È Corrado Passera la scelta del governo per gestire il salvataggio e il rilancio di Alitalia. È una scelta “milanese”, di Ermolli e gli ambienti d’affari coinvolti, e quindi anche di Berlusconi. Ed è la scelta di Fini, che con l’ad di Intesa ebbe proficui scambi di vedute quando lo stesso amministrava le Poste. È il successo di Passera nella ristrutturazione e il rilancio delle Poste, l’unica azienda dello Stato dove si è fatta con successo la formazione del personale, dove si è innovato radicalmente con successo, e dove è entrata la cultura della produttività, a consigliare questa indicazione. Che incontrerebbe il desiderio dello stesso Passera di cambiare azienda e settore, non trovando più in Intesa, dopo la fusione col San Paolo, stimoli a continuare.
La nomina si farà quando sarà stato individuato il suo successore in Intesa. È a questo proposito che il nome di Matteo Arpe è emerso, l’ultimo dei giovani innovatori della grande banca, dopo Profumo e lo stesso Passera. Arpe aveva a suo tempo contrastato con durezza, da amministratore delegato di Capitalia-Banca di Roma, il passaggio del gruppo romano a Intesa. Ma di questo non gli farebbe colpa Bazoli, che di Intesa è a tutti gli effetti il dominus: il mancato acquisto di Capitalia viene addebitato in Intesa alla resistenza di Cesare Geronzi, dominus del gruppo romano incontrastato. La nomina del nuovo ad del resto Bazoli deve ora contrattare con i suoi nuovi soci di Torino. E questa inaspettatamente sarebbe la carta più a favore di Arpe: consentire a Bazoli di chiudere la falla prima ancora che si apra.
mercoledì 11 giugno 2008
Contro Veltroni da destra e da sinistra
Non c’è solo l’ex Margherita a scendere in campo sempre più dichiaratamente contro Veltroni. Anche i prodiani hanno la loro da dire. E comunque il leader del partito Democratico non si fa illusioni, a sentire i suoi collaboratori: si sente pressato da destra, per dire, e da sinistra. Per sinistra intendendo Arturo Parisi e i prossimo collaboratori di Prodi, tra essi il suo ex consulente per gli affari a palazzo Chigi, Angelo Rovati. Più una parte dei Ds, quelli che Veltroni aveva silurato nelle federazioni locali e nelle candidature e che tra elezioni amministrative e organi locali si stanno prendendo numerose rivincite. Un’alleanza tra Prodi e questa sinistra ex Ds, quasi bertinottiana, sembra impensabile, e tuttavia c’è già stata dieci anni fa, c’è stata nel 2006, e non è lontana oggi. Rovati, che ha voluto far sapere di non avere votato Pd, è più di Parisi un avversario acceso di Veltroni.
La saldatura è possibile sul tema Berlusconi. Anche Prodi è convinto che l’antiberlusconismo non paghi più. Forse in modo espediente, preparandosi personalmente la successione al Quirinale al presidente Napolitano tra quattro anni. Sul tema delle riforme istituzionali, però, per le quali l’incontro Pd-Pdl sembra maturo, Prodi dissente su più di un punto. Altri punti sensibili sarebbero la sicurezza (dai clandestini alle intercettazioni) e il mercato del lavoro. Su questi punti Prodi non ha proposte diverse da quelle del governo, ma si aspetta che Veltroni si logori in un’opposizione che non potrà essere credibile dal momento che l’asse della sua politica è fare anzitutto le riforme. Insomma, un’opposizione articolata e attendista. Ma non per molto, si assicura.
Le critiche a Veltroni sono più di una fronda, ogni giorno montando di livello. A livello nazionale si anno sentire in interviste e nei talk show, anche con un certo compiacimento. Ma sono più forti, se possibile, comunque più insidiose, a livello locale.
La saldatura è possibile sul tema Berlusconi. Anche Prodi è convinto che l’antiberlusconismo non paghi più. Forse in modo espediente, preparandosi personalmente la successione al Quirinale al presidente Napolitano tra quattro anni. Sul tema delle riforme istituzionali, però, per le quali l’incontro Pd-Pdl sembra maturo, Prodi dissente su più di un punto. Altri punti sensibili sarebbero la sicurezza (dai clandestini alle intercettazioni) e il mercato del lavoro. Su questi punti Prodi non ha proposte diverse da quelle del governo, ma si aspetta che Veltroni si logori in un’opposizione che non potrà essere credibile dal momento che l’asse della sua politica è fare anzitutto le riforme. Insomma, un’opposizione articolata e attendista. Ma non per molto, si assicura.
Le critiche a Veltroni sono più di una fronda, ogni giorno montando di livello. A livello nazionale si anno sentire in interviste e nei talk show, anche con un certo compiacimento. Ma sono più forti, se possibile, comunque più insidiose, a livello locale.
Niente buco se il giornale non lo dice
Roma è in dissesto per 7,2 oppure per nove miliardi? Per nove, non c’è dubbio. E non perché la cifra l’ha registrata qualche mese fa questo sito, ma perché un segreto che tutti sanno. Non lo dicono, però, ecco, la notizia è questa. Un po’ come quando la tv esplose con “Lascia o raddoppia” e al “Corriere della sera” si decise, con fastidio, che se il giornale non ne parlava era tanto meglio. È così che il lettore di sinistra, che compra il suo giornale ogni mattina, il “Corriere della sera” o “La Repubblica”, e diligentemente lo legge, non sa nulla di questo. Al più sa che c’è un nuovo sindaco, uno di destra, che vorrebbe far fallire il suo Comune. Insomma, la solita fastidiosa bega tra destra e sinistra. Ma non si sa: è il lettore di sinistra che vuole il giornale come il rosario, noto, ripetitivo e elogiativo? o è il giornale che, in tema di santi, sa solo dire il rosario?
