Non è Gelmini che chiude l’università, è l’università che chiude se stessa. Ha ben cento corsi di laurea con meno di dieci iscritti. A Bologna, Rieti, Rende, Camerino e Forlì ci sono corsi con un solo iscritto. I milanesi pr del milanese ministro rigirano rapidamente la frittata, con la solita sapienza milanese. E l’impunita faccia tosta di sempre, non è per caso che Milano domina l’Italia: l’università merita di essere chiusa. Dopodichè, assicura il ministro, verrà rifondata, privata (leggi: per chi ha i soldi) e internazionalizzata (i laureati li prendiamo in Asia, costano poco e parlano inglese).
La presentazione che Gelmini ha fatto ieri delle sue malefatte è da manuale di scienza della comunicazione – piccolo manuale per piccoli provinciali: altrove se ne sarebbe riso. I soldi quest’anno non ci sono, ma vedrete, magari negli anni successivi qualcosa si rimedia. Ha pure venduto allegramente un fantomatico Piano per la ricerca industriale universitaria nel Mezzogiorno di sette miliardi – di lire? Tutto è riuscita a vendere, anche gli 887 progetti di ricerca individuali finanziati e assegnati dal governo Prodi, che non è arrivata in tempo a bloccare. Sul “Messaggero” è toccato pure di leggere questo piccolo annuncio: “Contrariamente a quanto in alcuni ambienti era stato paventato, il piano della Gelmini ha riscosso il consenso di tutti i soggetti interessati”. Ma a pagina 2, "In primo piano" - gratis?
Cento corsi su 5.200 sono forse un errore che gli stessi senati accademici hanno già rimediato. Ma tanto basta ad alimentare la spocchiosa impudenza ambrosiana. Né la ministra chiude quei corsi, no: taglia i fondi per tutti. Ci sono duecento sedi universitarie per un’ottantina di università, insiste ancora. Tacendo che la moltiplicazione delle sedi è stata una delle poche risorse che le università hanno avuto negli ultimi vent’anni per raccogliere un po’ di soldi, da comuni e province. Tace sui famosi accordi coi privati per la ricerca, non un euro venendo da banche, fondazioni, industrie. Tace che i pochi soldi alla ricerca vengono da istituzioni internazionali, su progetti di precari, in grado di “sollevare”, come si dice a Milano, anche due e tre milioni di euro. A testa, essendo personalmente pagati poche migliaia di euro l'anno, e qualcuno anche non pagato. Di cui nei giudizi internazionali si dice che è una vergogna che lo Stato italiano li tratti così male. Tace sul fatto che l’insegnamento si fa all’università con almeno 53 mila precari, molti non pagati – che però sono forse duecentomila: Gelmini non lo sa e non se ne occupa (ma in questo è certo cento volte migliore degli accademici stessi, le cui turpitudini contro l'università stessa sono inenarrabii, non fossero materia quotidiana).
venerdì 18 luglio 2008
Bazoli chiama Lombardo
Si ricostruisce l’asse Milano-Palermo. Nel 2006 i sessantamila voti di Lombardo in Lombardia, nomen omen, fecero vincere Prodi, e Bazoli non l’ha dimenticato. Il contatto è ripreso tra il patron di Intesa e il leader dell’Mpa, provvisoriamente passato con Berlusconi in Sicilia, per rifare la Dc e salvare l’Italia. È un ritorno ai vecchi tempi, si sarebbero detti i due, cinquant’anni fa, quando la Lombardia e la Sicilia insieme decidevano per l’Italia. L’ipotesi di un rimescolamento della maggioranza in Parlamento a legislatura in corso ha preso insomma piede con rapidità.
Bazoli si conferma a questo punto lo stratega d’Italia anche in politica. In economia il ruolo è da tempo acclarato. Non da ultimo dalla stessa sindrome dell’investitura che Bazoli nutre. L’avvocato non solo è il creatore e il presidente della banca più grande, Intesa-San Paolo, ma, novello cavaliere medievale, avoca a sé l’investitura a proseguire l’opera dei grandi vecchi dell’Italia buona: l’Avvocato (Agnelli), Nino (Andreatta), il Dottore (Cuccia).
L’uomo più potente
Il patron di banca Intesa può d’altra parte vantare con merito tutte le eredità. È l’uomo più potente della Repubblica. Tiene le fila di tutto il business bancario, da Draghi a Geronzi, in Unicredit e in Mediobanca, alle Generali, e di ogni decisione strategica, dal futuro incerto di Telecom Italia all’Alitalia, allo smembramento di Eni e Enel. Domina senza opposizione gli affari. Agli Agnelli Elkann, suoi soci dopo l’incorporazione di San Paolo, aveva dato un sonoro ceffone con lo scandalo del calcio, creato e gestito dalla Rcs Media che l’avvocato controlla strettamente con Perricone. Dopo l’avviso sui movimenti azionari surrettizi con cui la Famiglia aveva rinforzato, poco legalmente, il controllo di Fiat. Lezione che Torino mostra per più segni di avere accettato. Tronchetti Provera è grato di essere ancora in vita. E così i Moratti, i Riva e ogni altro. Bazoli è sicuramente l’uomo più potente della Repubblica, non mena vanto ingiustificato.
