Borghesia – Quella italiana tipicamente si nega. Per il peccato originale, la manomorta. Che se non è peccato è fonte tuttavia di cattiva coscienza, per l’arricchimento facile e un tantino illecito. Cattiva coscienza non nei confronti della chiesa – anche: non è lecito escludere dallo Stato i due terzi, o siano pure solo i due quarti, della popolazione – ma del Risorgimento, che si affermava con i profittatori. Non per questo tuttavia si ritrae, è anzi battagliera. Si afferma pretendo di negarsi.
E' un tratto costante, negarsi per essere. I borghesi di Marcel Proust sono ridicoli, ma lo scrittore se ne fa il cantore malinconico in quanto snob, borghese che si nega. C’è però qualcosa di più nella borghesia nazionale, la vantaggiosa deprecazione. Oppure il grande silenzio, l’afasia sociale. In ciascuna delle sue eminenti caratterizzazioni: borghesia del denaro, manageriale, intellettuale, istituzionale. Si suole anzi dire, lo dicono i borghesi buoni, che in Italia non c'è borghesia. Un senso di mancanza che, bisogna riconoscerlo, viene da un’idea escatologica della borghesia, sempre idealizzata in Italia, classe etica se mai ce ne sono. Anche dagli scrittori e dai politici che, da destra o da sinistra, fanno professione di fede antiborghese. Etica nel senso di interprete del buono e del giusto. La classe dotata dell’etica della responsabilità, si dice occhieggiando a Max Weber. Il che è molto borghese. Si dice perfino che la borghesia non ci può essere perché l’Italia non è protestante, tirando sempre in ballo l’incolpevole Weber. Per protestante s’intende, chissà perché, socialmente responsabile.
Il male è antico. Già nel Mille, ricorda Gioacchino Volpe, “schiere di funzionari vescovili, vicedomini, viceconti, avvocati”, nonché lo stesso clero, carico di mogli, amanti, figli, passavano “come una bufera sul patrimonio ecclesiastico, patrimonio di tutti”, a ogni vacanza, del canonico, del vescovo, del cardinale – ne nacquero le repubbliche cittadine, di chi viveva del proprio lavoro, i briganti, poi principi, e le eresie. Oggi naturalmente è diverso, e nell'epoca della comunicazione, dovendo dichiararsi, la borghesia si nega accusando. Nel dopoguerra si è servita della reazione antifascista laica, cristallizzatasi con l’azionismo sul deficit morale della società italiana - italiana e quindi cattolica: il Mille rovesciato. Ma poi i deprecatori sono generalmente proustiani, sedotti da quella borghesia cattolicheggiante - snob e compiacente, per nulla rigorosa - che Proust ha tratteggiato. Quanto all’etica, si vogliono “sottilmente coscienti e riccamente responsabili” come Henry James voleva i suoi personaggi - per un'innocua ambizione estetica. “Borghesi”, insomma. Ma vengono da lontano.
La borghesia è una di quelle cose che tipicamente non c'è, essendo una categoria sociologica, ma agisce. In Italia ha anche il vezzo di negarsi, e non solo perché le sub-culture dominanti, la cattolica e la totalitaria, gliene fanno una colpa. Borghese è chi si applica a moltiplicare il reddito, mettendo a frutto le rendite e le conoscenze, che anch'esse fanno patrimonio. In questo senso l'Italia è perfino il paese più borghese d'Europa, poiché ha più padroncini, piccoli e grandi, con il demone del rischio, e uno spirito d’impresa più radicato. Ma in Italia si nega politicamente. Da sinistra com’è giusto, com’è da aspettarsi. E da destra. Per una tradizione reazionaria corposa, da ultimo con Papini e Prezzolini, Mussolini, Longanesi, Montanelli, tutti molto borghesi, per la quale la borghesia è informe, inerte, incapace di governarsi e di governare.
Questo negarsi è molto borghese nell'autocertificazione di integrità che esso implica, e nelle conseguenti esclusioni: i ricchi sono ladri, gli industriali non leggono, neppure il giornale, gli intellettuali sono servi. La deprecazione è strumento retorico notabilare, da borghesia magisteriale. È un vezzo, forse un difetto, ma non fa male. La borghesia è “
clase discutidora”, diceva Donoso Cortès, il teorico liberale dell’altro secolo di un paese, la Spagna, che ha inventato la parola ma non ha conosciuto il liberalismo. La definizione è velenosa: la borghesia trasferisce la politica nel discorso - nella stampa cioè e nel Parlamento, nell’opinione pubblica – perché è mediocre e insicura. Ma in quanto
discutidora la borghesia non è dannosa. Sotto questo aspetto è anzi “la classe della libertà di parola e di stampa”, come riconosce un filosofo della politica dichiaratamente antipatizzante, Carl Schmitt.