Il buco potrebbe essere maggiore in dipendenza dai derivati che a mano a mano vengono a scadenza, e dal difficoltoso recupero di due milioni di cartelle pazze da parte di Equitalia, l’esattoria del Tesoro. Sarà comunque maggiore con le perdite di aziende comunali che peraltro non brillano per i servizi, come i trasporti e la spazzatura. E purtroppo, destra o sinistra che sia, è il risultato di una gestione della più grande città italiana ridotta a santificare i sindaci Rutelli e Veltroni, la loro immagine e carriera politica. I nove miliardi che mancano non sono stati naturalmente spesi per la gloria dei sindaci, forse nemmeno novecento milioni. Ma non c’è stata a Roma altra politica per quindici anni, non di bilancio né d’investimento, che non fosse il passaggio politico di Rutelli e di Veltroni ogni giorno sui giornali. Un po’ come nel Terzo mondo, che lo scià, il generale, il chief ogni giorno deve campeggiare in prima pagina. Veltroni giunse, un giorno di magra, a dotare una signorina della borgata Finocchio, che ne fu molto sorpresa – dotare nel senso di costituire la dote per il matrimonio.
I nove miliardi che mancano non sono stati naturalmente spesi per la gloria dei sindaci, forse nemmeno novecento milioni. Ma non c’è stata a Roma altra politica per quindici anni, non di bilancio né d’investimento, che non fosse il passaggio politico di Rutelli e di Veltroni ogni giorno sui giornali. Un po’ come nel Terzo mondo, che lo scià, il generale, il chief ogni giorno deve campeggiare in prima pagina. Veltroni giunse, un giorno di magra, a dotare una signorina della borgata Finocchio, che ne fu molto sorpresa – dotare nel senso di costituire la dote per il matrimonio.
La politica scantona: se Alemanno non s’è inventato il “buco”, se Roma non si sta fregando altri spiccioli dello Stato, se una gigantesca liquidazione non è in corso, una caccia alle streghe, se il debito non era già di Rutelli, o già di Carraro, se non Argan,o del sindaco Nathan, ecc.. Il solito gigantesco gioco dei quattro cantoni, anche della destra contro la destra e della sinistra contro la sinistra. Solo la giustizia se ne disinteressa. Il fatto c’è, la notizia di reato è perfino troppo corposa. Ma la Corte dei conti non sa nulla e non si interessa del “buco” di Roma. La giustizia ordinaria, che ci ritroviamo purtroppo anche in camera da letto, e intercetta perfino i rumori molesti del bagno, neppure.
La corruzione nelle nostre città è lampante. È minuta e all’ingrosso, è quotidiana, è spudorata, è normale. A partire dai comportamenti, l’uso privato del fax in ufficio (il popolo dei fax di certa sinistra) e, carissimo, del cellulare aziendale, specie se pubblico, o dai miniappalti apparentemente innocui, ma si guadagnano migliaia di euro producendo soltanto adesivi, per il Comune, la Provincia, la Regione. Tutto quello che oltralpe semplicemente non è tollerato, dalla Spagna alla Finlandia. Solo per la giustizia la corruzione non c’è. Se non è espediente al destra-sinistra, al piccolo cabotaggio politico. La giustizia essendo essa stessa il perno della corruzione, per gli interessi privati (consulenze, incarichi istituzionali, giudizi extragiudiziali), per le omissioni e collusioni politiche, per le persecuzioni, per i carrierismi, spesso loschi, altre volte spietati, sempre sfrontati, per l’impunità eretta a garanzia costituzionale.
Il buco potrebbe essere maggiore in dipendenza dai derivati che a mano a mano vengono a scadenza, e dal difficoltoso recupero di due milioni di cartelle pazze da parte di Equitalia, l’esattoria del Tesoro. Sarà comunque maggiore con le perdite di aziende comunali che peraltro non brillano per i servizi, come i trasporti e la spazzatura. E purtroppo, destra o sinistra che sia, è il risultato di una gestione della più grande città italiana ridotta a santificare i sindaci Rutelli e Veltroni, la loro immagine e carriera politica. I nove miliardi che mancano non sono stati naturalmente spesi per la gloria dei sindaci, forse nemmeno novecento milioni. Ma non c’è stata a Roma altra politica per quindici anni, non di bilancio né d’investimento, che non fosse il passaggio politico di Rutelli e di Veltroni ogni giorno sui giornali. Un po’ come nel Terzo mondo, che lo scià, il generale, il chief ogni giorno deve campeggiare in prima pagina. Veltroni giunse, un giorno di magra, a dotare una signorina della borgata Finocchio, che ne fu molto sorpresa – dotare nel senso di costituire la dote per il matrimonio.
I nove miliardi che mancano non sono stati naturalmente spesi per la gloria dei sindaci, forse nemmeno novecento milioni. Ma non c’è stata a Roma altra politica per quindici anni, non di bilancio né d’investimento, che non fosse il passaggio politico di Rutelli e di Veltroni ogni giorno sui giornali. Un po’ come nel Terzo mondo, che lo scià, il generale, il chief ogni giorno deve campeggiare in prima pagina. Veltroni giunse, un giorno di magra, a dotare una signorina della borgata Finocchio, che ne fu molto sorpresa – dotare nel senso di costituire la dote per il matrimonio.