Tre fasi
Il presidente della Regione Sicilia, noto per essere realista, non s’illuderà su chi decide che. Ma è certo che non è insensibile all’appello all’unità e alla forza del vecchio partito. Anche lui, come tutti, a disagio con Berlusconi. La nuova Dc che si prospetta con Bazoli non è più quella folcloristica di Pizza e Rotondi. È un progetto serio, ben progettato, e di sviluppo anche già ordinato. La prima mossa è il riordino del partito Democratico, con un ribaltamento delle posizioni tra bianchi e rossi. La seconda è il riassetto dell’Udc, che si liberi dall’ingombro Casini. Già in questa seconda fase l’intervento di Lombardo, come calamita dei voti di Casini in Sicilia, diventa centrale. La terza fase è tutta sua, e andrà di pari passo con la promessa scelta a leader del nuovo partito: la ripresa totale dell’autonomia a cui il suo movimento si richiama, e l’abbandono di Berlusconi.
Bazoli si conferma a questo punto lo stratega d’Italia anche in politica. In economia il ruolo è da tempo acclarato. Non da ultimo dalla stessa sindrome dell’investitura che Bazoli nutre. L’avvocato non solo è il creatore e il presidente della banca più grande, Intesa-San Paolo, ma, novello cavaliere medievale, avoca a sé l’investitura a proseguire l’opera dei grandi vecchi dell’Italia buona: l’Avvocato (Agnelli), Nino (Andreatta), il Dottore (Cuccia).
L’uomo più potente
Il patron di banca Intesa può d’altra parte vantare con merito tutte le eredità. È l’uomo più potente della Repubblica. Tiene le fila di tutto il business bancario, da Draghi a Geronzi, in Unicredit e in Mediobanca, alle Generali, e di ogni decisione strategica, dal futuro incerto di Telecom Italia all’Alitalia, allo smembramento di Eni e Enel. Domina senza opposizione gli affari. Agli Agnelli Elkann, suoi soci dopo l’incorporazione di San Paolo, aveva dato un sonoro ceffone con lo scandalo del calcio, creato e gestito dalla Rcs Media che l’avvocato controlla strettamente con Perricone. Dopo l’avviso sui movimenti azionari surrettizi con cui la Famiglia aveva rinforzato, poco legalmente, il controllo di Fiat. Lezione che Torino mostra per più segni di avere accettato. Tronchetti Provera è grato di essere ancora in vita. E così i Moratti, i Riva e ogni altro. Bazoli è sicuramente l’uomo più potente della Repubblica, non mena vanto ingiustificato.
Tre fasi
Il presidente della Regione Sicilia, noto per essere realista, non s’illuderà su chi decide che. Ma è certo che non è insensibile all’appello all’unità e alla forza del vecchio partito. Anche lui, come tutti, a disagio con Berlusconi. La nuova Dc che si prospetta con Bazoli non è più quella folcloristica di Pizza e Rotondi. È un progetto serio, ben progettato, e di sviluppo anche già ordinato. La prima mossa è il riordino del partito Democratico, con un ribaltamento delle posizioni tra bianchi e rossi. La seconda è il riassetto dell’Udc, che si liberi dall’ingombro Casini. Già in questa seconda fase l’intervento di Lombardo, come calamita dei voti di Casini in Sicilia, diventa centrale. La terza fase è tutta sua, e andrà di pari passo con la promessa scelta a leader del nuovo partito: la ripresa totale dell’autonomia a cui il suo movimento si richiama, e l’abbandono di Berlusconi.
Napoli rifiutata anche nella letteratura
Ermanno Rea è persona squisita ma napoletano verace. Le due qualità vanno distinte oggi, ammesso che la seconda sia ancora una qualità. Ermanno Rea non è il napoletano che può ritrovarsi nello sfacelo incredibile della sua città, di mediocrità prima che di violenza, e di violenza saputa, dritta, che si rispecchia nella produzione di immondizia morale. Ma vive sempre e solo la sua città, tra lo stereotipo del nonno a Caporetto, e il protagonista naziskin alla stazione centrale, affettuosamente chiamato Caracas, che ha 55 anni. La scrittura pure è partecipe, e il rifiuto è stato repentino allo Strega, che già aveva vinto, a favore di Paolo Giordano, che di anni ne solo 25 e viene da Torino.
E non solo i premi, anche le classifiche (vengono prima le classifiche o i premi?), nei quali Napoli non si può dire che non eccella da qualche tempo, lo escludono. I napoletani su Internet lo dicono “bello, malinconico, struggente”, gli altri spernacchiano. Si aggiunga che Ermanno Rea si dice, Virgilio o Dante?, “cariatide comunista”, e si completa il rifiuto.
Essendo “Napoli Ferrovia” un quasi premio Strega si vorrebbe anche parlare di letteratura. Di personaggi, storie, scritture - il réportage sceneggiato che è la specialità dell’autore. Insomma della meraviglia del leggere, e del narrare. Ma Napoli purtroppo è sovrastante, per questa sua invadente, sconfinata, perfino orgogliosa, immondizia morale, nella politica, la magistratura, l’economia, il sindacato, nel popolo alto e basso, nella criminalità, e perfino tra gli intellettuali. Non Salerno, o Benevento, o Avellino, dove persone di rara virtù e competenza fanno ogni giorno il loro lavoro, ma l’asse Caserta-Napoli-Ercolano, che è anche l’area a più alta concentrazione di manufatti artistici e naturali dell’umanità. Si vorrebbe poter dire coraggio!, fate uno sforzo, se Napoli non fosse così supponente.
