Si ride molto nell’antichità, da Omero a Democrito, il primo materialista, che Luciano chiama “l’uomo che ride”. Ma questo “Philogelos”, repertorio di circa 270 barzellette, non è specialmente brillante. Se non che lo scholastikòs, l’intellettuale, vi è lo sciocco per eccellenza: come manuale di autoflagellazione c’è di che. Con un paio di altri motivi per la riesumazione.
Pubblicata curiosamente in edizione popolare in contemporanea con la Francia, con l’ipereconomica Mille et une nuits, dopo secoli di edizioni per cultori della materia, l’edizione italiana si avvale di un’introduzione di Tommaso Braccini, e di un saggio ghirigoro di Maurizio Bettini. Dimostrando due cose. Che l’inflazione c’è: il libriccino italiano costa tre volte quello francese. E che mai l’intellettuale è stato così sciocco, il “Philogelos” è utile termine di paragone, in tv, nei giornali, nei libri, e nell’IdV, l’Italia dei Vuoti.
Tommaso Braccini, a cura di, Come ridevano gli antichi, Il nuovo Melangolo, pp. 158, € 10
sabato 5 luglio 2008
Quando Simenon si pubblicava in proprio
Il giallista smonta il giallo che ha montato, tirando via senza crederci la più stucchevole maniera britannica. Un raccontino da niente, non è Simenon. Ottimo invece il ritratto che di Simenon fa nel volumetto Ena Marchi.
“La pazza d’Itteville” è titolo illustre nell’edizione originale, di Simenon imprenditore di se stesso nei primi anni della “carriera”. Con “La pazza” sperimentò il libro illustrato da foto, nel caso quella di Germaine Krull. Malgrado una promozione importante, la collana chiuse alla prima uscita.
Georges Simenon, La pazza d’Itteville, Adelphi, pp.82, € 5,50
“La pazza d’Itteville” è titolo illustre nell’edizione originale, di Simenon imprenditore di se stesso nei primi anni della “carriera”. Con “La pazza” sperimentò il libro illustrato da foto, nel caso quella di Germaine Krull. Malgrado una promozione importante, la collana chiuse alla prima uscita.
Georges Simenon, La pazza d’Itteville, Adelphi, pp.82, € 5,50
"ah! l'Italia!", e il complotto si scatenò
La partenza è da giornalista: l’Italia non fa nazione, tiene famiglia, non ha il senso dello Stato, eccetera, si spiega così che “sia priva di un grande teatro e scarsa di una grande narrativa”. L’Italia priva di un grande teatro, che dice Soldati? E ora che i romanzi italiani si vendono come il pane, anche all’estero, diremmo l’Italia una nazione, col senso dello Stato? Ma nella raccolta in volume queste prime corrispondenze si articolano come un falso scopo: Soldati, improvvisato a 76 anni inviato speciale da Alberto Cavallari, il direttore del “Corriere della sera”, al Mundial di Spagna, se ne serve per riscoprire l’Italia Unita, l’Italia. Se la fa riscoprire da Zoff, il mutangolo portierone friulano. Che allo scrittore, per la terza o quarta volta in questa raccolta impelagato nella teoria che solo i piemontesi e i friulani hanno il senso dello Stato, per essere stati sudditi di monarchie onorate, obietta: “Ah, ma così si divide l’Italia”. Soldati ne farà la leva per non cessare di entusiasmarsi senza pudore per i successi degli Azzurri.
Liberare Soldati da SoldatiBisogna scoprire Soldati. Circola un solo Soldati, quello televisivo: baffi, acuti, paradossi, la recita della simpatia. Ma c'è stato un altro Soldati, innamorato almeno due volte, adolescente in fuga dalla madre, giovane giramondo, padre di più figli, per quanto involontario. E questo è lo scrittore, che tutto sa raccontare, un gesto, una reazione, una situazione, un umore. C'è una distinta presa biografica nei suoi racconti - anche i romanzi sono racconti, anche gli scritti d'occasione, sul vino, sul calcio, e questi sulla guerra. Bisogna liberare Soldati dal Soldati che lo nasconde.