La politica scantona: se Alemanno non s’è inventato il “buco”, se Roma non si sta fregando altri spiccioli dello Stato, se una gigantesca liquidazione non è in corso, una caccia alle streghe, se il debito non era già di Rutelli, o già di Carraro, se non Argan,o del sindaco Nathan, ecc.. Il solito gigantesco gioco dei quattro cantoni, anche della destra contro la destra e della sinistra contro la sinistra. Solo la giustizia se ne disinteressa. Il fatto c’è, la notizia di reato è perfino troppo corposa. Ma la Corte dei conti non sa nulla e non si interessa del “buco” di Roma. La giustizia ordinaria, che ci ritroviamo purtroppo anche in camera da letto, e intercetta perfino i rumori molesti del bagno, neppure.
La corruzione nelle nostre città è lampante. È minuta e all’ingrosso, è quotidiana, è spudorata, è normale. A partire dai comportamenti, l’uso privato del fax in ufficio (il popolo dei fax di certa sinistra) e, carissimo, del cellulare aziendale, specie se pubblico, o dai miniappalti apparentemente innocui, ma si guadagnano migliaia di euro producendo soltanto adesivi, per il Comune, la Provincia, la Regione. Tutto quello che oltralpe semplicemente non è tollerato, dalla Spagna alla Finlandia. Solo per la giustizia la corruzione non c’è. Se non è espediente al destra-sinistra, al piccolo cabotaggio politico. La giustizia essendo essa stessa il perno della corruzione, per gli interessi privati (consulenze, incarichi istituzionali, giudizi extragiudiziali), per le omissioni e collusioni politiche, per le persecuzioni, per i carrierismi, spesso loschi, altre volte spietati, sempre sfrontati, per l’impunità eretta a garanzia costituzionale.
lunedì 9 giugno 2008
Voglia bianca di correre soli in Europa
Non è stato il deficit di proposta a penalizzare il Pd, secondo i bianchi del partito, ma il centralismo democratico di Veltroni. E il dopo elezioni è conforme: il leader del Pd va avanti come uno schiacciasassi su una strada che non può che essere perdente, alienando agli ex popolari e ex Margherita i politici locali e portatori di voti. L’irritazione monta col passare delle settimane, senza che Veltroni dia cenni di voler mutare linea o atteggiamento. E si condensa in in un antiveltronismo ogni giorno più duro e meno dissimulato. Con Veltroni rimangono Franceschini, i candidati sindaci suonati e suonaturi, di Roma, Massa, Livorno, Napoli, eccetera, e pochi altri - forse nemmeno l’incognito ubiquo Follini: Marini, Bindi, Fioroni, e Prodi naturalmente, con Parisi, e gli altri vedovi dell’Ulivo scalpitano.
Non ci sono molte vie d’uscita: tra i leader bianchi non ci sono molte idee per uscire dall’impasse. Non c’è nemmeno molta sintonia tra di essi, non si può parlare di un fronte contro i veltroniani. Quello bianco è come un gregge tutto di montoni, e allo sbando. Ma un’esigenza sta emergendo, al loro modo obliquo, trasversale, detta e non detta, ma sempre più chiara: smarcarsi. Contarsi da soli, far riemergere l’orgoglio ex popolare. L’appuntamento sono le elezioni europee, dove il voto è effettivamente libero, sganciato dai ricatti - il potere, il voto utile. E l’idea è di riuscire nell’occasione a rendersi nuovamente visibili. Senza scissioni, ma con una distinta identità – identità è ora la parola chiave tra i cattolici del Pd.
La componente bianca del Pd sa di essere comunque legata al progetto del partito e non valuta, non ne discute nemmeno, di uscirne. Ma è altrettanto unanime e sicura di dover dare sfidare Veltroni per non perdere definitivamente la base elettorale. Che è sempre compatta nell’antiberlusconismo, ma è pure antiveltronista. L’idea è venuta nelle discussioni croniche sull’adesione o non adesione del Pd al Partito Socialista Europe. A un certo punto uno sdoppiamento delle appartenenze è stato prospettato, che però è impraticabile. Anche perché il Partito Popolare Europeo è saldamente legato al vincente Berlusconi. Ma uno sdoppiamento delle liste si pensa che sia possibile, con un logo, un marchio, che identifichi la parte ex Dc del partito Democratico.
Non ci sono molte vie d’uscita: tra i leader bianchi non ci sono molte idee per uscire dall’impasse. Non c’è nemmeno molta sintonia tra di essi, non si può parlare di un fronte contro i veltroniani. Quello bianco è come un gregge tutto di montoni, e allo sbando. Ma un’esigenza sta emergendo, al loro modo obliquo, trasversale, detta e non detta, ma sempre più chiara: smarcarsi. Contarsi da soli, far riemergere l’orgoglio ex popolare. L’appuntamento sono le elezioni europee, dove il voto è effettivamente libero, sganciato dai ricatti - il potere, il voto utile. E l’idea è di riuscire nell’occasione a rendersi nuovamente visibili. Senza scissioni, ma con una distinta identità – identità è ora la parola chiave tra i cattolici del Pd.
La componente bianca del Pd sa di essere comunque legata al progetto del partito e non valuta, non ne discute nemmeno, di uscirne. Ma è altrettanto unanime e sicura di dover dare sfidare Veltroni per non perdere definitivamente la base elettorale. Che è sempre compatta nell’antiberlusconismo, ma è pure antiveltronista. L’idea è venuta nelle discussioni croniche sull’adesione o non adesione del Pd al Partito Socialista Europe. A un certo punto uno sdoppiamento delle appartenenze è stato prospettato, che però è impraticabile. Anche perché il Partito Popolare Europeo è saldamente legato al vincente Berlusconi. Ma uno sdoppiamento delle liste si pensa che sia possibile, con un logo, un marchio, che identifichi la parte ex Dc del partito Democratico.