Diverso è l’effetto dell’autoreferenzialità. Delle fazioni, che intorbidano gli eventi e le conoscenze. Sia all’interno dei gruppi, fra protagonisti che si eleggono e si difendono vicendevolmente, sia all'esterno: da una parte nell'area di rispetto che essa genera fra i poteri costituiti, dall’altra nel disprezzo signoriale rovesciato su clienti, lettori, sindacati, dipendenti, risparmiatori. Queste borghesia che si presenta virtuosamente come una
diminutio, una negazione, è in realtà una mascherata, anche violenta. Non è così dove, in Gran Bretagna e negli Usa, la borghesia si sa, e si riconosce, da sempre legata agli affari. Lì governa senza camuffarsi. I primi saggi sulla proprietà, che sono del Locke, ne fanno un diritto naturale senza speciali connotazioni etiche.
Di negazione in negazione si arriva al punto: la borghesia non sa farsi classe di governo. Da una parte il ceto medio informe, dall’altra i poteri forti, così viene semplificato l’assetto di comando della società. Contro il senso comune e ogni evidenza. Poteri forti è formula giornalistica, mediata dalle mani forti del gergo di Borsa, che sono gli operatori in grado d’influenzare surrettiziamente le quotazioni. Ma questi poteri, che ci sono e talvolta sono organizzati in piccoli gruppi, sono naturalmente essi stessi borghesia. Operano coi meccanismi della concorrenza monopolistica, spesso elidendosi tra di loro. Si integrano in una struttura oligarchica ma non permanente e nemmeno stabile.
I poteri sono forti nella disinformazione, e ovviamente nella finanza, dove gli affari si fanno a spese di qualcun altro. Sono nelle professioni e nelle istituzioni, attraverso il nepotismo e il baronato. Si sono moltiplicati con il ritorno della funzione notabilare in politica, dopo il fallimento dei partiti di massa e delle istituzioni democratiche costituzionali, il Parlamento in primo luogo. L'ideologia dell’“esperto” e del “tecnico” ha sfondato nel mercato politico come in quello economico. Spiega la facile identificazione del potere giudiziario con la giustizia. Si ritrova nel ritorno del manager a scapito dell'imprenditore. Tecnocrazia e tecnostruttura, che avrebbero dovuto essere protagoniste della “Rivoluzione dei tecnici” (“The Managerial Revolution”) di James Burnham negli anni 1940, ritornano sotto la specie ancora più antica, hegeliana, della “classe universale”, buona a tutti gli usi perché è buona in sé, - buona perché non politica, cioè non democratica.
Crisi - Luca di Montezemolo, quando era ancora presidente della Confindustria, e trattava Berlusconi da furbetto del quartierino, ha scritto una lettera-manifesto a “Repubblica”, per deprecare d’acchito: “Credo anch’io che la crisi del nostro spirito repubblicano chiami in causa tutto il cosiddetto
establishment del paese”. Lui escluso naturalmente. E questa la caratteristica principale dell’
establishment italiano, o classe dirigente, o società civile, o borghesia.
Dunque, lo “spirito repubblicano” è in crisi. L’Italia è monarchica? O è in crisi lo spirito democratico? L’Italia è per l’uomo forte? O non sono in crisi le istituzioni repubblicane, il governo, il Parlamento, la giustizia, i tre ordini monesquieviani del famoso Stato? Ma non sono in crisi da ora, purtroppo. Erano in crisi già poco dopo l’adozione, negli anni Cinquanta. “L’autunno della Repubblica” è un titolo di Scalfari degli anni 1960. Scalfari che dello spirito repubblicano si può dire per più aspetti vestale: questione morale, borghesia illuminata o società civile, e il sapere prima del potere, o governo dei tecnici. Leggendo Salvemini, vestale numero uno, era in crisi anche prima, prima del fascismo e dell’ultima guerra d’indipendenza. La crisi è della borghesia italiana, che si nega.
La crisi è di una certa cultura, il laicismo, che a lungo si è voluta prevalente, in Italia e nelle condizioni del progresso, salvo scoprirsi poi succube, una subcultura, tra le due culture dominanti, la confessionale e la rivoluzionaria o totalitaria, non indegna di esserne schiacciata, tanto era sparuta e ancillare - vestale, se non pontefice, lo stesso Scalfari, in ossequio al Compromesso Storico.