Ermanno Rea, Napoli Ferrovia, Rizzoli, pp 340, € 19
E non solo i premi, anche le classifiche (vengono prima le classifiche o i premi?), nei quali Napoli non si può dire che non eccella da qualche tempo, lo escludono. I napoletani su Internet lo dicono “bello, malinconico, struggente”, gli altri spernacchiano. Si aggiunga che Ermanno Rea si dice, Virgilio o Dante?, “cariatide comunista”, e si completa il rifiuto.
Essendo “Napoli Ferrovia” un quasi premio Strega si vorrebbe anche parlare di letteratura. Di personaggi, storie, scritture - il réportage sceneggiato che è la specialità dell’autore. Insomma della meraviglia del leggere, e del narrare. Ma Napoli purtroppo è sovrastante, per questa sua invadente, sconfinata, perfino orgogliosa, immondizia morale, nella politica, la magistratura, l’economia, il sindacato, nel popolo alto e basso, nella criminalità, e perfino tra gli intellettuali. Non Salerno, o Benevento, o Avellino, dove persone di rara virtù e competenza fanno ogni giorno il loro lavoro, ma l’asse Caserta-Napoli-Ercolano, che è anche l’area a più alta concentrazione di manufatti artistici e naturali dell’umanità. Si vorrebbe poter dire coraggio!, fate uno sforzo, se Napoli non fosse così supponente.
Ermanno Rea, Napoli Ferrovia, Rizzoli, pp 340, € 19
“Accìdeme, che vita è questa!” - a noi ci manca la guerra
“Non c’è oggi idea più estinta di quella di posterità”. Di futuro. “L’unica nozione che ne abbiamo è di carattere antiquario”. Scrive bene Scurati, romanziere di successo e direttore a Bergamo del Centro universitario sui linguaggi della guerra. Ma non si sa di che: prima il futuro non era antiquario? O vuole dire che oggi non si costruisce nulla, non ci sono novità. Oggi? La comunicazione opera la distruzione di senso, dice Scurati. Dipende: Di Pietro è creazione sovrumana, nessuna Madison Avenue l’avrebbe mai immaginato, in nessun delirio.
A corpo 14 e con ampi margini è qui allargata la rilettura scuratiana de “Il sentiero dei nidi di ragno”, il racconto di Calvino. Che tante storie aveva da raccontare, dice Scurati, perché usciva da una guerra. Mentre lui è cresciuto, e noi assieme a lui, alla televisione, in salotto, di sera, con la birra fresca.
A Napoli, la città di Scurati, un ristoratore teneva nella vaschetta all’ingresso un polpo. Al quale dava una legnata ogni volta che persuadeva un cliente a ordinare il cefalopodo appena pescato. Finché il polpo sbottò: “Accìdeme, che vita è questa!” Così è: che ci stiamo a fare? Senza guerre.
A corpo 14 e con ampi margini è qui allargata la rilettura scuratiana de “Il sentiero dei nidi di ragno”, il racconto di Calvino. Che tante storie aveva da raccontare, dice Scurati, perché usciva da una guerra. Mentre lui è cresciuto, e noi assieme a lui, alla televisione, in salotto, di sera, con la birra fresca.
A Napoli, la città di Scurati, un ristoratore teneva nella vaschetta all’ingresso un polpo. Al quale dava una legnata ogni volta che persuadeva un cliente a ordinare il cefalopodo appena pescato. Finché il polpo sbottò: “Accìdeme, che vita è questa!” Così è: che ci stiamo a fare? Senza guerre.
Il conformismo della società giudiziaria
Un breve saggio allungato a libro, comprese quattro o cinque pagine di Dürrenmatt, venticinque sui C.S.I che nessuno vede più, otto di bibliografia sommaria, sul genere editoriale in voga. Il nuovo romanzo sociale – argomento non nuovo. E un mezzo per la verità secondo Perissinotto. Che è giallista reputato ma qui è in veste di professore di Teorie e tecniche della comunicazione di massa a Torino. Con un problema: “Il problema sta nell’inafferrabilità del reale, inafferrabilità che rende ipotizzabile tutto e il contrario di tutto”. E qui si potrebbe chiudere.
Perissinotto lo sa: “L’onnipresenza dell’ipotesi del complotto non è sintomo di una società paranoica, bensì di una società che ha perduto il valore della verità”. Ma perché lo ha perduto? Perché non è più rurale…. Non perché è bugiarda – i suoi intellettuali lo sono, la Rai, i giornali. Specie nella società giudiziaria, che da un ventennio la domina (grande creazione della comunicazione di massa). Di pari passo con la dilatazione della fiction d’indagine. Non lo dice Dürrenmatt cinquant’anni prima? “Da quando gli uomini politici deludono… la gente spera che almeno la polizia metta ordine nel mondo”, e se c’è la polizia “il grosso è fatto”. Ma non - Dürrenmatt non lo dice - nel senso della verità. Non c’è giallo italiano, in libreria e nelle otto o dieci serie di fiction tv, che non sia un inno alle forze dell’ordine. Che non è propriamente indagine ma conformismo: adulazione, ipocrisia.