Amori disincarnati della Duras
Esemplare Duras fin dagli inizi, dalla cruda lunga memoria della madre e di Léo-M.Jo, il personaggio del suo primo amore (e di tanti libri) a sedici anni, ricchissimo ma annamita, e perciò invisibile. I tre quaderni “ritrovati” (in realtà già per metà pubblicati nel 1986 nel “Dolore”) sono qui pubblicati non in ordine storico, di composizione, ma presumibilmente per qualità di lettura – il primo quaderno, di fine anni Trenta, viene per ultimo. E tuttavia il marchio Duras è fluido e felice fin dall’inizio, quando ancora lei si vedeva moglie e amante di scrittori.
Esemplare è nel primo di questi “Quaderni” il primo corpo a corpo con la famiglia che sarà uno dei temi narrativi maggiori di Marguerite Duras, con la madre e i due fratelli, e con la vita in colonia, dei francesi che in Indocina come in Algeria si abbrutirono e perfino si declassarono. È un testo del 1943, e potrebbe essere la prima prova narrativa della ventinovenne Margherite, anche se nello stesso anno risulta aver debuttato nell’editoria maggiore con “Les Impudents” e l’anno successivo con “La vita tranquilla”. Il racconto della famiglia, che serpeggerà in tutta la narrativa, è qui molto esplicito. Vendicativo forse: ne va della sopravvivenza della scrittrice, al momento in cui ha iniziato una vita totalmente diversa. Con pagine d’antologia: l’inutile lotta contro le maree, la figlia immacolata da picchiare regolarmente, che è la stessa Marguerite, la letteratura dell’infanzia, la scuola, la virilità della maternità, “se per virilità s’intende l’sercizio violento della libertà”.
Il libro, composto da tre quaderni redatti tra il 1943 e il 1948, è un magazzino della Duras romanziera. Meglio un ouvroir, cui Marguerite attingerà i motivi principali, e anche interi testi, di tre filoni di romanzi. Una tavola delle concordanze e un indice dei nomi, reali e d’invenzione, ne facilitano al lettore il reperimento. I due blocchi più lunghi riguardano uno l’esperienza in Indocina (“L’amante”, “La diga”), l’altro la tarda pubblicazione, già allora giustificata dal reperimento di taccuini dispersi, sul ritorno del marito Robert Anselme dalla detenzione a Dachau alla libertà a Parigi, dove Marguerite si era fatta un'altra vita con Dionys Mascolo. Tema che, con molte precauzioni, Marguerite ha elaborato ne “I cavallini di Tarquinia” e, a generi rovesciati, ne “Il Marinaio di Gibilterra”. E poi ne “Il dolore”, pubblicato tardi, nel 1985. Corredato da testi che qui si ripubblicano, “Ter le milicien” e “Albert des capitales”, materiali di un romanzo alla Fenoglio sui giorni finali della Resistenza, che la scrittrice non ha pubblicato, e forse non ha scritto.
L’invenzione dell’“Amante”
Il primo-ultimo gruppo di appunti svela forse da sé uno dei misteri che i biografi di Marguerite Duras non riescono a penetrare, la sua famiglia e la sua Indocina. Perché la sua vita fino a vent'anni è più d'invenzione che non. Compreso l'amante "cinese", che in uno dei quaderni ha molte scene, ed è il figlio degenere di un ricco imprenditore annamita, mentre in un altro è un piantatore del Nord (Vietnam) meticcio. E cioè, in francese, è mezzo europeo. Nel primo (qui ultimo) quaderno leggibile della fitura scrittrice, ricondotto al 1938-39, si pala del padre che muore di consunzione, nella sua vila, in un parco, bene accudito da fedeli domestici, nella valle del Dropt. Una zona poco nota dell'Aquitania, di grande attrattiva storica e ambientale, da uno dei cui toponimi, il castello di Duras, molto vivibile, fine Cinquecento, e molto monumentale, Marguerite prenderà il nome d'arte. Il padre morto la madre vorrebbe poi riseppellire in un'altra tenuta di famiglia.
Un capitolo dei “Quaderni” è intitolato “Ricordi d’Italia”. Non lungo, in questi diari l’Italia è poca, ma è densa. Come ogni esperienza, anche minima, di Marguerite Duras. E darà esca al secondo filone di romanzi autobiografici. Una vacanza estiva a Bocca di Magra nel 1946, con Robert e Dionys, e con Elio Vittorini e la sua ammiratissima moglie Ginetta, qui si ritrova già "scritta", in abbozzi che la scrittrice capitalizzerà ne “I cavallini” e “Il marinaio”. Più un ritratto a tutto tondo di Dionys Mascolo, col quale la scrittrice avrà il figlio Jean, che s'intestardisce a fare il bagno nella libecciata, dove più spesso si muore, e probabilmente, da solo, di nascosto, lo ha fatto.
Esemplari sono, questi “Quaderni”, della scrittura disincarnata che sarà la cifra di Marguerite Duras. L’ombra è erotica. Firenze è senza alberi. C’è il senso della morte nel bagno di sole. Il senso di colpa per il marito partigiano, dimenticato dai tedeschi nel lager e dalla stessa Marguerite a letto con Dionys, è nella sua diarrea insistente, quasi una voglia di morte del sopravvissuto, o di spurgo della vita anteriore.
