Depurato di tutte le partite contabili (i “trucchi” e il "window dressing”, gli abbellimenti), il bilancio della As Roma dovrebbe essere già a fine anno contabile, a fine giugno, il migliore. I debiti sono azzerati, la posizione finanziaria è attiva, seppure di poco, e consente d’investire in organici e ingaggi, le casse si sono arricchite con la Champions, il campionato, la Coppa Italia e la Supercoppa, il bacino di utenza è stimato in aumento, e il negoziato con le pay tv, Sky e Mediaset, per i diritti 2008-2009 parte decisamente al rialzo. Anche l’affluenza allo stadio è per la Roma in aumento, contrariamente alla tendenza nazionale alla flessione. Il risultato di bilancio dovrebbe essere in attivo di 25-26 milioni netti a fine giugno.
L’anno scorso il bilancio fu fatto con la cessione delle attività di merchandising, marketing, di sponsorizzazione e editoriali alla Soccer Sas, una costola della stessa Roma. Un giro contabile che consentì di iscrivere una plusvalenza di 123 milioni, pari alla valutazione di mercato delle attività, 125 milioni, e al loro valore di libro, due milioni. Troppo? In queste operazioni si esagera, ma Rosella Sensi ha mostrato buonsenso. La Soccer ha chiuso il 2007 con un reddito netto di 12 milioni, e una posizione finanziaria attiva per 8,2. Nel primo trimestre 2008 ha contabilizzato un reddito netto per 2,3 milioni, in crescita rispetto al 2007. Ma un miglior risultato è atteso per fine giugno.
Nei primi nove mesi dell’esercizio i ricavi consolidati sono stati di 147 milioni, rispetto ai 113 del 31 marzo 2007. Il margine operativo lordo era positivo per 57 milioni, contro i 29 del 31 marzo 2007). Il risultato consolidato netto era così positivo per 28 milioni (14 milioni al 31 marzo 2007). Il bilancio che si chiude a fine giugno è previsto in miglioramento, sia nei ricavi che nella gestione, per un utile netto che potrebbe anche essere il doppio dei 14 milioni del giugno 2007. Qualcosa di più insomma al netto delle componenti di reddito legate a "operazioni non ricorrenti", leggi la Soccer Sas.
mercoledì 21 maggio 2008
Moratti salvatore della Roma, perché no
Non saranno i Moratti i salvatori della Roma calcio, della stabilità dell’azienda nelle mani della famiglia Sensi. Ma avrebbero potuto esserlo. Dei due cespiti maggiori della famiglia Sensi in vendita infatti non è l’As Roma ma la Italpetroli, la società capogruppo. I cespiti restanti della famiglia Sensi, i terreni nell'area romana di nuova urbanizzazione Torrevecchia, e gli immobili, non coprono i 130 milioni di cui i Sensi si sono impegnati a rientrare entro l’anno con Banca di Roma-Unicredit, su un debito complessivo a fine 2007 di 377 milioni. D’altra parte, il debito è tutto in capo alla società petrolifera, l’As Roma ha una posizione finanziaria attiva.
Cessioni importanti avevano consentito due anni fa di rientrare di 180 milioni, un rimborso cospicuo, grazie al quale Banca di Roma ha rinunciato all’opzione sul 2 per cento sul gruppo, lasciando la famiglia Sensi in controllo col 51 per cento. Ma un impegno tassativo fu preso nell’occasione per rientrare di altri 130 milioni a fine 2008, come si evince dal testo dell'ultimo consiglio d'amministrazione della Banca di Roma dedicato al gruppo Sensi, pubblicato da "Il Romanista", nonché dagli accordi di fine 2007 tra il gruppo Italpetroli e Banca di Roma-Unicredit. Il resto dell’indebitamento considerando fisiologico e comunque spesabile.
È sulle attività petrolifere del gruppo, rivalutate nell’attuale supercongiuntura dell’oro nero, che gli approcci più consistenti sono stati fatti. Approcci seri, non quelli vantati dall’avvocato Joe Tacopina, ex Jacopino, figlio americano di un romano di Roma, con studio, afferma, a Manhattan e Milano, che al club voleva interessato nientemeno che Soros. La Saras dei Moratti non è interessata, e comunque non ha liquidità da investire. Caduti nel nulla anche gli approcci dei volenterosi banchieri d’affari con l’Agip e con Garrone. Ma rimane in piedi l’interesse della Api-Ip, la compagnia dei fratelli Brachetti Peretti che è la seconda nella distribuzione dopo l’Agip, e potrebbe anche comprare a debito, avendo un patrimonio consistente. Un anno fa se ne era interessata Gaz de France Energy, che opera nelle forniture ai grandi clienti. L'iniziativa è poi entrata in surplace per la possibile privatizzazione, ma resta sempre in piedi.
La Italpetroli, la prima creatura di Franco Sensi cinquant’anni fa, ha depositi costieri importanti e redditizi a Civitavecchia, con una capacità di stoccaggio di 350 mila mc., in grado di rifornire Roma e, via oleodotto, gli aeroporti romani. Sensi aveva per questo a suo tempo partecipato alla privatizzazione di AdR, la società degli aeroporti romani, una partecipazione poi ceduta per rientrare del debito con Banca di Roma. Un secondo deposito, per un decimo della capacità, è a Vibo Valentia. Italpetroli già lavora per conto di Ip e Api.
Cessioni importanti avevano consentito due anni fa di rientrare di 180 milioni, un rimborso cospicuo, grazie al quale Banca di Roma ha rinunciato all’opzione sul 2 per cento sul gruppo, lasciando la famiglia Sensi in controllo col 51 per cento. Ma un impegno tassativo fu preso nell’occasione per rientrare di altri 130 milioni a fine 2008, come si evince dal testo dell'ultimo consiglio d'amministrazione della Banca di Roma dedicato al gruppo Sensi, pubblicato da "Il Romanista", nonché dagli accordi di fine 2007 tra il gruppo Italpetroli e Banca di Roma-Unicredit. Il resto dell’indebitamento considerando fisiologico e comunque spesabile.
È sulle attività petrolifere del gruppo, rivalutate nell’attuale supercongiuntura dell’oro nero, che gli approcci più consistenti sono stati fatti. Approcci seri, non quelli vantati dall’avvocato Joe Tacopina, ex Jacopino, figlio americano di un romano di Roma, con studio, afferma, a Manhattan e Milano, che al club voleva interessato nientemeno che Soros. La Saras dei Moratti non è interessata, e comunque non ha liquidità da investire. Caduti nel nulla anche gli approcci dei volenterosi banchieri d’affari con l’Agip e con Garrone. Ma rimane in piedi l’interesse della Api-Ip, la compagnia dei fratelli Brachetti Peretti che è la seconda nella distribuzione dopo l’Agip, e potrebbe anche comprare a debito, avendo un patrimonio consistente. Un anno fa se ne era interessata Gaz de France Energy, che opera nelle forniture ai grandi clienti. L'iniziativa è poi entrata in surplace per la possibile privatizzazione, ma resta sempre in piedi.
La Italpetroli, la prima creatura di Franco Sensi cinquant’anni fa, ha depositi costieri importanti e redditizi a Civitavecchia, con una capacità di stoccaggio di 350 mila mc., in grado di rifornire Roma e, via oleodotto, gli aeroporti romani. Sensi aveva per questo a suo tempo partecipato alla privatizzazione di AdR, la società degli aeroporti romani, una partecipazione poi ceduta per rientrare del debito con Banca di Roma. Un secondo deposito, per un decimo della capacità, è a Vibo Valentia. Italpetroli già lavora per conto di Ip e Api.
A Berlusconi perché Zapatero intenda
Si fanno due letture dei ridicoli attacchi di mezzo governo spagnolo all'Italia. Una è che, grazie a una stampa compiacente, Zapatero tenti di guadagnarsi qualche mese di disattenzione dalla crisi dell'economia. L'altra invece è sottile: per gli stessi motivi, la crisi non più occultabile, c’è un avvicinamento tra Zapatero e Rajoy, tra il presidente del consiglio socialista e l’opposizione popolare, che una parte del partito Socialista non condivide. In particolare l’arcigna de la Vega, la vice presidente del consiglio, e due ministri junior che a lei si rifanno. In questa ipotesi le critiche all’Italia erano strumentali, perché Zapatero intendesse fin dove si potrà spingere nel dialogo incipiente con Rajoy. Da questo punto di vista l’Italia è anzi un modello per la Spagna: l’idea sarebbe venuta a Zapatero, e allo stesso Rajoy, da Veltroni.
Tre sono i problemi su cui Zapatero ritiene utile la sponda del partito Popolare. Evitare l’isolamento in Europa, ora che il crack elettorale dei laburisti e dei socialdemocratici tedeschi lo lascia unico socialista. Questo anzitutto per proteggersi dalla crisi incombente dell'immobiliare, che è il solo motore di sviluppo della Spagna, il cui crack da un anno è prevenuto comn qualche perdita dalla Banca centrale europea. Una situazione di privilegio che molti partner dell'euro criticano. In secondo luogo Zapatero ha scoperto che con la diplomazia si ottengono più risultati che con l'ideologia. Il più apprezzato è stato l’arresto in Francia del capo dell’Eta, l’organizzazione terrorista basca, per oltre vent’anni protetto da Mitterrand e poi da Chirac.
Zapatero si sente un animale esotico allo zoo, e intende sintonizzarsi con l’onda lunga europea. In quest'ambito Zapatero cerca anche agganci nei paesi del petrolio, in Nord Africa e nel Medio Oriente, ora che la Spagna perde la condizione di beneficiaria privilegiata della Ue, con l'allargamento e la crescita della sua economia. Senza dimenticare Israele.