Alessandro Perissinotto, La società dell’indagine, Bompiani, pp.107, € 9.
Perissinotto lo sa: “L’onnipresenza dell’ipotesi del complotto non è sintomo di una società paranoica, bensì di una società che ha perduto il valore della verità”. Ma perché lo ha perduto? Perché non è più rurale…. Non perché è bugiarda – i suoi intellettuali lo sono, la Rai, i giornali. Specie nella società giudiziaria, che da un ventennio la domina (grande creazione della comunicazione di massa). Di pari passo con la dilatazione della fiction d’indagine. Non lo dice Dürrenmatt cinquant’anni prima? “Da quando gli uomini politici deludono… la gente spera che almeno la polizia metta ordine nel mondo”, e se c’è la polizia “il grosso è fatto”. Ma non - Dürrenmatt non lo dice - nel senso della verità. Non c’è giallo italiano, in libreria e nelle otto o dieci serie di fiction tv, che non sia un inno alle forze dell’ordine. Che non è propriamente indagine ma conformismo: adulazione, ipocrisia.
Alessandro Perissinotto, La società dell’indagine, Bompiani, pp.107, € 9.
Dante poeta nazionale albanese
Il saggio sarà di scarso interesse per i dantisti, l’Albania è un piccolo paese, ma Kadaré vive Dante com’era. E come appare ancora in quella parte della debilitata Europa: l’Albania è piena di Beatrice. Anche per “il rapporto estremamente strano che esiste tra l’albanese e l’italiano:... benché le due lingue non abbiano all’apparenza niente in comune, gli Albanesi riescono a capire più o meno istintivamente, senza la minima preparazione, l’italiano, mentre gli Italiani, da parte loro, non capiscono niente del tutto dell’albanese”. L’altra ironia è che, “in seguito all’unione con l’Italia, l’Albania aveva ripreso il Kossovo”, l’aveva riscoperto.
Dante, tornato in Albania con l’occupazione fascista nel 1939, vi diventa “il poeta celeste, profetico, nazionale, unificatore” anche per gli albanesi. Con “decine di traduzioni, edizioni e riedizioni, …circoli, gruppi di studio,società, imprese, istituti di beneficenza, concorsi e tavole rotonde, serate di gala, piazze e strade”. Kadaré lo sa, non ne ha memoria personale (è nato nel 1936). Dante gli ritorna nel “candore” di Pound, nel “rimpianto” di Seferis, giunto tardi a Dante, e negli studi di un altro esiliato, il poeta e saggista albanese Ernest Koliqi, che è stato all’università di Roma. Dopo la capitolazione italiana e l’instaurazione del comunismo Dante è rimasto in Albania il poeta più popolare.
Ismail Kadaré, Dante l’inevitabile, Fandango, pp.60, € 10
Dante, tornato in Albania con l’occupazione fascista nel 1939, vi diventa “il poeta celeste, profetico, nazionale, unificatore” anche per gli albanesi. Con “decine di traduzioni, edizioni e riedizioni, …circoli, gruppi di studio,società, imprese, istituti di beneficenza, concorsi e tavole rotonde, serate di gala, piazze e strade”. Kadaré lo sa, non ne ha memoria personale (è nato nel 1936). Dante gli ritorna nel “candore” di Pound, nel “rimpianto” di Seferis, giunto tardi a Dante, e negli studi di un altro esiliato, il poeta e saggista albanese Ernest Koliqi, che è stato all’università di Roma. Dopo la capitolazione italiana e l’instaurazione del comunismo Dante è rimasto in Albania il poeta più popolare.
Ismail Kadaré, Dante l’inevitabile, Fandango, pp.60, € 10
"Collaboratore sarà Sartre", f.to Céline
Ripubblicata nella serie nera della Herne, i libriccini che Castelvecchi traduceva nella collana Etcetera (Derrida sui giornalisti, il perdono, lo spergiuro, etc.), l’invettiva di Céline contro Sartre, che lo voleva condannato per collaborazionismo, sorprende non solo per l’arguzia, sempre vincente nello scrittore contro il filosofo, ma anche per un senso di verità.
Completano il volumetto, tra altri testi, i “Taccuini del corazziere Destousches”, una prefazione inedita al “Semmelweiss”, e le tre paginette definitive sull’argot uscite su “Arts” il 7 febbraio 1957.
L.F.Céline, A l’agité du bocal, L’Herne, pp. 86, €9,50
Completano il volumetto, tra altri testi, i “Taccuini del corazziere Destousches”, una prefazione inedita al “Semmelweiss”, e le tre paginette definitive sull’argot uscite su “Arts” il 7 febbraio 1957.
L.F.Céline, A l’agité du bocal, L’Herne, pp. 86, €9,50
La democrazia vuol'essere selettiva
Un libro reazionario si pubblica, è una forte emozione, ora che non si può più dirlo tale. Una raccolta di saggi. E nell’edizione più cruda, la prima del 1943 a Città del Messico, invece di quella edulcorata, “censurata” disse Caillois, dell’anno successivo a Marsiglia liberata.