La fisicità della letteratura
Duras ha una scrittura sua, nella posterità, immune alla Duras pubblica, dei film, la politica, il femminismo, che qui emerge a tutto rilievo. Duras è una scrittrice che, benché coinvolta praticamente in tutto, dal giornalismo alle elezioni, dalle polemiche quotidiane agli amori senili, e in un purismo Pcf da neofita, fino all’antigollismo (benché il Partito l’abbia processata per immoralità, per il rapporto a tre con Antelme e Mascolo), ne è completamente distaccata. In un certo senso lei stessa la individua - la sua scrittura - in una pagina che si vuole frivola e seria, in cui la sua posizione nella vita e l’amore fa risalire a due letture dell’adolescenza, “Magalì” di Delly e Dostoevskij. A Dostoevski attribuisce “la tendenza che ho ancora a preferire l’opera d’ispirazione a ogni altra, e a disistimare l’intelligenza”. Il che è vero al contrario – e il contesto dice che la Duras questo intende dire: il suo sguardo è dell’anatomista.
Un’altra conferma è nel diario italiano. Il primo episodio è la nascita del figlio morto avuto col marito Robert. Un episodio successivo è il progetto di una nuova maternità con l’amante Dionys, nel momento in cui il rapporto si scioglie, a ricordo di un amore finito. Pezzi di bravura, ma da anatomista, della gestazione, del parto, della crisi di coppia: tutto per la letteratura. Non solo gli eventi (aneddoti) e la memoria, ma le cose e il sangue stesso sono in quanto materia di manipolazione letteraria, di scrittura. A pochi anni data, è la scrittura che soverchia e anzi annulla il personaggio, e non il contrario, come sembrava in vita.
La cifra Duras è la fisicità in ogni aspetto, la luce (l’ombra), il presentimento, dell’infelicità, della felicità, il parto, la morte al parto, il ritorno dal lager, qui raccontato due volte, del marito, e la merda, un mese di merda di uno che solo si nutre di liquidi ed è pelle e ossa, e ribolle, verde, putrida, un’espulsione simbolica di tutto il male introiettato, dopodichè la fame ritorna, insaziata. La disincarnazione della carne. Degli amori, materno, fraterno, clandestino e come prostituito, di coppia, filiale, della maternità, della morte nella maternità, del senso della vita nella morte, del declassamento, che essa risente e forse ne ha segnato la vita fino al successo letterario, per una sorta di follia materna come quella gaddiana.
Margherite Duras, Quaderni della guerra e altri scritti, Feltrinelli, pp.326, € 19,50
Esemplare è nel primo di questi “Quaderni” il primo corpo a corpo con la famiglia che sarà uno dei temi narrativi maggiori di Marguerite Duras, con la madre e i due fratelli, e con la vita in colonia, dei francesi che in Indocina come in Algeria si abbrutirono e perfino si declassarono. È un testo del 1943, e potrebbe essere la prima prova narrativa della ventinovenne Margherite, anche se nello stesso anno risulta aver debuttato nell’editoria maggiore con “Les Impudents” e l’anno successivo con “La vita tranquilla”. Il racconto della famiglia, che serpeggerà in tutta la narrativa, è qui molto esplicito. Vendicativo forse: ne va della sopravvivenza della scrittrice, al momento in cui ha iniziato una vita totalmente diversa. Con pagine d’antologia: l’inutile lotta contro le maree, la figlia immacolata da picchiare regolarmente, che è la stessa Marguerite, la letteratura dell’infanzia, la scuola, la virilità della maternità, “se per virilità s’intende l’sercizio violento della libertà”.
Il libro, composto da tre quaderni redatti tra il 1943 e il 1948, è un magazzino della Duras romanziera. Meglio un ouvroir, cui Marguerite attingerà i motivi principali, e anche interi testi, di tre filoni di romanzi. Una tavola delle concordanze e un indice dei nomi, reali e d’invenzione, ne facilitano al lettore il reperimento. I due blocchi più lunghi riguardano uno l’esperienza in Indocina (“L’amante”, “La diga”), l’altro la tarda pubblicazione, già allora giustificata dal reperimento di taccuini dispersi, sul ritorno del marito Robert Anselme dalla detenzione a Dachau alla libertà a Parigi, dove Marguerite si era fatta un'altra vita con Dionys Mascolo. Tema che, con molte precauzioni, Marguerite ha elaborato ne “I cavallini di Tarquinia” e, a generi rovesciati, ne “Il Marinaio di Gibilterra”. E poi ne “Il dolore”, pubblicato tardi, nel 1985. Corredato da testi che qui si ripubblicano, “Ter le milicien” e “Albert des capitales”, materiali di un romanzo alla Fenoglio sui giorni finali della Resistenza, che la scrittrice non ha pubblicato, e forse non ha scritto.
L’invenzione dell’“Amante”
Il primo-ultimo gruppo di appunti svela forse da sé uno dei misteri che i biografi di Marguerite Duras non riescono a penetrare, la sua famiglia e la sua Indocina. Perché la sua vita fino a vent'anni è più d'invenzione che non. Compreso l'amante "cinese", che in uno dei quaderni ha molte scene, ed è il figlio degenere di un ricco imprenditore annamita, mentre in un altro è un piantatore del Nord (Vietnam) meticcio. E cioè, in francese, è mezzo europeo. Nel primo (qui ultimo) quaderno leggibile della fitura scrittrice, ricondotto al 1938-39, si pala del padre che muore di consunzione, nella sua vila, in un parco, bene accudito da fedeli domestici, nella valle del Dropt. Una zona poco nota dell'Aquitania, di grande attrattiva storica e ambientale, da uno dei cui toponimi, il castello di Duras, molto vivibile, fine Cinquecento, e molto monumentale, Marguerite prenderà il nome d'arte. Il padre morto la madre vorrebbe poi riseppellire in un'altra tenuta di famiglia.