Ma la crisi c’era già prima, naturalmente. Tutti corrotti, il re di Napoli, che aveva un secolo d'illuminismo, il duca di Modena e Reggio, e perfino quelli di Parma e Piacenza, Massa e Carrara, benché fossero tedeschi, madre e figlio, o il granduca di Toscana. Tutti reazionari, incapaci, arretrati. Di Fronte ai Savoia, figurarsi. E si può andare anche più indietro: la crisi è la deprecazione savonaroliana. Ma a tratti anche machiavelliana. Insomma, toscana. Che però divenne nazionale quando i lombardi s’impadronirono del toscano. E insomma è manzoniana. La crisi è dei “Promessi sposi”.
Il senso della crisi è ritornante ai cambi di secolo – poi la curva, verso il centro del secolo, risale, anche a grandi altezze, per poi ridiscendere - e più ancora quindi di millennio. C’è insomma una ciclicità della crisi. Mensile col lunario, annuale con le stagioni, quinque-decennale con l’economia, periodica con le stelle, siamo ora nell’età dell’acquario?, millenaria col clima, la grande umidità con la grande siccità della Bibbia e del romanzo “Orlando”, geologica, astrale. Sapendo che, se non si muore, sempre si risale, la curva è sinusoidale. Anche l’Italia quindi è periodicamente malata. Oggi lo è un po’ di più perché è vittima indifesa della depressione europea.
Indipendenza – L’esperienza mostra ricorrente nel Terzo mondo un pattern molto distinto: le società e gli Stati deperiscono, talvolta mortalmente, man mano che si allontanano dalle ex madrepatrie, dai modelli culturali coloniali, e si nazionalizzano. I casi dell’Uganda civilissimo di Milton Obote, dissolto da Idi Amin, o del Kenya di Kenyatta e Tom ‘Mboya rispetto ai tribali successori, o di Mugabe nelle sue due incarnazioni, di leader antirazzista anglofilo, e poi di despota indigenista che ha immiserito e disintegrato la Svizzera dell’Africa. Il Ghana superbo di ‘Nkrumah quarant’anni fa, senza paragone con la miseria economica e morale di oggi. L’ex Dahomey, che era la Sorbona dell’Africa, Il Senegal di Senghor, poeta e accademico francese, al confronto degli affaristi che poi l’hanno impoverito. La Costa d’Avorio di Houphouët-Boigny, deputato socialista francese, e quella dei suoi incapaci, tribali, suicidi successori. Talvolta il cambio è stato imposto dall’ex madrepatria, per motivi politici contingenti. Idi Amin, il fuciliere che sarà “cugino della regina”, fu espediente contro la sponda pericolosa di Obote all’Urss in Africa.
Paesi sulla via dello sviluppo, comunque al ritmo dei tempi, sono stati disintegrati, talvolta anche territorialmente. Solo per essere passati dall’apparato del colonialismo e dell’imperialismo, con un’amministrazione, una costituzione e un sistema giudiziario all’indigenismo sregolato. Ciò è reazionario ma è vero. È reazionario da ogni punto di vista: è razzista, anche se non è solo africano, è antidemocratico, per quante connotazioni si possano imporre alla democrazia, è pessimista e regressivo. Ma è storico.
Il pattern non emerge nelle società complesse, stratificate, a loro modo strutturate, quali l’Egitto o l’Algeria. Regge il Marocco, l’unico paese del Nord Africa con uno standard di vita quasi europeo, per l’integrazione, seppure ridotta, nel sistema globale della produzione, al passo coi tempi, perché la monarchia impone un sentiero europeo: detribalizzato, parlamentare, sindacale, con un forte controllo da parte dello Stato. Nel lungo periodo lo scehma invece si applica da tempo anche nelle repubbliche sudamericane. Non in Argentina o Brasile. Sì in quella, Messico in testa, Perù, Ecuador, e ora Venezuela e Bolivia, dove le élites criolle progressivamente lasciano il governo alle masse indigene. Il Perù ha il record mondiale della crescita continua da una dozzina d’anni, ma gli effetti nel paese non si vedono, la ricchezza vi si dissolve.
Islam – È religione maschile, alla moschea, nella preghiera. I suoi pellegrinaggi sono avventurosi (mentre il cristianesimo è da un paio di secoli femminile: solo donne in chiesa, e pellegrinaggi all’insegna del beghinaggio, Fatima, Lourdes, Medjugorie, e perfino padre Pio). Per questo resta assertivo, militante.