La raccolta delle corrispondenze per il “Corriere”, che Sellerio ripubblica, è uno dei singolari libri di Soldati, che raccontano – fanno rivivere – il noto e pure il trito. Per aneddoti, figure, squarci, per una cadenza sempre precisa dell’attenzione. “Estroso e sagace” lo dice Gianni Brera nella bandella della prima edizione nel 1986. Non amato dai critici militanti ma probabilmente già un classico. Due pezzi d’autore arricchiscono la raccolta, uno di un anno dopo il Mundial, sulla vecchiaia triste dopo tanta spensieratezza, e uno di sedici mesi dopo, sulle gioie delle fissazione, insomma della vecchiaia, tornare a Vigo e farsi fare la barba per ben cinque mattine col rasoio a mano libera dall’ultraottantenne figaro locale.
Soldati non dice il motivo del ritorno a Vigo, meta fuori di ogni itinerario. Per ben un settimana, quando un solo giorno nei suoi salvifici nomadismi solitamente lo satura di emozioni. Il lettore può immaginarsi che sia andato solo per quello, per il piacere di farsi radere e conversare delle solite cose col vecchio barbiere. Da vecchio a vecchio sfuggendo così alla depressione dell'età che declina, all'uggia della vita solitaria in famiglia e alla macchina da scrivere, senza più attese né sorprese. Un epicedio molto soldatiano.
La chiave che Soldati sceglie per la trama di fondo è anche purtroppo un reperto ormai ammuffito. L’italianità gioiosamente riscoperta da Soldati è in procinto di essere affossata da Milano, con la Lega e Mani Pulite. Quanto al Mundial, vinto dall’Italia con pieno merito, si può porlo all’origine del complottismo che avvelena l’Italia – solo l’Italia, in Europa e nel mondo. Sono sempre strabilianti a rivederle le vittorie a danno di Argentina, Brasile, Polonia, Germania. Alla maniera della Spagna degli Europei, di Fabregas, El Nino e il gioco di squadra. Che solo l’Italia è riuscita a contrastare efficacemente, col gioco di squadra. Il titolo del 1982 è uno dei più limpidi di tutti i Mondiali. Ma i vedovi tipicamente italiani della storia che si dilettano ad annientarla cominciarono allora la demolizione. Per magnificare il Camerun trovarono qualche camerunese che, non per soldi, per una birra, disse Italia-Camerun comprata. E comunque non furono comprati gli arbitri (chi può provare il contrario)?
Massimo Raffaeli ricorda un passo di “Le due città”, in cui Soldati, juventino a Roma, assiste a metà degli anni Trenta all’inopinata sconfitta della Juventus a opera della Roma sul campo in terra del Testaccio: “La Juventus era una cosa seria; era, forse, ormai, la sola cosa seria della vita, visto che alla politica non si poteva più pensare, e pareva che non ci fosse speranza che il fascismo finisse”. È così, il fascismo non finisce. E ha finito per soffocare il Mundial, e la stessa Juventus.
Mario Soldati, ah!il Mundial!, con una nota di Massimo Raffaeli, Sellerio, pp.155, € 11
Liberare Soldati da SoldatiBisogna scoprire Soldati. Circola un solo Soldati, quello televisivo: baffi, acuti, paradossi, la recita della simpatia. Ma c'è stato un altro Soldati, innamorato almeno due volte, adolescente in fuga dalla madre, giovane giramondo, padre di più figli, per quanto involontario. E questo è lo scrittore, che tutto sa raccontare, un gesto, una reazione, una situazione, un umore. C'è una distinta presa biografica nei suoi racconti - anche i romanzi sono racconti, anche gli scritti d'occasione, sul vino, sul calcio, e questi sulla guerra. Bisogna liberare Soldati dal Soldati che lo nasconde.
La raccolta delle corrispondenze per il “Corriere”, che Sellerio ripubblica, è uno dei singolari libri di Soldati, che raccontano – fanno rivivere – il noto e pure il trito. Per aneddoti, figure, squarci, per una cadenza sempre precisa dell’attenzione. “Estroso e sagace” lo dice Gianni Brera nella bandella della prima edizione nel 1986. Non amato dai critici militanti ma probabilmente già un classico. Due pezzi d’autore arricchiscono la raccolta, uno di un anno dopo il Mundial, sulla vecchiaia triste dopo tanta spensieratezza, e uno di sedici mesi dopo, sulle gioie delle fissazione, insomma della vecchiaia, tornare a Vigo e farsi fare la barba per ben cinque mattine col rasoio a mano libera dall’ultraottantenne figaro locale.