Un capitolo dei “Quaderni” è intitolato “Ricordi d’Italia”. Non lungo, in questi diari l’Italia è poca, ma è densa. Come ogni esperienza, anche minima, di Marguerite Duras. E darà esca al secondo filone di romanzi autobiografici. Una vacanza estiva a Bocca di Magra nel 1946, con Robert e Dionys, e con Elio Vittorini e la sua ammiratissima moglie Ginetta, qui si ritrova già "scritta", in abbozzi che la scrittrice capitalizzerà ne “I cavallini” e “Il marinaio”. Più un ritratto a tutto tondo di Dionys Mascolo, col quale la scrittrice avrà il figlio Jean, che s'intestardisce a fare il bagno nella libecciata, dove più spesso si muore, e probabilmente, da solo, di nascosto, lo ha fatto.
Esemplari sono, questi “Quaderni”, della scrittura disincarnata che sarà la cifra di Marguerite Duras. L’ombra è erotica. Firenze è senza alberi. C’è il senso della morte nel bagno di sole. Il senso di colpa per il marito partigiano, dimenticato dai tedeschi nel lager e dalla stessa Marguerite a letto con Dionys, è nella sua diarrea insistente, quasi una voglia di morte del sopravvissuto, o di spurgo della vita anteriore.
La fisicità della letteratura
Duras ha una scrittura sua, nella posterità, immune alla Duras pubblica, dei film, la politica, il femminismo, che qui emerge a tutto rilievo. Duras è una scrittrice che, benché coinvolta praticamente in tutto, dal giornalismo alle elezioni, dalle polemiche quotidiane agli amori senili, e in un purismo Pcf da neofita, fino all’antigollismo (benché il Partito l’abbia processata per immoralità, per il rapporto a tre con Antelme e Mascolo), ne è completamente distaccata. In un certo senso lei stessa la individua - la sua scrittura - in una pagina che si vuole frivola e seria, in cui la sua posizione nella vita e l’amore fa risalire a due letture dell’adolescenza, “Magalì” di Delly e Dostoevskij. A Dostoevski attribuisce “la tendenza che ho ancora a preferire l’opera d’ispirazione a ogni altra, e a disistimare l’intelligenza”. Il che è vero al contrario – e il contesto dice che la Duras questo intende dire: il suo sguardo è dell’anatomista.
Un’altra conferma è nel diario italiano. Il primo episodio è la nascita del figlio morto avuto col marito Robert. Un episodio successivo è il progetto di una nuova maternità con l’amante Dionys, nel momento in cui il rapporto si scioglie, a ricordo di un amore finito. Pezzi di bravura, ma da anatomista, della gestazione, del parto, della crisi di coppia: tutto per la letteratura. Non solo gli eventi (aneddoti) e la memoria, ma le cose e il sangue stesso sono in quanto materia di manipolazione letteraria, di scrittura. A pochi anni data, è la scrittura che soverchia e anzi annulla il personaggio, e non il contrario, come sembrava in vita.
La cifra Duras è la fisicità in ogni aspetto, la luce (l’ombra), il presentimento, dell’infelicità, della felicità, il parto, la morte al parto, il ritorno dal lager, qui raccontato due volte, del marito, e la merda, un mese di merda di uno che solo si nutre di liquidi ed è pelle e ossa, e ribolle, verde, putrida, un’espulsione simbolica di tutto il male introiettato, dopodichè la fame ritorna, insaziata. La disincarnazione della carne. Degli amori, materno, fraterno, clandestino e come prostituito, di coppia, filiale, della maternità, della morte nella maternità, del senso della vita nella morte, del declassamento, che essa risente e forse ne ha segnato la vita fino al successo letterario, per una sorta di follia materna come quella gaddiana.
Margherite Duras, Quaderni della guerra e altri scritti, Feltrinelli, pp.326, € 19,50
domenica 8 giugno 2008
Filologia e (dis)inganno
Carlo Ossola distrugge sul “Sole 24 Ore” oggi l’esercitazione di Luciano Canfora sulla lettura dei testi sacri (il recente “Filologia e libertà” del fluviale antichista), affettuosamente, amichevolmente, con una lettera. Che pubblica con evidenza. Esemplare della libertà critica del filologo?
E fa un riferimento a "narrazioni biografiche sulla persona del fondatore della setta (Gesù)”. Il cristianesimo una setta?
La “verità del testo”? Ancora? Non era l’arma delle tirannie?
Pensavamo di essere usciti da “Cos’ha detto veramente Marx” e “Cos’ha detto Lenin”, e siamo a “Cos’ha detto Gesù”. O Canfora?
Di che si parla? La filologia critica applicata alla filologia?
E fa un riferimento a "narrazioni biografiche sulla persona del fondatore della setta (Gesù)”. Il cristianesimo una setta?
La “verità del testo”? Ancora? Non era l’arma delle tirannie?
Pensavamo di essere usciti da “Cos’ha detto veramente Marx” e “Cos’ha detto Lenin”, e siamo a “Cos’ha detto Gesù”. O Canfora?
Di che si parla? La filologia critica applicata alla filologia?
Il nemico risponde, l'America non capisce
La Germania sconfitta risponde, l’America non capisce
Un’inchiesta molto citata, sulla Germania negli ultimi mesi di guerra vista dal di dentro, fa capire che la storia dev’essere ancora scritta, sulla Germania in guerra e nella sconfitta, dopo la prima reazione irritata.