Il terzo scopo è rilanciare con fermezza la politica della sicurezza, col controllo dell’immigrazione. La Spagna ha il maggior numero di immigrati, il 9 per cento della popolazione, e di arrivi di clandestini disperati via mare. Una decisa sterzata di Aznar nel 2001 ha consentito l’estradizione rapida degli indesiderati, per una cifra annua enorme, circa 40 mila. Ma non è la soluzione – tra l’altro è costosa. In attesa di una vera politica dell’immigrazione Ue, anche Zapatero è alla ricerca di misure dissuasive e preventive.
Di questo Zapatero intende parlare con Berlusconi nella sua visita a Roma tra una settimana. Non per esternare patti o iniziative blaterali, ma per avviare contatti che, se condivisi come tutto lascia supporre, possano rivelarsi utili in sede europea.
Su tutti questi temi una parte del partito Socialista lo attacca. Scopertamente nel caso di Israele, e ben più duramente che sull’immigrazione. Mentre il capofila dell’opposizione Rajoy, sottoposto a pressioni nel suo partito dopo la sconfitta alle elezioni, trova conveniente andare in soccorso di Zapatero, nel tentativo di restare in sella.
martedì 20 maggio 2008
C'era una volta l'editore
Ritratto di Jérôme Lindon, l’editore che un autore sogna.
Un autore, spiega la nota editoriale, non esiste senza “un «autore di autori», un editore vero”. Ma, afferma, siamo al tempo dell’“editoria «senza editori»”.
Jean Echenoz, Il mio editore, Adelphi, pp.52, €5,50
Un autore, spiega la nota editoriale, non esiste senza “un «autore di autori», un editore vero”. Ma, afferma, siamo al tempo dell’“editoria «senza editori»”.
Jean Echenoz, Il mio editore, Adelphi, pp.52, €5,50
Casalegno ritrova il padre Carlo
È un epicedio. Del padre Carlo, vittima delle Brigate rosse nel fatidico 1977 che si è appena finito di celebrare, e di una vita. Di sentimenti e passioni che si appannano o tradiscono, o deperiscono e muoiono anzitempo, ogni morte ci diminuisce.
Germanista, traduttore di Goethe, Casalegno ha riscoperto in analisi il senso di una vita e la ripercorre. L’attenzione fermando sopratutto sulle persone che l’hanno popolata. Anche sulle cose, i posti, i fatti, spesso tragici, le occasioni. Ma sulle persone il peso della nostalgia è forte, le ramificazione familiari che possono essere innumerevoli, le amicizie, i vecchi compagni.
È una ricerca del padre. Casalegno ritiene della madre, morta giovane senza lasciare una traccia al figlio di tre anni, ma è visibilmente la ricostituzione della figura paterna, entrando l’autore stesso nel ruolo. Casalegno è stato quarant’anni fa uno dei militanti più attivi di Lotta continua. Cui donò la sua parte di eredita del nonno Luigi Salvatorelli, lo storico. Rompendo per questo con l’adorata giovane moglie Betta, anch’essa peraltro attiva nello stesso movimento. Pochi mesi prima che le Brigate rosse uccidessero suo padre Carlo. E che “Lotta continua” titolasse: “Hanno colpito Casalegno, giornalista conservatore e codino”. Di uno che era stato fra i capi della Resistenza a Torino, e sempre politicamente militante. È la tragedia più dura fra le tante, anche se Casalegno non lo dice, quando la vita che ti sei costruito è un mostro che ti divora. C’è un fondo storico della vita, di cui ambiamo essere parte. Ma alla fine restiamo soli – anche gli eroi, è da supporre – con quello che ci siamo persi o abbiamo sbagliato.
È un libro vero, nel senso dell’onestà intellettuale, che è sempre umile. E, benché privato, di straordinaria densità emotiva. Finisce per essere – uno dei pochi che, forse, non ci ambiscono – uno spaccato generazionale. Narrato con efficacia, seppure in un contesto rilevato con precisione e quasi senza faglie.
Andrea Casalegno, L’attentato, Chiarelettere, pp.140, € 12
Germanista, traduttore di Goethe, Casalegno ha riscoperto in analisi il senso di una vita e la ripercorre. L’attenzione fermando sopratutto sulle persone che l’hanno popolata. Anche sulle cose, i posti, i fatti, spesso tragici, le occasioni. Ma sulle persone il peso della nostalgia è forte, le ramificazione familiari che possono essere innumerevoli, le amicizie, i vecchi compagni.
È una ricerca del padre. Casalegno ritiene della madre, morta giovane senza lasciare una traccia al figlio di tre anni, ma è visibilmente la ricostituzione della figura paterna, entrando l’autore stesso nel ruolo. Casalegno è stato quarant’anni fa uno dei militanti più attivi di Lotta continua. Cui donò la sua parte di eredita del nonno Luigi Salvatorelli, lo storico. Rompendo per questo con l’adorata giovane moglie Betta, anch’essa peraltro attiva nello stesso movimento. Pochi mesi prima che le Brigate rosse uccidessero suo padre Carlo. E che “Lotta continua” titolasse: “Hanno colpito Casalegno, giornalista conservatore e codino”. Di uno che era stato fra i capi della Resistenza a Torino, e sempre politicamente militante. È la tragedia più dura fra le tante, anche se Casalegno non lo dice, quando la vita che ti sei costruito è un mostro che ti divora. C’è un fondo storico della vita, di cui ambiamo essere parte. Ma alla fine restiamo soli – anche gli eroi, è da supporre – con quello che ci siamo persi o abbiamo sbagliato.
È un libro vero, nel senso dell’onestà intellettuale, che è sempre umile. E, benché privato, di straordinaria densità emotiva. Finisce per essere – uno dei pochi che, forse, non ci ambiscono – uno spaccato generazionale. Narrato con efficacia, seppure in un contesto rilevato con precisione e quasi senza faglie.
Andrea Casalegno, L’attentato, Chiarelettere, pp.140, € 12
Jünger spaesato nella Germania sconfitta
Sa animare l’inanimato, la terra, le foglie, le chele, lo scoglio, le ombre. È l’uomo di questa “Visita a Godenholm”, che l’autore così sintetizza.”Una volontà forte si associava in lui con lo spirito della ricerca, sempre smanioso di oltrepassare i limiti. Ma egli era troppo incostante per un obiettivo di lunga durata”. Uno che era indeciso tra il Sahara, “almeno avrei avuto il sole”, ma è quello della Legione Straniera, ove l’autore è stato in fuga nell’adolescenza, e il mare del Nord. Ospite di un personaggio esotico e esoterico che si chiama Schwarzenberg, come il paese dove l’autore è cresciuto bambino. In un paese in cui ogni giorno “il sole si alzava a malapena per un’ora sopra l’orizzonte”, senza peraltro farsi vedere, “il suo disco pallido non superava la linea delle montagne”. Davanti a un mare che è “un deserto grigio”. O viceversa, in cui “il sole scendeva per un’ora appena sotto la linea dell’orizzonte”. Umorale in realtà, indifferente ai fatti naturali. Un mondo in cui le donne, lasciate sole per anni, hanno la loro vita, la quale è “simile al sonno”, anche per il comune colore grigio.
Jünger ha un pubblico di fedeli, soprattutto critici, che lo idolatra. Ai limiti, e al di là, del ridicolo. Come visionario, se non veggente. La sua forza è però di qua dall’esoterismo. Jünger narratore è tutto punte, scostante, non ha nulla dello Jünger diarista conciso, preciso, aneddotico, sia pure di eventi scostanti come la guerra. In una prosa sontuosa, specie in questa traduzione smagliante di Ada Vigliani, ma fredda. Non è brillante, né avventuroso, né appassionante, e anzi pratica di proposito lo straniamento, se non l’ha inventato, del personaggio dall’occhio critico, del narratore che si vede narrare. Ma ha il punto di vista diverso, personalizzato: dell’entomologo, in parte biologo, del settatore, che è dettaglista, e originale.
Questa durezza si scopre qui autobiografica. Vissuta se non ricercata. È la freddezza dell’acido, delle sue visioni, se non della scrittura automatica che si pretende – si pretendeva all’epoca – per effetto della droga. In questo racconto come nel precedente “Waldgang”. E l’anno successivo nel “Nodo di Gordio”, la sua parte del libro a quattro mani con Carl Schmitt. Nel 1950 col suo editore Ernst Klett jr. e nel 1951 in Svizzera con lo scopritore dell’Lsd Albert Hofmann, Jünger sperimentò le droghe allucinogene. Secondo Hofmann ancora più volte fino al 1970. Uno dei personaggi più strutturati della Gerrmania del Novecento, che meglio di ogni altro aveva saputo tenere onore e umanità nelle due terribili guerre, l’una al fronte di battaglia l’altra al fronte dei suoi segreti avversi significati, si lascia andare quando la patria non è più. L’anarchico si è ritrovato nel 1945 senza patria offeso al cuore. “La patria” vede in questo “Godenholm” in un fulmine “riversa nella polvere come una donna, come una madre”.
Da qui la scelta del silenzio politico. Per cinquant’anni, tutta la sua vita nel dopoguerra, Jünger ha taciuto. Allo stesso modo del quasi coetaneo Heidegger, che però è morto vent’anni prima, e senilmente dava interviste, anche in televisione. Continuando a ricevere Croci al merito, in quantità, ma ai presidenti della Repubblica Federale e ai cancellieri si recavano compunti a trovarlo nel suo ritiro, specie Helmut Kohl, si limitata a dire: “Mi fa piacere”. La stessa adesione al cattolicesimo, per il centesimo compleanno, visse con un’occorrenza qualsiasi. La “Visita a Godenholm”, come l’anno prima “Der Waldgang”, conferma la scelta trappista, di solitudine, benché socievole, in fuga dalla realtà. Non dalla modernità, com’è stato detto, perché Jünger rimase fino alla fine l’uomo e lo scrittore più curiosi, ma dalla storia. Per quella che egli sentiva come la fine della Germania. Nel “Waldgang” l’anno prima di “Godenholm”, e nel “Nodo di Gordio” l’anno dopo, tratteggia uja lotta di liberazione dalle superpotenze. “La libertà fa l’Occidente”, è il tema del “Nodi di Gordio”. Che è la scoperta dell’acqua calda. Ma non per un nazionalrivoluzionario tedesco, da sempre in lotta contro l’Occidente. E infatti è una petizione debole, non mobilita l’autore. Il “Waldgang”, tradotto in Italia come in Francia, “Trattato del ribelle”, era nientemeno che un invito alla resistenza contro le superpotenze, Waldgang è maquis, la macchia, Waldgänger è partigiano. Carl Schimitt lo riprenderà dieci anni dopo nella “Teoria del partigiano”, che però resterà confinata alla Spagna di Franco.