Soldati non dice il motivo del ritorno a Vigo, meta fuori di ogni itinerario. Per ben un settimana, quando un solo giorno nei suoi salvifici nomadismi solitamente lo satura di emozioni. Il lettore può immaginarsi che sia andato solo per quello, per il piacere di farsi radere e conversare delle solite cose col vecchio barbiere. Da vecchio a vecchio sfuggendo così alla depressione dell'età che declina, all'uggia della vita solitaria in famiglia e alla macchina da scrivere, senza più attese né sorprese. Un epicedio molto soldatiano.
La chiave che Soldati sceglie per la trama di fondo è anche purtroppo un reperto ormai ammuffito. L’italianità gioiosamente riscoperta da Soldati è in procinto di essere affossata da Milano, con la Lega e Mani Pulite. Quanto al Mundial, vinto dall’Italia con pieno merito, si può porlo all’origine del complottismo che avvelena l’Italia – solo l’Italia, in Europa e nel mondo. Sono sempre strabilianti a rivederle le vittorie a danno di Argentina, Brasile, Polonia, Germania. Alla maniera della Spagna degli Europei, di Fabregas, El Nino e il gioco di squadra. Che solo l’Italia è riuscita a contrastare efficacemente, col gioco di squadra. Il titolo del 1982 è uno dei più limpidi di tutti i Mondiali. Ma i vedovi tipicamente italiani della storia che si dilettano ad annientarla cominciarono allora la demolizione. Per magnificare il Camerun trovarono qualche camerunese che, non per soldi, per una birra, disse Italia-Camerun comprata. E comunque non furono comprati gli arbitri (chi può provare il contrario)?
Massimo Raffaeli ricorda un passo di “Le due città”, in cui Soldati, juventino a Roma, assiste a metà degli anni Trenta all’inopinata sconfitta della Juventus a opera della Roma sul campo in terra del Testaccio: “La Juventus era una cosa seria; era, forse, ormai, la sola cosa seria della vita, visto che alla politica non si poteva più pensare, e pareva che non ci fosse speranza che il fascismo finisse”. È così, il fascismo non finisce. E ha finito per soffocare il Mundial, e la stessa Juventus.
Mario Soldati, ah!il Mundial!, con una nota di Massimo Raffaeli, Sellerio, pp.155, € 11
domenica 29 giugno 2008
La privatizzazione criminale di Telecom
Chiunque abbia da fare con la Telecom, sia pure per contratti costosi come l’adsl, il famoso Alice, è ormai alla disperazione: niente funziona. Si paga un abbonamento mostruoso per una rete che praticamente non esiste più, si va avanti coi rattoppi. Sono pure tornate le famose riposte a caso di qualche secolo fa: uno chiama la Slovacchia e gli risponde Treviso, oppure chiama Londra e gli risponde viale delle Province a Roma. Finiremo come i tedeschi sconfitti e disperati delle corrispondenze di Antonello Gerbi ottant'anni fa, che gli capitava di avere spesso non il numero richiesto, per il quale avevano pagato, ma una Ersatzverbindung, un contatto qualsiasi, e loro, per non sprecare la chiamata, si facevano una conversazione con chi rispondeva - magari solo per parlare male di Telecom. Non c’è nemmeno da protestare, rispondono call center anonimi, che non sanno nulla e non gliene frega nulla. Forse per questo non protesta nessuna della tante associazioni consumeristiche, Adiconsum, Adusbef, etc. – se non sono nella manica della stessa Telecom, queste associazioni sempre si caratterizzano per contatti privilegiati con questo o quel grande operatore economico. Né se ne da accorta la napoletana Autorità per le telecomunicazioni, un sorta di ministero che paghiamo profumato per non disturbare il manovratore.