Saul Padover non è il primo venuto: al tempo della sua inchiesta in Germania, nel 1944-45, al seguito delle truppe americane, aveva quarant’anni. Benché emigrato da Vienna coi genitori nel 1920, aveva fatto studi nelle migliori università americane, Yale e Chicago. E benché di famiglia ebraica, aveva all’attivo studi apprezzati di medievistica. Dopo questa ricerca sulla mentalità tedesca per conto dei servizi d’informazione americani, di cui era coscritto, condotta con quotidiane interviste con la gente comune, insegnerà Scienza politica a New York e pubblicherà apprezzate biografie di Marx e Jefferson, e antologie di Madison e Nehru. Ma gli sfugge, benché gli venga ripetutamente spiegato da molti dei tedeschi che interroga, il disegno, tedesco e forse anche americano, di uscire “da destra” dalla sconfitta. Questa possibilità non c’è, c’è solo, per Padover, l’ipocrisia e la nullità politica dei tedeschi: tutti i suoi interlocutori sono piagnucolosi e pieni di autocommiserazione. Un’opinione che non varrebbe nemmeno la pena di rilevare se non fosse stata a lungo prevalente e anzi unica sulla Germania alla fine di Hitler.
Padover registra bene ma non capisce. Il capitolo 45, l’incontro col vescovo di Aquisgrana, è un momento di estrema lucidità, una lezione di politica e di storia esemplare: Padover la registra ma non la capisce, il vescovo riduce a uno che si dice povero ma porta al dito un ametista “grosso come un uovo di pettirosso”, e chissà quali nefandezze nasconde. Due capitoli prima il borgomastro di Aquisgrana, Oppenhoff, era stato anch’egli singolarmente chiaro sull’esigenza di creare una Germania, magari divisa, ma antisovietica e anticomunista, e sul suo destino personale – sarà ucciso in un attentato come prevedeva, sapendosi minacciato. Padover riferisce, anche dell’attentato, ma senza capire. La sua capacità critica si ferma al politicamente corretto: la Germania è stata nazista? quindi dev’essere socialista. I tanti socialisti che incontra non lo seguono su questa strada, ma non importa, sono i soliti tedeschi inutili.
Il libro ha alcuni squarci di verità, soprattutto sulla mentalità della superiorità, persistente nella sconfitta – e dopo, nel viaggio ormai troppo lungo dell’Unione europea. Il saccheggio vile del castello di Paderborn. I quadri di pelle umana della moglie ninfomane di Koch, il capo del lager di Buchenwald. La vanità di Montgomery, il maresciallo che voleva essere il primo ad attraversare il Reno: siccome il mite Bradley lo precedette, essendosi trovato a sorpresa non minato il ponte di Remagen, l’inglese stava per dichiaragli guerra.
Ma l’incapacità a capire toglie il respiro. L’effetto è moltiplicato dalla riedizione nel 2003 di un libro del 1946, per di più reperibile ora ai Remainders, che danno un’idea di sopravvissuto. E dall’idea che la stessa incapacità a capire sia applicata ora in Iraq e Afghanistan. Che il miracolo della liberazione e della solida costituzione in Italia sia solo l’effetto della solida Resistenza.
Saul K. Padover, L’anno zero, Utet Libreria, pp.367, € 9,25 (Librerie Libraccio-www.ibs.it)
Un’inchiesta molto citata, sulla Germania negli ultimi mesi di guerra vista dal di dentro, fa capire che la storia dev’essere ancora scritta, sulla Germania in guerra e nella sconfitta, dopo la prima reazione irritata.
Saul Padover non è il primo venuto: al tempo della sua inchiesta in Germania, nel 1944-45, al seguito delle truppe americane, aveva quarant’anni. Benché emigrato da Vienna coi genitori nel 1920, aveva fatto studi nelle migliori università americane, Yale e Chicago. E benché di famiglia ebraica, aveva all’attivo studi apprezzati di medievistica. Dopo questa ricerca sulla mentalità tedesca per conto dei servizi d’informazione americani, di cui era coscritto, condotta con quotidiane interviste con la gente comune, insegnerà Scienza politica a New York e pubblicherà apprezzate biografie di Marx e Jefferson, e antologie di Madison e Nehru. Ma gli sfugge, benché gli venga ripetutamente spiegato da molti dei tedeschi che interroga, il disegno, tedesco e forse anche americano, di uscire “da destra” dalla sconfitta. Questa possibilità non c’è, c’è solo, per Padover, l’ipocrisia e la nullità politica dei tedeschi: tutti i suoi interlocutori sono piagnucolosi e pieni di autocommiserazione. Un’opinione che non varrebbe nemmeno la pena di rilevare se non fosse stata a lungo prevalente e anzi unica sulla Germania alla fine di Hitler.
Padover registra bene ma non capisce. Il capitolo 45, l’incontro col vescovo di Aquisgrana, è un momento di estrema lucidità, una lezione di politica e di storia esemplare: Padover la registra ma non la capisce, il vescovo riduce a uno che si dice povero ma porta al dito un ametista “grosso come un uovo di pettirosso”, e chissà quali nefandezze nasconde. Due capitoli prima il borgomastro di Aquisgrana, Oppenhoff, era stato anch’egli singolarmente chiaro sull’esigenza di creare una Germania, magari divisa, ma antisovietica e anticomunista, e sul suo destino personale – sarà ucciso in un attentato come prevedeva, sapendosi minacciato. Padover riferisce, anche dell’attentato, ma senza capire. La sua capacità critica si ferma al politicamente corretto: la Germania è stata nazista? quindi dev’essere socialista. I tanti socialisti che incontra non lo seguono su questa strada, ma non importa, sono i soliti tedeschi inutili.