È questo il tema della “Visita a Godenholm”, lo spaesamento: per metà della sua lunga vita Jünger ha vissuto da esule nel suo stesso paese, che non riconosceva. Ho fatto di tutto, dice il protagonista, è anche andato in chiesa, ma niente, non si appassiona. Il racconto non è la celebrazione dell’acido, dei cui effetti fa l’anamnesi nella scena madre. Jünger non è un “viaggiatore”, anche ammesso che abbia continuato l’uso dell’Lsd con l’altro centenario Hofmann fino al 1970, ma un orfano. Del 1970 è “Avvicinamenti”, il libro sulle droghe, non entusiasta. “Visita a Godenholm” è il racconto di questa disperazione (in “Avvicinamenti” lo dice freddo: “Che il mio libriccino non avrebbe avuto successo lo sapevo dall’inizio; mi fece compassione, come se avesse freddo, quando lo vidi in vetrina”). Altri hanno ritrovato slancio nel dopoguerra, rigenerandosi con la Colpa, e appagante identità nella nuova Germania, le reintegrazione nel presente e nel futuro della Germania, Jünger – e Heidegger – no. Che può essere una colpa, ma è un dato di fatto, e non insignificante.
Il “viaggio” è controvoglia. Junger, tutto tedesco qual è, sa, e lo dice, che la germanicità si è perduta nella nebbia al Nord, senza più radici latine, e poco temperata dalle ambizioni di grecità. La narrativa, qui come altrove, è costruita, allo stesso modo come la scienza politica del suo amico e sodale Carl Schmitt, come gioco di ruolo. Che è un derivato dell’arte militare, con la forza, i pericoli noti, quelli improvvisi, i sentieri che si biforcano, delle strategie e tattiche a tavolino, senza passioni se non dichiarate. Con la nota e unica sapienza della terra: il tempo, il clima, la luce, come già da giovane il campo minato, la trincea. La vita a Godenholm, luogo vicino e remoto, è semplice, “ricorda la preistoria”.
Ernst Jünger, Visita a Godenholm, Adelphi, pp.114, €9
Scalfari il Fiancheggiatore
Se ne parla molto, è un libro che Einaudi vuole importante. Ma ovunque senza simpatia, che l’autore pure meriterebbe, sempre sensibile e partecipe - forse è indigesto il tema, parlare con Dio, benché di moda, con Augias e gli altri browniani (ma lui, bisogna riconoscere, ha cominciato prima). Scalfari è stato uno dei migliori imprenditori del dopoguerra, se non il migliore, che con meno mezzi ha creato un duraturo e lussureggiante impero editoriale. Essendo stato, oltre che imprenditore, il più grande direttore di giornali, con più fantasia, con più apertura – in un certo senso l’erede di Giulio Debenedetti, che ne era il suocero. Formando uno stile di giornalismo, e migliaia di giornalisti e collaboratori. Il direttore di giornale più colto, con antenne più allenate, all’economia, la politica, la cultura. Disposto a imparare nelle materie incognite, per esempio in politica estera (quando scoprì i samizdat, di cui non aveva mai saputo, dieci anni dopo Praga, cinque dall’esilio dei grandi russi, prese quotidiane lezioni al telefono da Franco Malfatti, il direttore generale della Farnesina). Eccellente giornalista in proprio, di riconosciuta qualità di scrittura. Ha anche una certa età, e si può dire che non abbia nemici. Ma resta rispettato e temuto, e non amato, benché pregiato da giornalisti e conduttori.
Il perché è tutto in questo libro: il non detto. Del testimone e del memorialista. Scalfari ha tradito prima il laicismo, e poi il socialismo, dopo esserseli assoggettati, li ha derisi, e li ha finiti. Nel nome di Berlinguer, lui che è stato un mangiacomunisti, spregiatore con Carli del sindacato, con Andreotti di ogni ideologia. Fingendosi un compagno di strada, un fiancheggiatore, naturalmente in grande. Ciò si può dire in breve, anche se non è poco. Ma lui non lo dice, pur rivendicando il libertinismo intellettuale. Dopodichè ha abbandonato i suoi giornali, ultimo e solo editore “puro”. Senza dire perché. Facendosi pagare in titoli spazzatura, di una “scatola vuota” – quindi non l’ha fatto per i soldi. Quando a metà aprile 1989 cedette inconsultamente, con Carlo Caracciolo, il gruppo L’Espresso-Repubbica a Carlo De Benedetti, per ingrossare la Mondadori, di cui De Benedetti era allora padrone. Per nessun motivo conosciuto, un motivo valido. Fu obbligato? E perché?
In “Via Veneto”aveva santificato il cinismo sotto la formula simpatetica del settecentesco libertinismo, una forma della libertà di pensiero, o il diritto all’incoerenza. Il suo cinismo, nient’affatto disperante o disperato, opportunistico anzi a oltranza, contro venti e tempeste, è molto “cattolico” (romano, latino, meridionale). Senza colpa peraltro, non specifica: è il modo di essere della cultura “laica” in Italia. Ma nelle sue mani è stato una sorta di ascia o di grosso martello, usati per sbriciolare lo stesso “laicismo”.
Scalfari meglio di ogni altro, da imprenditore oltre che da fine politico, sa che la libertà è in Italia garantita solo dai partiti “intermedi”, quelli cioè fuori dei partiti di massa, che il compromesso storico ha cementato monoliticamente – salvo poi perdere la partita a favore di Berlusconi. Tanto più per non essere mai stato un governabilista, e anzi un acceso denigratore dei governi che governano, da lui accomunati, ogni volta che un briciolo di autonomia del politico si è manifestata, al fascismo. Molte cose Scalfari sa, ma non si comporta di conseguenza, e questo è cinismo. Forse libertinismo, come gli fa piacere, ma il vero libertino è per la libertà.
Svendette la concezione laica della politica, liberale, al compromesso cattocomunista nel quale non credeva, senza condizioni, fino al punto da non contare nulla nel “suo” giornale”, creatura incontestabilmente sua. Non uno dei “miei dirigenti”, come amava chiamarli, di dopo il 1978 è stato scelto da lui, non uno dei cronisti o commentatori. Mentre i suoi vecchi venivano confinati alle rubriche, Viola, Pirani, Turani. Un esito incredibile, prima che triste. C’è insomma qualcosa di non detto in lui e attorno a lui. Che non si può fare ascendere all'origine(alla “natura”) calabrese, all'umoralità - non del tutto, questa calabresità, benché non riconosciuta, c'entra anche molto, a partire dal fatto di essere rinnegata, senza obbligo: il padre era dopotutto un direttore di casinò, non un civil servant, come Scalfari vuole far opinare.
La ragione ufficiale dell’abbandono del suo amatissimo giornale è che Scalfari voleva dedicarsi alla filosofia. Che non è una ragione, ma lui la sostiene. Mentre la politica dell’alternativa democratica, del necessario ricambio al potere, ancora oggi insiste a ridurre al gioco di sponda al biliardo. Facendosela qui teorizzare da Ugo La Malfa, in una formulazione che è solo insensata. In questa formulazione il gioco di sponda sarebbe una mamma che si vuole levatrice. Oppure è l’arabica impostura dell’abate Vella, personaggio di Scinà e Sciascia: uno che s’inventava falsi documenti arabi, per provare l’autonomia dei baroni siciliani dal re di Napoli prima, poi il contrario, la loro dipendenza. Non per arricchirsi né per brama di potere, l’abate che giocava di sponda era a suo modo un asceta, era doppio per aiutare questo e quello.
Per Berlinguer, da cui tutto lo divideva, Scalfari cerca toni commossi, per la comune onestà. Ma da antipolitico qual è sempre stato. Senza, singolarmente, porsi il problema dell’onestà intellettuale. Per Berlinguer, dice, la questione morale nasceva dall’“occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”. Mentre il Pci, com’è noto, le lasciava sgombre. Del Pci Scalfari ricorda correttamente i fondamenti: “Il Partito ha sempre ragione” e “Niente fuori dal Partito”. Da lui stesso ben sperimentati, da politico e da imprenditore. Ma se il Pci ci ha messo tre anni a sciogliersi dopo la caduta del Muro, la causa è l’aborrito Craxi. E questa è tutta la politica di Scalfari, il suo senso critico.
È tutta qui anche la sua vena morale, la questione morale che lo caratterizza: è il moralismo, la condanna etica di chi è nato senza peccato originale, sindrome caratteristica dei belli-e-buoni della Repubblica, spesso al servizio del male dichiarato. Scalfari, superbo imprenditore, si è impadronito del laicismo e lo ha consegnato al compromesso storico. Si è impadronito dell’ex Pci e lo ha consegnato a Andreotti, anzi a Evangelisti. E della questione morale di cui s’è impadronito ha fatto uno scudo per De Mita e Prodi. Scalfari ha lavorato per la Dc, non per caso, e non per la migliore: un laico non può che sognare che molli l’osso, giù le mani dal laicismo. Un imprenditore dovrebbe infine riconoscere gli errori. A meno che Scalfari non abbia sbagliato: c’è pure stato un Cagliostro la cui ambizione era di essere Cagliostro.