La raccolta è godibilissima – eccetto la parte centrale, che ha ambizioni filosofiche ma non va oltre l’elzeviro, subito perenta: “Vertigini”, “I tesori segreti”, “La severità”, “L’aridità”. In apertura Caillois vi rifà il boia di De Maistre, ma ben più ricco, il boia apparentando al re, al guaritore, al mago. Di Marx mostra il vangelo inconscio. Il gioco, lui sociologo dei giochi per cui resta ancora studiato, rappresenta come “brama di disastro” – il gioco d’azzardo naturalmente. In poche righe fa infine il pelo al razzismo: “La razza eletta e la nazione devono tendere a sovrapporsi, a coincidere”. Si opprime per questo l’ebreo,per esaltare il tedesco. Mentre “un Aniante che esalti chi è nato in estate e disprezzi chi è nato inverno, è dichiarato eretico. La ragione è evidente: non tutti gli italiani sono nati in estate. L’idea (però) non va perduta, bensì retificata: dato che l’intera penisola passa per essere calda e soleggiata, l dittatore italiano si affretta a pronunciare un discorso in cui contrappone i popoli canicolari, impregnati della forza vivificante del sole, alle popolazioni debilitate e intorpidite dei paesi nebbiosi”.
Il saggio più attuale è l’epicedio dell’individualismo, “Il vento invernale”, esploso col tardo romanticismo, in Stirner e più in Nietzsche. Dell’intellettuale “ostile a ogni società”. Non per saperne di più ma per essere migliore. Anche se “i più grandi individualisti sono stati dei deboli, degli inferiori, dei disadattati”. Ma tutti orgogliosi: più che dall’evasione, dice Caillois, affascinati dalla conquista. Si gabellava il fenomeno decadentismo, che è un fatto circoscritto alla storia della letteratura, ma poi tutti sono d’elezione decadenti, non solo Baudelaire e l’amato Wagner, per la cultura della crisi, un crogiolo. In quella che si può dire la società degli intellettuali: “Non si sottolineerà mai abbastanza quanto sia rilevante che Balzac e Baudelaire abbiano considerato con simpatia e proposto come modello Loyola e il perinde ac cadaver della Compagnia di Gesù, il Vecchio della Montagna e i suoi Assassini”. L’“associazione militante e chiusa”, ordine monastico fuori dal mondo e formazione combattente. Rovesciando Nietzsche: “Schiavi oppressori” e “Signori impotenti”. In forma, anche gli individualisti, gli intellettuali, di consumatori e produttori, le figure di tanta letteratura coeva (“Il vento invernale” è del 1937) e successiva. Ma classe chiusa: “La natura dei Signori, che tanto li ostacola nel contatto con gli altri, li costringe per ciò stesso a sentire fortemente la loro alleanza”. E a farsi scudo con “la probità, il disprezzo, l’amore del potere e la compitezza”.
Ancillare è il più sociologico successivo saggio, più in tema anche nel titolo: “Sociologia del chierico”. Che non cita “Il tradimento dei chierici” di Benda da cui prende le mosse, ma ne rovescia il significato: l’intellettuale è chierico in senso chiesastico. Caillois parte promettendo di fare le parti tra chierico e laico, ma entrambi i valori, dentro e fuori la chiesa, assomma poi unicamente nel chierico. “I veri «chierici» non difendono i valori, ma li creano, li suscitano. La loro storia è sempre quella di una qualche Compagnia di Gesù”. Totalizzante sempre, mentre la ragione – la democrazia – vuol’essere selettiva. Allora si sarebbe detto critica.
Sono testi degli ultimi anni 1930. Viveva Caillois nel pieno dell’ideologia dei compagni di strada, del totalitarismo dell’antifascismo, insieme con i suoi compagni di idea e di avventura Bataille e Leiris nel loro Collège de Sociologie, e sapeva di che parlava. Sull’insidiosa categoria dell’antifascismo, del dimenticato Willi Münzenberg, il geniale propagandista del Comintern, Caillois dice la verità subito, nella terza parte della raccolta, “Attesa dell’élite”, quella che sarà censurata nell’edizione della liberazione. C’è il vezzo di dire “fascista” tutto quanto non risponde alla propria sensibilità, e “un tale modo di procedere – dare importanza ai moti istintivi, esprimere un giudizio invece di sostenere un argomento – è tipico della maniera fascista, ed è stato forse introdotto proprio su questo modello”. È così che la democrazia è in Italia “incompiuta” – non accettata – dopo sessant’anni di Repubblica.
Questo è però un rischio della democrazia, al di là della propaganda. “Una democrazia che ha fiducia in se stessa considera suo diritto, quasi suo dovere, imporre ai recalcitranti la ragione, la giustizia, la felicità che rifiutano. Ma i dittatori non vogliono niente di diverso”. Il “forte” Caillois è in realtà realista triste: “Esistono molte strade che portano dal liberalismo alla tirannide. Dalla tirannide al liberalismo si scorge solo quella della decrepitezza e del logoramento”. L’antagonismo tra democrazia e totalitarismo è fatto di sfumature, non è massiccio e diretto come invece la somiglianza: “Non c’è alcuna serie controindicazione che impedisca a un democratico di accettare il Führerprinzip”, chi è al governo deve governare.