Il libro ha alcuni squarci di verità, soprattutto sulla mentalità della superiorità, persistente nella sconfitta – e dopo, nel viaggio ormai troppo lungo dell’Unione europea. Il saccheggio vile del castello di Paderborn. I quadri di pelle umana della moglie ninfomane di Koch, il capo del lager di Buchenwald. La vanità di Montgomery, il maresciallo che voleva essere il primo ad attraversare il Reno: siccome il mite Bradley lo precedette, essendosi trovato a sorpresa non minato il ponte di Remagen, l’inglese stava per dichiaragli guerra.
Ma l’incapacità a capire toglie il respiro. L’effetto è moltiplicato dalla riedizione nel 2003 di un libro del 1946, per di più reperibile ora ai Remainders, che danno un’idea di sopravvissuto. E dall’idea che la stessa incapacità a capire sia applicata ora in Iraq e Afghanistan. Che il miracolo della liberazione e della solida costituzione in Italia sia solo l’effetto della solida Resistenza.
Saul K. Padover, L’anno zero, Utet Libreria, pp.367, € 9,25 (Librerie Libraccio-www.ibs.it)
Monta tra i bianchi l'antiveltronismo
Il malessere degli ex Dc nel partito Democratico comincia a perforare la corazza dei militi del partito Democratico. Perché è diventato via via più acido col passare dei giorni dalla batosta del 13 aprile. Che si è avuta al centro, per la fuga del voto confessionale nell’astensione, in Casini, in Lombardo, in chicchessia meno che in Veltroni. Alla cui arroganza la batosta viene ascritta: non è più mugugno, è accusa aperta nelle riunioni degli amici. Nessuna tentazione di guardare al Centro, di Casini o chi si voglia, l’antiberlusconismo dei bianchi rimane ferreo. Ma monta, seppure sordo, una sorta di antiveltronismo.
Il conto dei flussi di voto è devastante per i bianchi del Pd. Che delle tre grandi aree dove il partito è franato, il Nord-Est, area milanese, Roma, ha tenuto solo nella prima. Nell’arco dalle Prealpi lombarde a Trieste, passando per il Triveneto, l’ex Margherita ha tenuto. A Milano-Lodi-Monza, dove la sinistra Dc vent’anni fa aveva mezzo milione di voti, il 13 aprile non è arrivata a 200 mila, a essere generosi nel calcolo. A Roma c’è il dato inoppugnabile, seppure meno pesante in cifra, dei 35 mila voti passati al secondo turno da Rutelli ad Alemanno, e dei 40 mila, ex diessini, che sono andati a votare Zingaretti, candidato alla provincia, ma non Rutelli. La tenuta del Nord-Est è attribuita a un solo fattore: l’opposizione della leadership locale bianca ai diktat di Veltroni, malgrado le buffonate di Palearo e soci. Nella quarta area dove il Pd ha perso, il quadrilatero rosso di Emilia, Toscana, Umbria e Marche, gli ex popolari mestamente riconoscono che è mancato il loro voto.
La incomunicabilità si estende peraltro alle casse, e qui rischia il naufragio lo stesso progetto di partito unito. L’adesione è sempre più ritenuta avventurata, nella base degli ex Dc, agli ex Pci, pe il fatto che questi dispongono di una potenza terrificante: tutto il patrimonio ex Pci salvato dalle banche, che ora si occulta in una ventina di Fondazioni, sparse, ma tutte saldamente controllate da compagni fidati nominati a vita. Nell’autunno del 2007 Lamberto Sposetti, l’ultimo amministratore ex Pci, l’ha scritto al “Corriere della sera”: “Da me il Pd non avrà un euro”. Nel senso che, dentro il Pd, gli euro li avranno gli ex Ds.
Il conto dei flussi di voto è devastante per i bianchi del Pd. Che delle tre grandi aree dove il partito è franato, il Nord-Est, area milanese, Roma, ha tenuto solo nella prima. Nell’arco dalle Prealpi lombarde a Trieste, passando per il Triveneto, l’ex Margherita ha tenuto. A Milano-Lodi-Monza, dove la sinistra Dc vent’anni fa aveva mezzo milione di voti, il 13 aprile non è arrivata a 200 mila, a essere generosi nel calcolo. A Roma c’è il dato inoppugnabile, seppure meno pesante in cifra, dei 35 mila voti passati al secondo turno da Rutelli ad Alemanno, e dei 40 mila, ex diessini, che sono andati a votare Zingaretti, candidato alla provincia, ma non Rutelli. La tenuta del Nord-Est è attribuita a un solo fattore: l’opposizione della leadership locale bianca ai diktat di Veltroni, malgrado le buffonate di Palearo e soci. Nella quarta area dove il Pd ha perso, il quadrilatero rosso di Emilia, Toscana, Umbria e Marche, gli ex popolari mestamente riconoscono che è mancato il loro voto.
La incomunicabilità si estende peraltro alle casse, e qui rischia il naufragio lo stesso progetto di partito unito. L’adesione è sempre più ritenuta avventurata, nella base degli ex Dc, agli ex Pci, pe il fatto che questi dispongono di una potenza terrificante: tutto il patrimonio ex Pci salvato dalle banche, che ora si occulta in una ventina di Fondazioni, sparse, ma tutte saldamente controllate da compagni fidati nominati a vita. Nell’autunno del 2007 Lamberto Sposetti, l’ultimo amministratore ex Pci, l’ha scritto al “Corriere della sera”: “Da me il Pd non avrà un euro”. Nel senso che, dentro il Pd, gli euro li avranno gli ex Ds.