Ha anche tradito l'etica degli affari. Senza profitto presumibilmente, per lo stesso cinico impulso. Questa è dura da avallare ma va detta: Scalfari è stato il paladino antemarcia, e tuttora lo è, della Padania, la Milano degli affari, da lui eretta con Arrigo Benedetti nella preistoria della Repubblica a “capitale morale d'Italia”. Anche quando ha toccato con mano per più prove che è la capitale della corruzione, politica e affaristica. Anche quando, avendolo inoppugnabilmente provato nel caso di Cefis e della Montedison (con Peppino Turani nello storico “Razza padrona”, ha dovuto aspettare vent'anni che lo scandalo esplodesse. Cioè quando a Milano ha fatto comodo e nell’interesse di Milano - una deriva a lui ben presente: quando Camilla Cederna, che pure era stata sua Grande Firma all’“Espresso”, montò il caso Leone su carte false, la tenne ostensibilmente lontana da “Repubblica”, dove lei puntava a entrare (irritato, è da presumere, dallo scimmiottamento: quanta differenza in effetti a rileggerli, di tono e soprattutto di argomenti, di “prove”, tra il “Giovanni Leone” e il Piano Solo, o “Razza padrona”).
Libertino antipolitico
Il suo giornale da tempo sa di stantio. Nella reazione che ha travolto l’Italia, quella di “Repubblica”, snobistica e manierata, è insipida. La cosa non sembra dispiacere a Scalfari, che non ha cambiato il giornale personalmente e non chiede di cambiarlo. E questo vuol dire che l’uomo non era libertino per andare controcorrente, ma perché intrinsecamente conservatore. È dunque come appare, un miope eretto. Si dice dei miopi che vanno un po’ curvi. Scalfari è un miope che gonfia il petto. Lo sguardo che trapassa e la testa eretta consentono anche entrate teatrali, fiere e sdegnose. Per una concezione della politica che, benché laico professo, o forse per questo, è totalitaria. Non al senso e al modo delle adunate o del Grande Fratello di Orwell, con le prigioni d’acciaio. Ma suadente, persuasiva, ideale. Al modo di Faust: quei rapporti dove basta dire sì, una volta sola, e si viene poi sempre protetti, vezzeggiati, magnificati. Benché senza salvezza – è tutto qui il problema di Dio, che il Partito non lo garantisce?
La qualità della filosofia è come quella della politica. Scalfari insegue Montaigne, l'incredulità (incroyance) che viene dalla morte, ma non ne ha lo spirito filosofico, il distacco. “L’universo è un luogo ospitale”, si può dire di lui con Emerson, personaggio e pensatore forse più nelle corde di Scalfari – di Scalfari come avrebbe dovuto essere, nella posizione che ha occupato. E “c’è sempre musica dolce nel flauto, ma ci vuole un suonatore per tirarla fuori”. Mentre il pensiero della morte, la vita imparentata alla morte, è già morte. O il desiderio di morire, naturalmente – il suicidio, per chi ha vissuto, è solo un incidente, una sopravvenienza. La morte “è il termine, non il fine” della vita, Montaigne insegna. A cui è follia non pensare, o rifiutarsi di pensare, altrettanto come lo è lasciarsene ingolfare. Thoreau, altro personaggio che avrebbe dovuto ma non è in commedia, nota giustamente che “per poter morire bisogna aver vissuto”, che dove non c’è stata vita non c’è morte, solo un imputridimento costante: “Sento molti dire che stanno per morire che sono già morti, per quel che ne so”.
Il saggio si confronta con la vita, non con la morte. La quale, se scontata in vita, è solo nostalgia, del non vissuto. La morte incombente un po’ è l’effetto del narcisismo, finire depressivi: si disimpara a morire perché non si è in grado di guardare alla vita, che è passata, al passato. La serenità – l’accettazione della morte – viene dal senso della vita. Che emerge sullo sfondo della caducità, cioè della morte, e si esprime nelle opere: la morte è solo una fine per chi ha fatto ciò che deve, non la fine. La libertà, più di tutto, ha un senso se c’è il rifiuto della morte. È uno spreco, e come tale può apprezzarla chi ha spiccato l’edonismo. Cioè la non attesa della morte.
La morte in una vita vissuta non è la sua accidentale interruzione ma il compimento, la meta del viaggio. Detto da Karl Rahner, ma non è capziosità gesuitica: il nodo è la malinconia, la moderna accidia. L’indifferenza, diceva Goethe, a ciò che scandisce l’esistenza. L’attenzione all’esistente, nelle infinite variazioni della sua monotonia, incagliata nell’apatia e la disappetenza, di idee, progetti, utopie, desideri. Di cui per di più si compiace, se non la fa titolo di nobiltà d’animo. E certo, come dice Kierkegaard, è la perdita di Dio a impedire di vedere il senso delle cose, le loro connessioni, l’unità della vita. Ma Kierkegaard dice pure che il malinconico è un falsario: il Dio assente è un’idea, un voler essere. Senza contare che la morte ha poco potere sulle persone amate: basta avere amato.
Il silenzio di Dio che sembra angustiare Scalfari è quello di Pascal, che egli non menziona, che perse Dio nell’infinità, come poi Kierkegaard, nell’astrazione dalla natura cui la Riforma l’aveva ha costretto. Varrà per lui ciò che Nietzsche scrisse di Carlyle nel “Crepuscolo degli idoli”: “La ricerca di una fede forte non è prova di una fede forte, ma piuttosto al contrario”. E c’è chi crede nel peccato non credendo in Dio: i laici buoni, puritani e libertini. Ma perché credere? O non sarà un omaggio tribale a Cassiodoro, il grande pensatore calabrese, che la filosofia dsse da ultimo una meditatio mortis? Dio però c’è poco in questo libro, così come la morte, benché se ne parli molto. Il radicalismo di Scalfari è sempre quello di Maurras, cui lo avvicina la scrittura, e anche la démarche, di cui non si saprebbe misurare la autenticità.
Il dio di Scalfari è il suo io, non detto. Necessario come gli sono necessari gli affetti probabilmente - di certo l’amicizia, da patriarca influente, a essa in realtà indifferente. E poi è troppo uomo del suo tempo. È anzi l’uomo del tempo, il testimone storico per eccellenza dei quarant’anni in cui ha fatto giornalismo, i suoi “Saggi” sono i suoi giornali, comprese le cadute. E il non detto è in realtà saputo. L’infinitezza spaventosa di Scalfari, o astrazione dalla natura, è la sua mondanità: l’interesse pervicace a questo mondo, ottimo e necessario per un ottimo imprenditore, ma non filosofico.
Si legge al § 429 dei “Pensieri” di Pascal una sorta di prova del nove: “L’immortalità dell’anima ci importa così tanto, ci tocca così profondamente, che bisogna aver perso ogni sentimento per essere nell’indifferenza di sapere che ne è”. Che potrebbe essere opportunismo – credere è meglio che non credere – e quindi inaccettabile all’onesto. Ma: perché Scalfari scrive? Tutto quello che aveva da dire, da insegnare ai meno provveduti, ha avuto una lunga vita per farlo e un largo seguito sui giornali: perché scrive da solo, da filosofo? Per tutti e per nessuno: per la verità? La condizione attuale di Scalfari sarebbe quella di un uomo “pio”. Non nel senso di uomo di una fede, ma di fedele del mistero-verità del mondo e dell’uomo. E invece egli è sempre, e vuol essere, uomo di parte. E allora? Non si diventa cinici in vecchiaia.
Dio c’è o non c’è, se non c’è non se ne può sentire la mancanza. Di fatto questa assenza di Dio, o il dispiacere di non poterlo incontrare, sono sociali. Dei convenevoli. Al modo delle nonne che si facevano obbligando i nipoti ad accompagnarle. Delle frequentazioni, familiari, sociali, editoriali magari, di un don Bianchi o un don Neri, il vecchio tipo del gesuita che imbrillantava i tinelli. E in quanto tale, pratica delle convenienze, l’esatto opposto di un Dio, il quale non può essere che diretto e semplice. “Gli uomini hanno paura della morte”, direbbe il cancelliere Bacone, “come i bambini hanno paura del buio; e come la naturale paura dei bambini s’accresce coi racconti, così l’altra”.
Miglior narratore
La vena di Scalfari è narrativa, qui come in “La sera andavamo in Via Veneto”. Per lo sberleffo irrefrenabile, l’ironia, la riserva mentale, che fanno il suo linguaggio primario, irrimediabilmente astuto e canzonatorio – che si dice adolescenziale, ma potrebbe essere quello della paternità calabrese, campanelliano. Della politica sicuro, e probabilmente anche di Dio, Scalfari ha opinione irridente. Ma anche in questo sembra censurarsi, lo spiritaccio emerge a sprazzi, limitato ai primi ricordi nell’infanzia, e a qualche insegnante, la proclamazione dell’impero tra i balilla, il fox trot con la mamma al Majestic, il padre in controluce. Poco, pochissimo, del suo compagno di liceo e amico di adolescenza Calvino, che pure è stato giovane per più aspetti brillante, con una casa lussureggiante, villa Meridiana, e genitori formidabili, noti in tutta Sanremo. Quasi nulla degli anni a Vibo.
Qui Scalfari ricorda infine Ernesto Rossi e cita Salvemini. Ma lascia sempre fuori Einaudi, Gobetti e gli altri della tradizione liberale, quella che distingue l’Italia nella grande cultura politica contemporanea – oltre a Pannunzio e Arrigo Benedetti. Qui comincia anche ad accettare la realtà: “Questa storia della borghesia illuminata è stata una delle illusioni che il gruppo del “Mondo” e dell’“Espresso” ha lungamente coltivato”, da lui stesso prolungata nella società civile, il governo dei tecnici eccetera. Ma sempre senza senso storico. Finendo per assomigliare al suo ritratto più celebre, l’Avvocato di panna montata, curioso, generoso, e infastidito. Che unicamente si diletta, anche in vecchiaia, di esercizi di egotismo, la costruzione calcolata di un io, senza abbandoni.