Il titolo e i temi sono elitistici. Non in senso politico, ma culturale: sono aristocratizzanti. Caillois, oggi si può dire, è vero democratico, contro le preclusioni politiche o ideologiche: in epoca fortemente idelogizzata, contro il nazismo prima e poi contro il comunismo sovietico, solo la verità per lui conta e l’intelligenza delle cose. Ludologo, gemmologo, borgesiologo, e per vivere funzionario dell’Unesco, succedette all’Académier a Carcopino, e fu succeduto da Yourcenar, che molto lo rispettava, tutti pieni di cultura latina. Sembrano preistoria. Caillois, che l’editore di “La comunione dei forti” sveltamente riduce a “poligrafo”, è l’ultimo degli umanisti, prima della guerra fredda, l’antifascismo e il sovietismo obbligati.
Si può anche dire che una forte cultura è stata per mezzo secolo oscurata e anzi denigrata: Céline, Drieu, la stessa Yourcenar, Pound, Jünger, Benn, Montherlant, Malraux, Saint-Exupéry, Simenon, Lawrence, Lawrence d’Arabia, Hamsun, eccetera. I “surfascisti” di Benjamin, che tra essi include Caillois e Bataille. Ma più che di ristabilire l’equilibrio, se non la verità, libri come questo suscitano ansia. L’ansia di quanto l’ideologia o la passione politica possano deprivare l’intelligenza e la stessa passione di vivere.
Roger Caillois, La comunione dei forti, pp. 204, € 10
mercoledì 16 luglio 2008
Milano apre la case e chiude le università
Il governo Berlusconi, che vuole riaprire le case chiuse, ha chiuso l’università. Con le sue ministre del cuore, le compatriote Moratti e Gelmini, che per questo si sono già assicurato un posto nella storia. Ratte, spavaldamente ipocrite, e efficaci. All’insegna delle famose tre i del Capo, idiozia, idiozia, idiozia.
Letizia Moratti ha bloccato per cinque anni ogni cambiamento, per varare una nuova figura di ricercatore, giovane e competitivo. Che la successora Gelmini ha cancellato, cancellando i fondi per le assunzioni dei ricercatori. Vantandosi di cancellare un’ope legis del predecessore Mussi, diessino – come se si potesse cancellare una legge, che intanto ha già esplicato i suoi effetti: metà ricercatori è assunta, l’altra metà prepara i ricorsi. In realtà cancellando l’università. Con lo stesso decreto Gelmini ha statuito che il turn-over non potrà superare il 20 per cento: per ogni cinque professori che vanno in pensione solo uno sarà assunto. Anche se la popolazione universitaria raddoppia. I concorsi comunque non si fanno e non si faranno, nemmeno per il quinto.
Schive e fredde, le ministre ambrosiane sono andate al cuore della missione. Hanno continuato a parlare il linguaggio doppio di Milano, rinnovamento, rilancio, ricerca, ma hanno colpito mortali. L’università, chi se la paga bene, e chi no se la prende in quel posto. Questo per la formazione. L’Italia ha pochi laureati? Si prenderanno gli indiani, che parkano pure inglese. Quanto alla ricerca, chi se ne frega, Milano è ricca senza averne mai fatta – era Torino che la faceva.
Gli annuari dell’Onu e dell’Unesco già pongono l’università italiana al 174mo posto (ma ce ne sono altri dopo?) o al 176mo nel mondo per capacità di formazione e ricerca. La Gelmini l’avrà portata all’ultimo senza concorrenza possibile, a parecchie lunghezze dalla Papuasia, se è anocra la penultima. Sembra di vederne la smorfia: “La ricerca? Ma di che? Ladroni!” - l’eterea Gelmini sembra non pensarlo, poiché non sembra poter pensare, appena uscita di sacrestia, ma fa come se: Milano non spende senza tornaconto pronto e sostanzioso, è il mercato bellezza.
La distruzione dell’università e della ricerca del baüscia Berlusconi è stata rapida e totale, mai vendetta fu più completa. E un altro primato aggiunge a tutti i suoi: l’Italia, dopo averla inventata, sarà il primo paese al mondo senza università. Il Cavaliere aveva avviato il millennio con la famosa caccia ai ricercatori. Di cui la fida Letizia promise lesta la lista. Si capisce ora che non li abbia trovati. Gli atenei europei ne sono pieni, grandi e piccoli. Se ne trovano perfino nelle campagne, in Estremadura per la nespola gigante, in Cornovaglia per la meteorologia. Ma i giovani italiani si nascondono, per paura che Milano non li faccia fuori anche in esilio – la questione dei soldi, come spesso succede alla capitale morale d’Italia, si è trasformata in odio puro.
Letizia Moratti ha bloccato per cinque anni ogni cambiamento, per varare una nuova figura di ricercatore, giovane e competitivo. Che la successora Gelmini ha cancellato, cancellando i fondi per le assunzioni dei ricercatori. Vantandosi di cancellare un’ope legis del predecessore Mussi, diessino – come se si potesse cancellare una legge, che intanto ha già esplicato i suoi effetti: metà ricercatori è assunta, l’altra metà prepara i ricorsi. In realtà cancellando l’università. Con lo stesso decreto Gelmini ha statuito che il turn-over non potrà superare il 20 per cento: per ogni cinque professori che vanno in pensione solo uno sarà assunto. Anche se la popolazione universitaria raddoppia. I concorsi comunque non si fanno e non si faranno, nemmeno per il quinto.