Non sta meglio chi è passato alla concorrenza: ha beneficiato della privatizzazione in termini di costo, eliminando il carissimo abbonamento Telecom, ma dipende sempre da Telecom per la linea, per telefonare cioè e per lavorare on-line. È uno dei punti più deboli dell’Italia, l’assoluta carenza di servizi, anche se privati, o privatizzati. Telecom stava molto meglio anzi quando era pubblica, a dieci anni data la privatizzazione rientrerebbe in qualsiasi altro ordinamento legale nella sfera criminale. Telecom pubblica aveva avviato la cablatura di mezza Italia con la fibra ottica. Proprio così, dieci anni fa la supercriticata, ai fini della privatizzazione, Stet-Sip aveva avviato col progetto Proteo la cablatura dell’Italia con le fibre ottiche, sulle quali una miriade di linee e di messaggi passano istantaneamente rispetto al miserrimo stoppino. I nuovi padroni della Telecom privata se ne sono serviti per pagarsi dividendi straordinari e varie speculazioni di Borsa, senza un euro d’investimento.
Dire la privatizzazione di Telecom criminale è eccessivo, poiché fu fatta dal governatore in carica della Banca d’Italia, Mario Draghi, sotto la supervisione di Ciampi, allora ministro del Tesoro. Ma è un affare di cui hanno beneficiato solo i compratori, nemmeno a caro prezzo: i primi, raccolti attorno al San Paolo e agli Agnelli, poi gli incursori Gnutti e Colaninno, la razza padana tanto elogiata e servita, sul piano fiscale e tariffario, da Visco e Bersani, una razza compagna, infine Marco Tronchetti Provera, il mago del dividendo straordinario. E ora l’Italia è senza telefono. Con la speranza fondata, per le banche che l’hanno commissariata, di rivendere allo Stato la rete inservibile: era il progetto di Prodi e del suo bracco destro Rovati, e torna col nuovo governo.
Non sta meglio chi è passato alla concorrenza: ha beneficiato della privatizzazione in termini di costo, eliminando il carissimo abbonamento Telecom, ma dipende sempre da Telecom per la linea, per telefonare cioè e per lavorare on-line. È uno dei punti più deboli dell’Italia, l’assoluta carenza di servizi, anche se privati, o privatizzati. Telecom stava molto meglio anzi quando era pubblica, a dieci anni data la privatizzazione rientrerebbe in qualsiasi altro ordinamento legale nella sfera criminale. Telecom pubblica aveva avviato la cablatura di mezza Italia con la fibra ottica. Proprio così, dieci anni fa la supercriticata, ai fini della privatizzazione, Stet-Sip aveva avviato col progetto Proteo la cablatura dell’Italia con le fibre ottiche, sulle quali una miriade di linee e di messaggi passano istantaneamente rispetto al miserrimo stoppino. I nuovi padroni della Telecom privata se ne sono serviti per pagarsi dividendi straordinari e varie speculazioni di Borsa, senza un euro d’investimento.
Dire la privatizzazione di Telecom criminale è eccessivo, poiché fu fatta dal governatore in carica della Banca d’Italia, Mario Draghi, sotto la supervisione di Ciampi, allora ministro del Tesoro. Ma è un affare di cui hanno beneficiato solo i compratori, nemmeno a caro prezzo: i primi, raccolti attorno al San Paolo e agli Agnelli, poi gli incursori Gnutti e Colaninno, la razza padana tanto elogiata e servita, sul piano fiscale e tariffario, da Visco e Bersani, una razza compagna, infine Marco Tronchetti Provera, il mago del dividendo straordinario. E ora l’Italia è senza telefono. Con la speranza fondata, per le banche che l’hanno commissariata, di rivendere allo Stato la rete inservibile: era il progetto di Prodi e del suo bracco destro Rovati, e torna col nuovo governo.
Complotti ma senza Kgb, Mosca ci manca
Una testimone nota per essere inaffidabile rivela nel venticinquennale che le quindicenni romane scomparse nel 1983 sono state fatte rapire da un monsignore vaticano, puttaniere e ladro, a opera della banda della Magliana, per abusarne fino a ucciderle, e poi farle sparire. Si fanno su questa “rivelazione” molti articoli. Uno sul figlio quindicenne di un boss, Nicitra, scomparso “proprio” dieci anni dopo. Uno su papa Woytila, che nel 1989, dopo diciotto anni, non rinnovò a Marcinkus l’incarico di gestore delle finanze vaticane, al quale era stato nominato da Paolo VI – questo il monsignore pedofilo e necrofilo. Uno su Ostello Lupacchini, un magistrato che nella sua carriera ormai trentennale pare si sia occupato solo della banda della Magliana, sulla quale peraltro indagò, si fa per dire, solo pochi mesi, tra il 1993 e il 1994. Uno sul ristoratore di Torvajanica dove la denunciante andava a sniffare cocaina con De Pedis, il capo della banda. Uno sulla sorella di Mirella Gregori, una delle ragazze scomparse. Più di uno sulla sorella di Emanuela Orlandi, l’altra ragazza sparita. Uno sul centravanti Giordano, sposo in prime nozze della dichiarante. Uno sul noto tunnel di Monteverde, che da parco Ravizza porta al Ponte Bianco.