Alla fine del libro, non fosse per la vena irridente, si ha la sensazione di un drammone cupo. Tutto d’improvviso è laico in questa Italia vuota, l’università, la scuola, la filosofia, il football, la centrale nucleare, i giornali, i comunisti, il papa, ma perché è vuota la parola, una parola gruccia, per attaccarci quello che capita. Un mondo di chiacchiere senza un briciolo d’intelligenza, di accettazione virtuosa della realtà, dove si cercano gli immigrati ansiosamente e si vilipendono, si disprezza l’America e si tifa Obama, si uccidono i figli, e viceversa, e la civiltà si vuole là dove si uccidono i malati. Da cui cioè il laicismo è fuggito. Non molti anni fa: è fuggito con la politica, la quale è fuggita col compromesso storico. Di cui Scalfari s’è fatto il maestro, uno che non credeva – e non crede – né all’uno né all’altro dei suoi componenti, e nemmeno a tutt’e due. O il Fiancheggiatore per antonomasia: anche ora che il compromesso mostra i suoi terrificanti limiti, politici, etici, la faziosità, la violenza. Un compromesso sulla cui natura peraltro non ci sono mai stati dubbi: un ricordo personale è il no del comitato di redazione, Mino Fuccillo, Guglielmo Pepe, durato cinque anni, alla qualifica di inviato speciale a un redattore perché socialista, filo-Pci ma anti compromesso storico (col conseguente congelamento dello status di una diecina di altri redattori, i quali ebbero l’attesa qualifica dopo che l’odiato socialista ebbe lasciato il giornale), che Scalfari avallò: l’avallo gli statuti allora in vigore quasi imponevano, ma come asservire un giornale libero a queste pratiche totalitarie?
Se è lecito tentarne una critica, Scalfari ha improntato i giornali che ha creato a un meccanismo di sfruttamento della psicologia laica, della sua dote-debolezza che è l’individualismo incondizionato. Di principio ma anche pratico. Che non si saprebbe dire quanto benefico (l’autonomia del giudizio) e invece è speculare all’arricchimento facile e all’anti-democrazia su cui pretende di vigilare. Capriccioso, a volte, ma non di più. Si sa dell’azionismo, il partito non dichiarato di Scalfari, che è malato di un piccolo dannunzianesimo di superficie – senza cioè il lavoro di maglio e di bulino del Vate. A “Repubblica” il vizio non si è manifestato subito, l’imprinting di “Le Monde”, evocato alla nascita, ha avuto a lungo funzione apotropaica. Ma già nei primi anni Ottanta, nelle mascalzonate contro Sciascia, nelle quali ebbe purtroppo il sostegno di Pansa, oltre che di Arlacchi, Scalfari ne aveva fatto il luogo delle mascalzonate: del pregiudizio cieco, a carte non lette, e della polemica superficiale, tribale, familiare – “Repubblica” avrebbe dovuto essere il giornale di Sciascia e invece ne fu il nemico, pervicace, spietato.
È un laicismo, quello iniettato da Scalfari nei suoi giornali, che non libera ma tiene soggiogati, nella paura costante: muore la democrazia con Berlusconi, o chicchessia, e muoriamo noi alluvionati, oppure disidratati, muore la banca, muore la finanza, che pure è raccomandata, sono morte le istituzioni, già forse alla nascita, tutto vi è morto o vi muore. Nessun lettore, oltre che nessun redattore, è mai cresciuto civilmente (laicamente) con i suoi giornali, e anzi la tendenza è a fuggirne: tutti diventano “comunisti”, qualcuno fascista dichiarato, per il fondo compiaciuto, confermato, del piccolo borghese che sa di essere nel giusto, lui e non altri. Scalfari sarà il prototipo del personaggio eroico, cioè durevole, dell’Italia. Non quello appassionato, a tutto tondo, che suscita deliri, di amore e di odio, ma quello desabusé e fondamentalmente cinico, che passa per mille compromessi. I più resistenti in questa kermesse sono in effetti i giornalisti: Biagi, Montanelli, Bocca. Costruttori di macerie.
Ma poi anche in termini di io Scalfari è uno che si nega: si nega anzitutto forse a se stesso. Non reticente, non di proposito. Citati lo dice un Alessandro Magno (e Shakespeare, Pessoa, Montaigne, vedere “la Repubblica” del primo maggio per credere), che scorazza senza pentimenti. Un piccolo Alessandro Magno, perché no, che un po’ s’annoia e un po’ ama le novità. Ma non è necessario andare lontano: Scalfari si è definito, e vuole essere, uno snob. È sincero, poiché è misantropo - uno che disprezza perfino gli amici. Ma dello snob non ha il lato buono, che è il rispetto della forma: il principio di non contraddizione, la logica, la convenienza.
Un ricordo personale di Scalfari ne inquadra la personalità, sempre partecipe e sempre assente. Era la notte dell’uscita di “Repubblica”, Scalfari era nel portico della tipografia romana in piazza della Repubblica, che allora era aperto, nervoso. In una delle giacche di velluto che allora amava, senza cappotto, malgrado la nebbiolina ghiacciata di metà gennaio. Era forse prima del ricevimento, col giornale ormai chiuso, forse dopo, quando si aspettava la prima copia. Chiese una sigaretta, chiedendosi: “Come andrà? Che ne dici?” Il giornale nasceva su basi solide, compreso l’oroscopo di Linda Wolf - o era di Sirius? Ma Scalfari l’avrebbe chiesto a chiunque fosse passato. Due militari in libera uscita si avvicinarono. Non riconobbero Scalfari ma erano lì per informarsi: “È qui che fanno “Repubblica”?” Un interesse che ognuno avrebbe considerato beneaugurate. Ma Scalfari non ne fu lusingato, non sembrò neppure sentirli, intento ad ascoltarsi.
Compromesso De Benedetti
Il titolo è programmatico. Fosse descrittivo, sarebbe già di un uomo che crede in Dio, pur non volendolo. E risponde all’impoeticità di Scalfari, anch’essa di programma più che caratteriale- naturale. Di un passionale, al contrario, che inclina fatalmente alla poesia. Ma ha fatto voto evidentemente di fermarsi un passo prima, e a questa linea gialla ritorna di proposito ogni volta che d’impulso l’ha sorpassata. Scalfari è, in ogni sua manifestazione, passionale: prevenuto, preveniente, protettivo, vendicativo, sempre emotivo. L’effetto di questa astensione è curioso: perché la sua “filosofia”, il giudizio disincarnato sulle cose (gli eventi, l’adolescenza, la famiglia, il lungo impegno politico), solo prende vita nel quadro delle passioni, seppure rattenute.
Ma la sua avventura politica sarà, purtroppo, il tratto che lo distingue. Guardando da vicino, Scalfari è la specie d’uomo simpatico: attento, svelto, bright, amichevole. Benché, o anche perché, di spirito caustico, con le cose e, più, con le persone. Guardando le cose a distanza – è necessario, l’equivoco era troppo grossolano per essere accettato subito a lungo sembrato inverosimile – lo si scopre sempre su false tracce. Uno che alla fine, vuoi per divertirsi vuoi per albagia sempre porta il voto degli antidemocristiani alla Dc, dei comunisti soprattutto e dei laici. A Andreotti prima, e poi a De Mita – a De Mita... Col suo “Espresso” prima, ma soprattutto con “Repubblica”, sua a tutti gli effetti. Che si trattasse di “alternanza” alla guida del governo, o di nomine bancarie e negli enti – terna buona di candidati era sempre e solo quella che conteneva solo manager democristiani. Il che non è una colpa naturalmente, e non sarebbe scandaloso se l’indiscussa situazione di malgoverno nella Repubblica non fosse determinata dal mancato ricambio politico (l’alternanza). E se lui stesso non si professasse il principe degli antidemocristiani. O un capolavoro politico, se si vuole, ma di pessima politica. Protestando il “rinnovamento” di De Mita (di De Mita…). E agitando l’anticraxismo. Che non si è mai capito cosa fosse, se l’antipatia personale di Scalfari verso un segretario provinciale Psi che ne bloccò la rielezione nel 1972, o un calcolo freddo di cinismo politico, l’imputato essendo eccezionalmente non corrotto, benché aggressivo, e di ottime doti politiche. Se non un favore al socio e padrone Carlo De Benedetti, di cui Craxi fu effettivamente il nemico in tanti contestabili affari, Société Générale, Ambrosiano, Sme.
La storia politica di Scalfari purtroppo è questa, quella di un fiancheggiatore. Di che non si vuole dire. Certo non del socialismo, ma nemmeno del mercato. “Si sa” però alla Pasolini, essendo l’evidenza: cambiare tutto perché nulla cambi, la politica sotto il tiro dell’indignazione. Fingendosi ammaliato da Berlinguer, che giudicava ingenuo, per subordinarlo alla Dc. Dalla quale tutto avrebbe dovuto dividerlo ma era la scelta dell’editore-direttore Carlo De Benedetti, allora in pectore ma non in partibus - per vent’anni i giornalisti di “Repubblica” non hanno saputo che il vero editore-direttore era De Benedetti. Che ha fatto ottimi affari con la Dc, da quello fallito con De Mita e Prodi per il colosso alimentare Sme, che avrebbe pagato, per una cifra irrisoria, con un credito del venditore, a quello riuscito con Draghi delle licenze Omnitel (rivendute con un guadagno di tredicimila miliardi in un anno) e delle centrali Enel. Il suo progetto, dichiarato, era di mettere i milioni di voti del Pci, nel 1976 il 33 per cento, al servizio della Dc. Contro Craxi a un certo punto (“Repubblica” fu l’unico giornale a non rimarcare nel 1983 che quello di Craxi era il primo governo a guida socialista nei centoventi anni della storia d’Italia). Che non aveva colpe particolari, ma pretendeva di governare – nel solco non infame della governabilità, della (necessaria) autonomia del politico. Poi, dopo l’abbattimento riuscito di Craxi, con la straordinaria “creazione” di Berlusconi.
