione sono le migliori e anzi definitive. È una furbizia che si rivolge peraltro ai furbi, a tutti quelli che non sanno di che parlano ma si vogliono più onesti, intelligenti, capaci, e anzi risolutivi.
L’anti-politica è - dovrebbe essere - la via del distacco. Una superiore serenità di fronte agli affari e alla storia. Una sorte di zen socratico, la saggezza di chi sa di non sapere. Perciò senza albagia, e senza disprezzo della politica, come di ogni altra azione umana. Questa naturalmente è filosofia. Ma l’anti-politica di Grillo è disgustosa anche senza filosofia. O no, è malinconica. È il segno di dove una cultura – un’epoca, una storia – debole può condurre, una democrazia malintesa, un’informazione ridotta al gossip, gestita dalle veline, pagata dalla audience. E una politica dell’immagine.
L’anti-politica è - dovrebbe essere - la via del distacco. Una superiore serenità di fronte agli affari e alla storia. Una sorte di zen socratico, la saggezza di chi sa di non sapere. Perciò senza albagia, e senza disprezzo della politica, come di ogni altra azione umana. Questa naturalmente è filosofia. Ma l’anti-politica di Grillo è disgustosa anche senza filosofia. O no, è malinconica. È il segno di dove una cultura – un’epoca, una storia – debole può condurre, una democrazia malintesa, un’informazione ridotta al gossip, gestita dalle veline, pagata dalla audience. E una politica dell’immagine.