Schive e fredde, le ministre ambrosiane sono andate al cuore della missione. Hanno continuato a parlare il linguaggio doppio di Milano, rinnovamento, rilancio, ricerca, ma hanno colpito mortali. L’università, chi se la paga bene, e chi no se la prende in quel posto. Questo per la formazione. L’Italia ha pochi laureati? Si prenderanno gli indiani, che parkano pure inglese. Quanto alla ricerca, chi se ne frega, Milano è ricca senza averne mai fatta – era Torino che la faceva.
Gli annuari dell’Onu e dell’Unesco già pongono l’università italiana al 174mo posto (ma ce ne sono altri dopo?) o al 176mo nel mondo per capacità di formazione e ricerca. La Gelmini l’avrà portata all’ultimo senza concorrenza possibile, a parecchie lunghezze dalla Papuasia, se è anocra la penultima. Sembra di vederne la smorfia: “La ricerca? Ma di che? Ladroni!” - l’eterea Gelmini sembra non pensarlo, poiché non sembra poter pensare, appena uscita di sacrestia, ma fa come se: Milano non spende senza tornaconto pronto e sostanzioso, è il mercato bellezza.
La distruzione dell’università e della ricerca del baüscia Berlusconi è stata rapida e totale, mai vendetta fu più completa. E un altro primato aggiunge a tutti i suoi: l’Italia, dopo averla inventata, sarà il primo paese al mondo senza università. Il Cavaliere aveva avviato il millennio con la famosa caccia ai ricercatori. Di cui la fida Letizia promise lesta la lista. Si capisce ora che non li abbia trovati. Gli atenei europei ne sono pieni, grandi e piccoli. Se ne trovano perfino nelle campagne, in Estremadura per la nespola gigante, in Cornovaglia per la meteorologia. Ma i giovani italiani si nascondono, per paura che Milano non li faccia fuori anche in esilio – la questione dei soldi, come spesso succede alla capitale morale d’Italia, si è trasformata in odio puro.
Tettamanzi resiste: l'intelligenza è la speranza
“L’intelligenza della vita e la speranza nella vita non sono separabili”. Ha detto la parola giusta il cardinale di Milano Tettamanzi, sulla causa promossa e vinta dal padre di Eluana Englaro per staccare la spina alla figlia. Ha messo la sordina, rispetto agli altri suoi interventi nella vita della città, ma l’ha detto, Giuliano Ferrara, che lo sfida a essere chiaro e esplicito forse non l’ha letto.
“Per comprendere e abbracciare con lo sguardo della ragione la vita dell’uomo in tutte le sue possibili circostanze occorre aprirsi al pensiero del futuro. La ragione deve osare un’apertura sul domani, non può appiattirsi sul presente, rimanere prigioniera di un’opinione o di un’ostinazione, ma spalancarsi a tutta la realtà della vita, quella visibile e quella che i nostri sensi non riescono a percepire. Allo stesso tempo la speranza della vita scaturisce dal presentimento della realtà nella sua pienezza, della verità tutta intera, quella che sfugge alla scienza dell’uomo ma è rivelata dallo Spirito di verità (cfr. Giovanni 16,13) nella vita stessa di Gesù di Nazareth”.
Si è qui nell’ambito della fede, ma non disgiunto dalla ragione: “Nella luce di questa prospettiva trascendente prende forma un giudizio etico, che nasce dalla fede cristiana ma non è estraneo alla ragione: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura umana senza uccidere, insieme a lei, la speranza che vive in essa, quella di essere fatta per la vita e non per la morte”. Il cardinale ha perfino trovato il coraggio di rimettere i giudici milanesi al loro posto, ai quali non è sembrato vero di potersi intromettere anche nelle questioni delle cure adatte a ognuno. Richiamando una “giusta discrezione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie?” Cauto ma sottolineato – a Milano poi sembra l’inizio di una rivoluzione.
“Per comprendere e abbracciare con lo sguardo della ragione la vita dell’uomo in tutte le sue possibili circostanze occorre aprirsi al pensiero del futuro. La ragione deve osare un’apertura sul domani, non può appiattirsi sul presente, rimanere prigioniera di un’opinione o di un’ostinazione, ma spalancarsi a tutta la realtà della vita, quella visibile e quella che i nostri sensi non riescono a percepire. Allo stesso tempo la speranza della vita scaturisce dal presentimento della realtà nella sua pienezza, della verità tutta intera, quella che sfugge alla scienza dell’uomo ma è rivelata dallo Spirito di verità (cfr. Giovanni 16,13) nella vita stessa di Gesù di Nazareth”.
Si è qui nell’ambito della fede, ma non disgiunto dalla ragione: “Nella luce di questa prospettiva trascendente prende forma un giudizio etico, che nasce dalla fede cristiana ma non è estraneo alla ragione: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura umana senza uccidere, insieme a lei, la speranza che vive in essa, quella di essere fatta per la vita e non per la morte”. Il cardinale ha perfino trovato il coraggio di rimettere i giudici milanesi al loro posto, ai quali non è sembrato vero di potersi intromettere anche nelle questioni delle cure adatte a ognuno. Richiamando una “giusta discrezione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie?” Cauto ma sottolineato – a Milano poi sembra l’inizio di una rivoluzione.
martedì 15 luglio 2008
Se All Iberian era per Arafat non fa notizia
Berlusconi dice a Parigi che per conto di Craxi portava soldi a Arafat. Uno lo sente e salta sulla sedia. Per poi scoprire il giorno dopo che è una non notizia, i giornali di Lor Siggori non ne parlano. "I palestinesi ricordano che io da privato ebbi a sostenere anche economicamente Arafat, quando Craxi vedeva in lui un protagonista credibile del processo di pace", ha detto a Parigi Berlusconi. L’ex presidente Cossiga dice che All Iberian, il conto estero di Craxi alimentato da Belusconi, era per Arafat. Non interessa, non fa notizia.