Una storia, se si vuole, di successo. Ma a che fine? Con qualche rischio per l’immagine, poiché l’indignazione non avvince e anzi stanca – non solo il pazzo Nietzsche ne ha pessima opinione: “Nessuno è bugiardo come l’uomo indignato”, in un testo che intitola peraltro Al di là del bene e del male, anche Fo: “L’indignazione fa rima con coglione”. La storia politica di Scalfari s’intreccia purtroppo da trent’anni ormai con quella di Carlo De Benedetti, che è un uomo d’affari. Potrebbe essere dunque quella di un libertino, quale si vuole, un avventuriero divertito. Ma il libertino non ha rimpianti. Non ha cicatrici né vede incroci, ai quali dirsi di aver sbagliato, non per errore.
Eugenio Scalfari, L’uomo che non credeva in Dio, pp.150, € 16,50
Il perché è tutto in questo libro: il non detto. Del testimone e del memorialista. Scalfari ha tradito prima il laicismo, e poi il socialismo, dopo esserseli assoggettati, li ha derisi, e li ha finiti. Nel nome di Berlinguer, lui che è stato un mangiacomunisti, spregiatore con Carli del sindacato, con Andreotti di ogni ideologia. Fingendosi un compagno di strada, un fiancheggiatore, naturalmente in grande. Ciò si può dire in breve, anche se non è poco. Ma lui non lo dice, pur rivendicando il libertinismo intellettuale. Dopodichè ha abbandonato i suoi giornali, ultimo e solo editore “puro”. Senza dire perché. Facendosi pagare in titoli spazzatura, di una “scatola vuota” – quindi non l’ha fatto per i soldi. Quando a metà aprile 1989 cedette inconsultamente, con Carlo Caracciolo, il gruppo L’Espresso-Repubbica a Carlo De Benedetti, per ingrossare la Mondadori, di cui De Benedetti era allora padrone. Per nessun motivo conosciuto, un motivo valido. Fu obbligato? E perché?
In “Via Veneto”aveva santificato il cinismo sotto la formula simpatetica del settecentesco libertinismo, una forma della libertà di pensiero, o il diritto all’incoerenza. Il suo cinismo, nient’affatto disperante o disperato, opportunistico anzi a oltranza, contro venti e tempeste, è molto “cattolico” (romano, latino, meridionale). Senza colpa peraltro, non specifica: è il modo di essere della cultura “laica” in Italia. Ma nelle sue mani è stato una sorta di ascia o di grosso martello, usati per sbriciolare lo stesso “laicismo”.
Scalfari meglio di ogni altro, da imprenditore oltre che da fine politico, sa che la libertà è in Italia garantita solo dai partiti “intermedi”, quelli cioè fuori dei partiti di massa, che il compromesso storico ha cementato monoliticamente – salvo poi perdere la partita a favore di Berlusconi. Tanto più per non essere mai stato un governabilista, e anzi un acceso denigratore dei governi che governano, da lui accomunati, ogni volta che un briciolo di autonomia del politico si è manifestata, al fascismo. Molte cose Scalfari sa, ma non si comporta di conseguenza, e questo è cinismo. Forse libertinismo, come gli fa piacere, ma il vero libertino è per la libertà.
Svendette la concezione laica della politica, liberale, al compromesso cattocomunista nel quale non credeva, senza condizioni, fino al punto da non contare nulla nel “suo” giornale”, creatura incontestabilmente sua. Non uno dei “miei dirigenti”, come amava chiamarli, di dopo il 1978 è stato scelto da lui, non uno dei cronisti o commentatori. Mentre i suoi vecchi venivano confinati alle rubriche, Viola, Pirani, Turani. Un esito incredibile, prima che triste. C’è insomma qualcosa di non detto in lui e attorno a lui. Che non si può fare ascendere all'origine(alla “natura”) calabrese, all'umoralità - non del tutto, questa calabresità, benché non riconosciuta, c'entra anche molto, a partire dal fatto di essere rinnegata, senza obbligo: il padre era dopotutto un direttore di casinò, non un civil servant, come Scalfari vuole far opinare.
La ragione ufficiale dell’abbandono del suo amatissimo giornale è che Scalfari voleva dedicarsi alla filosofia. Che non è una ragione, ma lui la sostiene. Mentre la politica dell’alternativa democratica, del necessario ricambio al potere, ancora oggi insiste a ridurre al gioco di sponda al biliardo. Facendosela qui teorizzare da Ugo La Malfa, in una formulazione che è solo insensata. In questa formulazione il gioco di sponda sarebbe una mamma che si vuole levatrice. Oppure è l’arabica impostura dell’abate Vella, personaggio di Scinà e Sciascia: uno che s’inventava falsi documenti arabi, per provare l’autonomia dei baroni siciliani dal re di Napoli prima, poi il contrario, la loro dipendenza. Non per arricchirsi né per brama di potere, l’abate che giocava di sponda era a suo modo un asceta, era doppio per aiutare questo e quello.
Per Berlinguer, da cui tutto lo divideva, Scalfari cerca toni commossi, per la comune onestà. Ma da antipolitico qual è sempre stato. Senza, singolarmente, porsi il problema dell’onestà intellettuale. Per Berlinguer, dice, la questione morale nasceva dall’“occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”. Mentre il Pci, com’è noto, le lasciava sgombre. Del Pci Scalfari ricorda correttamente i fondamenti: “Il Partito ha sempre ragione” e “Niente fuori dal Partito”. Da lui stesso ben sperimentati, da politico e da imprenditore. Ma se il Pci ci ha messo tre anni a sciogliersi dopo la caduta del Muro, la causa è l’aborrito Craxi. E questa è tutta la politica di Scalfari, il suo senso critico.
È tutta qui anche la sua vena morale, la questione morale che lo caratterizza: è il moralismo, la condanna etica di chi è nato senza peccato originale, sindrome caratteristica dei belli-e-buoni della Repubblica, spesso al servizio del male dichiarato. Scalfari, superbo imprenditore, si è impadronito del laicismo e lo ha consegnato al compromesso storico. Si è impadronito dell’ex Pci e lo ha consegnato a Andreotti, anzi a Evangelisti. E della questione morale di cui s’è impadronito ha fatto uno scudo per De Mita e Prodi. Scalfari ha lavorato per la Dc, non per caso, e non per la migliore: un laico non può che sognare che molli l’osso, giù le mani dal laicismo. Un imprenditore dovrebbe infine riconoscere gli errori. A meno che Scalfari non abbia sbagliato: c’è pure stato un Cagliostro la cui ambizione era di essere Cagliostro.
Ha anche tradito l'etica degli affari. Senza profitto presumibilmente, per lo stesso cinico impulso. Questa è dura da avallare ma va detta: Scalfari è stato il paladino antemarcia, e tuttora lo è, della Padania, la Milano degli affari, da lui eretta con Arrigo Benedetti nella preistoria della Repubblica a “capitale morale d'Italia”. Anche quando ha toccato con mano per più prove che è la capitale della corruzione, politica e affaristica. Anche quando, avendolo inoppugnabilmente provato nel caso di Cefis e della Montedison (con Peppino Turani nello storico “Razza padrona”, ha dovuto aspettare vent'anni che lo scandalo esplodesse. Cioè quando a Milano ha fatto comodo e nell’interesse di Milano - una deriva a lui ben presente: quando Camilla Cederna, che pure era stata sua Grande Firma all’“Espresso”, montò il caso Leone su carte false, la tenne ostensibilmente lontana da “Repubblica”, dove lei puntava a entrare (irritato, è da presumere, dallo scimmiottamento: quanta differenza in effetti a rileggerli, di tono e soprattutto di argomenti, di “prove”, tra il “Giovanni Leone” e il Piano Solo, o “Razza padrona”).
Libertino antipolitico
Il suo giornale da tempo sa di stantio. Nella reazione che ha travolto l’Italia, quella di “Repubblica”, snobistica e manierata, è insipida. La cosa non sembra dispiacere a Scalfari, che non ha cambiato il giornale personalmente e non chiede di cambiarlo. E questo vuol dire che l’uomo non era libertino per andare controcorrente, ma perché intrinsecamente conservatore. È dunque come appare, un miope eretto. Si dice dei miopi che vanno un po’ curvi. Scalfari è un miope che gonfia il petto. Lo sguardo che trapassa e la testa eretta consentono anche entrate teatrali, fiere e sdegnose. Per una concezione della politica che, benché laico professo, o forse per questo, è totalitaria. Non al senso e al modo delle adunate o del Grande Fratello di Orwell, con le prigioni d’acciaio. Ma suadente, persuasiva, ideale. Al modo di Faust: quei rapporti dove basta dire sì, una volta sola, e si viene poi sempre protetti, vezzeggiati, magnificati. Benché senza salvezza – è tutto qui il problema di Dio, che il Partito non lo garantisce?
La qualità della filosofia è come quella della politica. Scalfari insegue Montaigne, l'incredulità (incroyance) che viene dalla morte, ma non ne ha lo spirito filosofico, il distacco. “L’universo è un luogo ospitale”, si può dire di lui con Emerson, personaggio e pensatore forse più nelle corde di Scalfari – di Scalfari come avrebbe dovuto essere, nella posizione che ha occupato. E “c’è sempre musica dolce nel flauto, ma ci vuole un suonatore per tirarla fuori”. Mentre il pensiero della morte, la vita imparentata alla morte, è già morte. O il desiderio di morire, naturalmente – il suicidio, per chi ha vissuto, è solo un incidente, una sopravvenienza. La morte “è il termine, non il fine” della vita, Montaigne insegna. A cui è follia non pensare, o rifiutarsi di pensare, altrettanto come lo è lasciarsene ingolfare. Thoreau, altro personaggio che avrebbe dovuto ma non è in commedia, nota giustamente che “per poter morire bisogna aver vissuto”, che dove non c’è stata vita non c’è morte, solo un imputridimento costante: “Sento molti dire che stanno per morire che sono già morti, per quel che ne so”.