Nessuna novità, ma la notizia a questo punto è consistente. Non a opera degli arcinemici dell’Occidente, o della cristianità, ma dei cristianissimi grandi giornali, tutti in capo in qualche modo alle confessionali fondazioni ex bancarie. Uno però non sa se complimentarsi per la fantasia dei grandi giornali, pure questo è un problema. Perché anche i grandi delinquenti ne hanno.
E poi prevale la noia. Perché si fa un complotto di tutto, da qualche tempo. Ma escludendo l’area più promettente, l’ex Urss, tassativamente, quasi per parola data. L’unico articolo degno di nota in questa montatura, quello di Marco Ansaldo il 26 giugno su “Repubblica”, che ha intervistato il colonnello Günther Bohnsack, ex capo alla disinformazione della Stasi, è caduto nella disattenzione.
Bohnsack dice una cosa vera e grave: “Lo scambio Orlandi-Ali Agca fu un’invenzione di noi della Stasi”. Di sana pianta, a freddo, con lettere in turco e in italiano sgrammaticato, inviate all’Ansa e altre agenzie, al giudice Martella, a giornalisti. Su una ragazza di cui la Stasi non sapeva niente, ma la cui sparizione fu utilizzata a dirottare sui Lupi Grigi turchi l’attenzione puntata sui bulgari per l’attentato al papa. Ma non c’è attenzione in Italia, né storica né giornalistica, per la Stasi e il Kgb, che pure sono stati protagonisti pesanti dell’Italia repubblicana. Fra gli storici, che pure avrebbero a disposizione miniere di carte, solo Viktor Zaslavsky se ne occupa, che gli altri fanno finta di non leggere. Forse gli storici non sanno il russo. Ma è pure possibile che la memoria dell’Urss sia per loro sacra – dobbiamo imparare a trattarli da orfani.
Nessuna novità, ma la notizia a questo punto è consistente. Non a opera degli arcinemici dell’Occidente, o della cristianità, ma dei cristianissimi grandi giornali, tutti in capo in qualche modo alle confessionali fondazioni ex bancarie. Uno però non sa se complimentarsi per la fantasia dei grandi giornali, pure questo è un problema. Perché anche i grandi delinquenti ne hanno.
E poi prevale la noia. Perché si fa un complotto di tutto, da qualche tempo. Ma escludendo l’area più promettente, l’ex Urss, tassativamente, quasi per parola data. L’unico articolo degno di nota in questa montatura, quello di Marco Ansaldo il 26 giugno su “Repubblica”, che ha intervistato il colonnello Günther Bohnsack, ex capo alla disinformazione della Stasi, è caduto nella disattenzione.
Bohnsack dice una cosa vera e grave: “Lo scambio Orlandi-Ali Agca fu un’invenzione di noi della Stasi”. Di sana pianta, a freddo, con lettere in turco e in italiano sgrammaticato, inviate all’Ansa e altre agenzie, al giudice Martella, a giornalisti. Su una ragazza di cui la Stasi non sapeva niente, ma la cui sparizione fu utilizzata a dirottare sui Lupi Grigi turchi l’attenzione puntata sui bulgari per l’attentato al papa. Ma non c’è attenzione in Italia, né storica né giornalistica, per la Stasi e il Kgb, che pure sono stati protagonisti pesanti dell’Italia repubblicana. Fra gli storici, che pure avrebbero a disposizione miniere di carte, solo Viktor Zaslavsky se ne occupa, che gli altri fanno finta di non leggere. Forse gli storici non sanno il russo. Ma è pure possibile che la memoria dell’Urss sia per loro sacra – dobbiamo imparare a trattarli da orfani.
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