Il saggio si confronta con la vita, non con la morte. La quale, se scontata in vita, è solo nostalgia, del non vissuto. La morte incombente un po’ è l’effetto del narcisismo, finire depressivi: si disimpara a morire perché non si è in grado di guardare alla vita, che è passata, al passato. La serenità – l’accettazione della morte – viene dal senso della vita. Che emerge sullo sfondo della caducità, cioè della morte, e si esprime nelle opere: la morte è solo una fine per chi ha fatto ciò che deve, non la fine. La libertà, più di tutto, ha un senso se c’è il rifiuto della morte. È uno spreco, e come tale può apprezzarla chi ha spiccato l’edonismo. Cioè la non attesa della morte.
La morte in una vita vissuta non è la sua accidentale interruzione ma il compimento, la meta del viaggio. Detto da Karl Rahner, ma non è capziosità gesuitica: il nodo è la malinconia, la moderna accidia. L’indifferenza, diceva Goethe, a ciò che scandisce l’esistenza. L’attenzione all’esistente, nelle infinite variazioni della sua monotonia, incagliata nell’apatia e la disappetenza, di idee, progetti, utopie, desideri. Di cui per di più si compiace, se non la fa titolo di nobiltà d’animo. E certo, come dice Kierkegaard, è la perdita di Dio a impedire di vedere il senso delle cose, le loro connessioni, l’unità della vita. Ma Kierkegaard dice pure che il malinconico è un falsario: il Dio assente è un’idea, un voler essere. Senza contare che la morte ha poco potere sulle persone amate: basta avere amato.
Il silenzio di Dio che sembra angustiare Scalfari è quello di Pascal, che egli non menziona, che perse Dio nell’infinità, come poi Kierkegaard, nell’astrazione dalla natura cui la Riforma l’aveva ha costretto. Varrà per lui ciò che Nietzsche scrisse di Carlyle nel “Crepuscolo degli idoli”: “La ricerca di una fede forte non è prova di una fede forte, ma piuttosto al contrario”. E c’è chi crede nel peccato non credendo in Dio: i laici buoni, puritani e libertini. Ma perché credere? O non sarà un omaggio tribale a Cassiodoro, il grande pensatore calabrese, che la filosofia dsse da ultimo una meditatio mortis? Dio però c’è poco in questo libro, così come la morte, benché se ne parli molto. Il radicalismo di Scalfari è sempre quello di Maurras, cui lo avvicina la scrittura, e anche la démarche, di cui non si saprebbe misurare la autenticità.
Il dio di Scalfari è il suo io, non detto. Necessario come gli sono necessari gli affetti probabilmente - di certo l’amicizia, da patriarca influente, a essa in realtà indifferente. E poi è troppo uomo del suo tempo. È anzi l’uomo del tempo, il testimone storico per eccellenza dei quarant’anni in cui ha fatto giornalismo, i suoi “Saggi” sono i suoi giornali, comprese le cadute. E il non detto è in realtà saputo. L’infinitezza spaventosa di Scalfari, o astrazione dalla natura, è la sua mondanità: l’interesse pervicace a questo mondo, ottimo e necessario per un ottimo imprenditore, ma non filosofico.
Si legge al § 429 dei “Pensieri” di Pascal una sorta di prova del nove: “L’immortalità dell’anima ci importa così tanto, ci tocca così profondamente, che bisogna aver perso ogni sentimento per essere nell’indifferenza di sapere che ne è”. Che potrebbe essere opportunismo – credere è meglio che non credere – e quindi inaccettabile all’onesto. Ma: perché Scalfari scrive? Tutto quello che aveva da dire, da insegnare ai meno provveduti, ha avuto una lunga vita per farlo e un largo seguito sui giornali: perché scrive da solo, da filosofo? Per tutti e per nessuno: per la verità? La condizione attuale di Scalfari sarebbe quella di un uomo “pio”. Non nel senso di uomo di una fede, ma di fedele del mistero-verità del mondo e dell’uomo. E invece egli è sempre, e vuol essere, uomo di parte. E allora? Non si diventa cinici in vecchiaia.
Dio c’è o non c’è, se non c’è non se ne può sentire la mancanza. Di fatto questa assenza di Dio, o il dispiacere di non poterlo incontrare, sono sociali. Dei convenevoli. Al modo delle nonne che si facevano obbligando i nipoti ad accompagnarle. Delle frequentazioni, familiari, sociali, editoriali magari, di un don Bianchi o un don Neri, il vecchio tipo del gesuita che imbrillantava i tinelli. E in quanto tale, pratica delle convenienze, l’esatto opposto di un Dio, il quale non può essere che diretto e semplice. “Gli uomini hanno paura della morte”, direbbe il cancelliere Bacone, “come i bambini hanno paura del buio; e come la naturale paura dei bambini s’accresce coi racconti, così l’altra”.
Miglior narratore
La vena di Scalfari è narrativa, qui come in “La sera andavamo in Via Veneto”. Per lo sberleffo irrefrenabile, l’ironia, la riserva mentale, che fanno il suo linguaggio primario, irrimediabilmente astuto e canzonatorio – che si dice adolescenziale, ma potrebbe essere quello della paternità calabrese, campanelliano. Della politica sicuro, e probabilmente anche di Dio, Scalfari ha opinione irridente. Ma anche in questo sembra censurarsi, lo spiritaccio emerge a sprazzi, limitato ai primi ricordi nell’infanzia, e a qualche insegnante, la proclamazione dell’impero tra i balilla, il fox trot con la mamma al Majestic, il padre in controluce. Poco, pochissimo, del suo compagno di liceo e amico di adolescenza Calvino, che pure è stato giovane per più aspetti brillante, con una casa lussureggiante, villa Meridiana, e genitori formidabili, noti in tutta Sanremo. Quasi nulla degli anni a Vibo.
Qui Scalfari ricorda infine Ernesto Rossi e cita Salvemini. Ma lascia sempre fuori Einaudi, Gobetti e gli altri della tradizione liberale, quella che distingue l’Italia nella grande cultura politica contemporanea – oltre a Pannunzio e Arrigo Benedetti. Qui comincia anche ad accettare la realtà: “Questa storia della borghesia illuminata è stata una delle illusioni che il gruppo del “Mondo” e dell’“Espresso” ha lungamente coltivato”, da lui stesso prolungata nella società civile, il governo dei tecnici eccetera. Ma sempre senza senso storico. Finendo per assomigliare al suo ritratto più celebre, l’Avvocato di panna montata, curioso, generoso, e infastidito. Che unicamente si diletta, anche in vecchiaia, di esercizi di egotismo, la costruzione calcolata di un io, senza abbandoni.
Alla fine del libro, non fosse per la vena irridente, si ha la sensazione di un drammone cupo. Tutto d’improvviso è laico in questa Italia vuota, l’università, la scuola, la filosofia, il football, la centrale nucleare, i giornali, i comunisti, il papa, ma perché è vuota la parola, una parola gruccia, per attaccarci quello che capita. Un mondo di chiacchiere senza un briciolo d’intelligenza, di accettazione virtuosa della realtà, dove si cercano gli immigrati ansiosamente e si vilipendono, si disprezza l’America e si tifa Obama, si uccidono i figli, e viceversa, e la civiltà si vuole là dove si uccidono i malati. Da cui cioè il laicismo è fuggito. Non molti anni fa: è fuggito con la politica, la quale è fuggita col compromesso storico. Di cui Scalfari s’è fatto il maestro, uno che non credeva – e non crede – né all’uno né all’altro dei suoi componenti, e nemmeno a tutt’e due. O il Fiancheggiatore per antonomasia: anche ora che il compromesso mostra i suoi terrificanti limiti, politici, etici, la faziosità, la violenza. Un compromesso sulla cui natura peraltro non ci sono mai stati dubbi: un ricordo personale è il no del comitato di redazione, Mino Fuccillo, Guglielmo Pepe, durato cinque anni, alla qualifica di inviato speciale a un redattore perché socialista, filo-Pci ma anti compromesso storico (col conseguente congelamento dello status di una diecina di altri redattori, i quali ebbero l’attesa qualifica dopo che l’odiato socialista ebbe lasciato il giornale), che Scalfari avallò: l’avallo gli statuti allora in vigore quasi imponevano, ma come asservire un giornale libero a queste pratiche totalitarie?
Se è lecito tentarne una critica, Scalfari ha improntato i giornali che ha creato a un meccanismo di sfruttamento della psicologia laica, della sua dote-debolezza che è l’individualismo incondizionato. Di principio ma anche pratico. Che non si saprebbe dire quanto benefico (l’autonomia del giudizio) e invece è speculare all’arricchimento facile e all’anti-democrazia su cui pretende di vigilare. Capriccioso, a volte, ma non di più. Si sa dell’azionismo, il partito non dichiarato di Scalfari, che è malato di un piccolo dannunzianesimo di superficie – senza cioè il lavoro di maglio e di bulino del Vate. A “Repubblica” il vizio non si è manifestato subito, l’imprinting di “Le Monde”, evocato alla nascita, ha avuto a lungo funzione apotropaica. Ma già nei primi anni Ottanta, nelle mascalzonate contro Sciascia, nelle quali ebbe purtroppo il sostegno di Pansa, oltre che di Arlacchi, Scalfari ne aveva fatto il luogo delle mascalzonate: del pregiudizio cieco, a carte non lette, e della polemica superficiale, tribale, familiare – “Repubblica” avrebbe dovuto essere il giornale di Sciascia e invece ne fu il nemico, pervicace, spietato.
È un laicismo, quello iniettato da Scalfari nei suoi giornali, che non libera ma tiene soggiogati, nella paura costante: muore la democrazia con Berlusconi, o chicchessia, e muoriamo noi alluvionati, oppure disidratati, muore la banca, muore la finanza, che pure è raccomandata, sono morte le istituzioni, già forse alla nascita, tutto vi è morto o vi muore. Nessun lettore, oltre che nessun redattore, è mai cresciuto civilmente (laicamente) con i suoi giornali, e anzi la tendenza è a fuggirne: tutti diventano “comunisti”, qualcuno fascista dichiarato, per il fondo compiaciuto, confermato, del piccolo borghese che sa di essere nel giusto, lui e non altri. Scalfari sarà il prototipo del personaggio eroico, cioè durevole, dell’Italia. Non quello appassionato, a tutto tondo, che suscita deliri, di amore e di odio, ma quello desabusé e fondamentalmente cinico, che passa per mille compromessi. I più resistenti in questa kermesse sono in effetti i giornalisti: Biagi, Montanelli, Bocca. Costruttori di macerie.
Ma poi anche in termini di io Scalfari è uno che si nega: si nega anzitutto forse a se stesso. Non reticente, non di proposito. Citati lo dice un Alessandro Magno (e Shakespeare, Pessoa, Montaigne, vedere “la Repubblica” del primo maggio per credere), che scorazza senza pentimenti. Un piccolo Alessandro Magno, perché no, che un po’ s’annoia e un po’ ama le novità. Ma non è necessario andare lontano: Scalfari si è definito, e vuole essere, uno snob. È sincero, poiché è misantropo - uno che disprezza perfino gli amici. Ma dello snob non ha il lato buono, che è il rispetto della forma: il principio di non contraddizione, la logica, la convenienza.
Un ricordo personale di Scalfari ne inquadra la personalità, sempre partecipe e sempre assente. Era la notte dell’uscita di “Repubblica”, Scalfari era nel portico della tipografia romana in piazza della Repubblica, che allora era aperto, nervoso. In una delle giacche di velluto che allora amava, senza cappotto, malgrado la nebbiolina ghiacciata di metà gennaio. Era forse prima del ricevimento, col giornale ormai chiuso, forse dopo, quando si aspettava la prima copia. Chiese una sigaretta, chiedendosi: “Come andrà? Che ne dici?” Il giornale nasceva su basi solide, compreso l’oroscopo di Linda Wolf - o era di Sirius? Ma Scalfari l’avrebbe chiesto a chiunque fosse passato. Due militari in libera uscita si avvicinarono. Non riconobbero Scalfari ma erano lì per informarsi: “È qui che fanno “Repubblica”?” Un interesse che ognuno avrebbe considerato beneaugurate. Ma Scalfari non ne fu lusingato, non sembrò neppure sentirli, intento ad ascoltarsi.
Compromesso De Benedetti
Il titolo è programmatico. Fosse descrittivo, sarebbe già di un uomo che crede in Dio, pur non volendolo. E risponde all’impoeticità di Scalfari, anch’essa di programma più che caratteriale- naturale. Di un passionale, al contrario, che inclina fatalmente alla poesia. Ma ha fatto voto evidentemente di fermarsi un passo prima, e a questa linea gialla ritorna di proposito ogni volta che d’impulso l’ha sorpassata. Scalfari è, in ogni sua manifestazione, passionale: prevenuto, preveniente, protettivo, vendicativo, sempre emotivo. L’effetto di questa astensione è curioso: perché la sua “filosofia”, il giudizio disincarnato sulle cose (gli eventi, l’adolescenza, la famiglia, il lungo impegno politico), solo prende vita nel quadro delle passioni, seppure rattenute.
Ma la sua avventura politica sarà, purtroppo, il tratto che lo distingue. Guardando da vicino, Scalfari è la specie d’uomo simpatico: attento, svelto, bright, amichevole. Benché, o anche perché, di spirito caustico, con le cose e, più, con le persone. Guardando le cose a distanza – è necessario, l’equivoco era troppo grossolano per essere accettato subito a lungo sembrato inverosimile – lo si scopre sempre su false tracce. Uno che alla fine, vuoi per divertirsi vuoi per albagia sempre porta il voto degli antidemocristiani alla Dc, dei comunisti soprattutto e dei laici. A Andreotti prima, e poi a De Mita – a De Mita... Col suo “Espresso” prima, ma soprattutto con “Repubblica”, sua a tutti gli effetti. Che si trattasse di “alternanza” alla guida del governo, o di nomine bancarie e negli enti – terna buona di candidati era sempre e solo quella che conteneva solo manager democristiani. Il che non è una colpa naturalmente, e non sarebbe scandaloso se l’indiscussa situazione di malgoverno nella Repubblica non fosse determinata dal mancato ricambio politico (l’alternanza). E se lui stesso non si professasse il principe degli antidemocristiani. O un capolavoro politico, se si vuole, ma di pessima politica. Protestando il “rinnovamento” di De Mita (di De Mita…). E agitando l’anticraxismo. Che non si è mai capito cosa fosse, se l’antipatia personale di Scalfari verso un segretario provinciale Psi che ne bloccò la rielezione nel 1972, o un calcolo freddo di cinismo politico, l’imputato essendo eccezionalmente non corrotto, benché aggressivo, e di ottime doti politiche. Se non un favore al socio e padrone Carlo De Benedetti, di cui Craxi fu effettivamente il nemico in tanti contestabili affari, Société Générale, Ambrosiano, Sme.
La storia politica di Scalfari purtroppo è questa, quella di un fiancheggiatore. Di che non si vuole dire. Certo non del socialismo, ma nemmeno del mercato. “Si sa” però alla Pasolini, essendo l’evidenza: cambiare tutto perché nulla cambi, la politica sotto il tiro dell’indignazione. Fingendosi ammaliato da Berlinguer, che giudicava ingenuo, per subordinarlo alla Dc. Dalla quale tutto avrebbe dovuto dividerlo ma era la scelta dell’editore-direttore Carlo De Benedetti, allora in pectore ma non in partibus - per vent’anni i giornalisti di “Repubblica” non hanno saputo che il vero editore-direttore era De Benedetti. Che ha fatto ottimi affari con la Dc, da quello fallito con De Mita e Prodi per il colosso alimentare Sme, che avrebbe pagato, per una cifra irrisoria, con un credito del venditore, a quello riuscito con Draghi delle licenze Omnitel (rivendute con un guadagno di tredicimila miliardi in un anno) e delle centrali Enel. Il suo progetto, dichiarato, era di mettere i milioni di voti del Pci, nel 1976 il 33 per cento, al servizio della Dc. Contro Craxi a un certo punto (“Repubblica” fu l’unico giornale a non rimarcare nel 1983 che quello di Craxi era il primo governo a guida socialista nei centoventi anni della storia d’Italia). Che non aveva colpe particolari, ma pretendeva di governare – nel solco non infame della governabilità, della (necessaria) autonomia del politico. Poi, dopo l’abbattimento riuscito di Craxi, con la straordinaria “creazione” di Berlusconi.
Una storia, se si vuole, di successo. Ma a che fine? Con qualche rischio per l’immagine, poiché l’indignazione non avvince e anzi stanca – non solo il pazzo Nietzsche ne ha pessima opinione: “Nessuno è bugiardo come l’uomo indignato”, in un testo che intitola peraltro Al di là del bene e del male, anche Fo: “L’indignazione fa rima con coglione”. La storia politica di Scalfari s’intreccia purtroppo da trent’anni ormai con quella di Carlo De Benedetti, che è un uomo d’affari. Potrebbe essere dunque quella di un libertino, quale si vuole, un avventuriero divertito. Ma il libertino non ha rimpianti. Non ha cicatrici né vede incroci, ai quali dirsi di aver sbagliato, non per errore.
Eugenio Scalfari, L’uomo che non credeva in Dio, pp.150, € 16,50
La verità della Bibbia ce l'ha Canfora
Ce l’ha con la messa tridentina di Benedetto XVI. Citando contro il latino i bei nomi, vecchio artificio della retorica della polemica. Ma non Gramsci. Né se stesso, che in “Noi e gli antichi”, appena quattro anni fa, argomentava “perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni”. “Filologia e libertà” ha una parte buona, un paio di pagine, le citazioni di Pasquali. Per il resto, malgrado la qualità dell’edizione, è un libello da poco, un articolo di giornale contro il papa. Come gli altri contro la democrazia (che elegge Berlusconi), e contro Augusto (di Berlusconi predecessore).
Canfora, che è stato forse il miglior scrittore – miglior “narratore” – degli anni 1990 con la sua capacità di far vivere la filologia, si è perso quale polemista stucchevole, prevedibile. Il titolo giusto sarebbe diverso: la filologia, o l’invenzione del testo. Il dotto Canfora è naturalmente al di qua della linea. Ma è in fase acuta di “correttismo” politico e quindi insolentisce per 150 pagine quelle carogne di papi che non consentono di ricostruire la verità della Bibbia, riproducendo fuori contesto a scopo di ludibrio anche i documenti papali.
La sua storia pure è cupa. La democrazia di Atene fu incidentale e breve. Brevissima, poche settimane o mesi. E si marcia su Roma dai tempi di Augusto, di quando Augusto aveva 19 anni. Un giorno si scriverà di quando Berlusconi pubblicava e promuoveva i suoi critici, come Canfora, e sarà di sicuro più interessante.
Luciano Canfora, Filologia e libertà, Mondadori, pp.149, € 13
La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, pp.446, € 9
La prima marcia su Roma, Laterza, pp.87, € 12
Canfora, che è stato forse il miglior scrittore – miglior “narratore” – degli anni 1990 con la sua capacità di far vivere la filologia, si è perso quale polemista stucchevole, prevedibile. Il titolo giusto sarebbe diverso: la filologia, o l’invenzione del testo. Il dotto Canfora è naturalmente al di qua della linea. Ma è in fase acuta di “correttismo” politico e quindi insolentisce per 150 pagine quelle carogne di papi che non consentono di ricostruire la verità della Bibbia, riproducendo fuori contesto a scopo di ludibrio anche i documenti papali.
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