C’è stato un processo per questo, per il conto estero di Berlusconi a favore di Craxi, conclusosi dieci anni fa con un nulla di fatto. Benché sia Berlusconi sia Craxi fossero i nemici da annientare dei giudici milanesi. Si può dunque concludere che, se non ci sono intercettazioni e manette per qualcuno, per la stampa italiana non c’è notizia.
In parte è così: i grandi giornali italiani sarebbero giornalacci in Germania, o in Francia, o in Inghilterra, o negli Usa, là dove c’è la cultura del giornale, roba scandalistica. Ma in parte è molto peggio. Quello italiano è un giornalismo da servizi segreti, sempre deviati in Italia, per i quali alcune cose si possono dire e altre no. E c’è da dubitare che ci siano redattori che sappiano ancora chi era Arafat, perché Craxi lo finanziava, perché Israele, malgrado tutto, rispettava Craxi.
C’è stato un processo per questo, per il conto estero di Berlusconi a favore di Craxi, conclusosi dieci anni fa con un nulla di fatto. Benché sia Berlusconi sia Craxi fossero i nemici da annientare dei giudici milanesi. Si può dunque concludere che, se non ci sono intercettazioni e manette per qualcuno, per la stampa italiana non c’è notizia.
In parte è così: i grandi giornali italiani sarebbero giornalacci in Germania, o in Francia, o in Inghilterra, o negli Usa, là dove c’è la cultura del giornale, roba scandalistica. Ma in parte è molto peggio. Quello italiano è un giornalismo da servizi segreti, sempre deviati in Italia, per i quali alcune cose si possono dire e altre no. E c’è da dubitare che ci siano redattori che sappiano ancora chi era Arafat, perché Craxi lo finanziava, perché Israele, malgrado tutto, rispettava Craxi.
L'Euromediterraneo? Testate
Zapatero, che per primo ha lanciato l’idea, è andato volentieri a Parigi. Al lancio dell’Europa Mediterranea, con contorno di una cinquantina di capi di Stato e di governo per il primo 14 luglio di Sarkozy - o è il secondo, è invecchiato anche lui? Ma non ci ha trovato niente da fare se non regalare a madame Bétancourt la maglietta di Zidane. Con apposita cerimonia alla quale ha convitato la stampa. La maglietta che si era fatta regalare da Zineddine Zidane con dedica, non l’ultima maglietta di Zidane al Real Madrid, ma quella che il testone indossava quando colpì Materazzi.
Zapatero è pieno di gioia anche lui per la testata. Perché Zidane ha colpito Materazzi come un toro di razza, col giusto stile da grande corrida. E perché ha messo in riga l’Italia, seppure facendo ridere il mondo. Lo stesso compito che il capo del governo spagnolo si è prefisso, ultimo socialista in Europa, che si sta mangiando tutti i preti, e organizzando il sorpasso della Spagna sull’Italia in tutti i campi, per primo il ridicolo, ben sostenuto dal suo forte partito degli immobiliaristi con i loro giornali e le televisioni, che altrove l’avrebbe portato in galera.
La signora Bétancourt, o Betancourt senza l’accento, non si è capito ancora se è colombiana o francese, è la nostra martire, per la quale tante veglie sono state fatte e paginate di giornale. Che appena libera ha confessato una grande consolazione nei suoi lunghi sei anni di prigionia: la testata di Zidane a Materazzi l’ha aiutata a sopravvivere. Essendo stato Zidane un grande juventino ed essendo Materazzi un orrido interista, la cosa potrebbe fare piacere. Ma il fatto è che l’euromediterraneo è tutto qui, Francia-Italia e Spagna-Italia, non più di una partita di pallone: Berlusconi, Sarkozy, Zapatero, che non sono nemmeno buoni calciatori, majorette la Bétancourt, ormai purtroppo in età se non in saggezza. Il Nord Africa che conosciamo è migliore di Zidane, sia riconosciuto da juventini, ma anche lì non si sa mai.
Zapatero è pieno di gioia anche lui per la testata. Perché Zidane ha colpito Materazzi come un toro di razza, col giusto stile da grande corrida. E perché ha messo in riga l’Italia, seppure facendo ridere il mondo. Lo stesso compito che il capo del governo spagnolo si è prefisso, ultimo socialista in Europa, che si sta mangiando tutti i preti, e organizzando il sorpasso della Spagna sull’Italia in tutti i campi, per primo il ridicolo, ben sostenuto dal suo forte partito degli immobiliaristi con i loro giornali e le televisioni, che altrove l’avrebbe portato in galera.
La signora Bétancourt, o Betancourt senza l’accento, non si è capito ancora se è colombiana o francese, è la nostra martire, per la quale tante veglie sono state fatte e paginate di giornale. Che appena libera ha confessato una grande consolazione nei suoi lunghi sei anni di prigionia: la testata di Zidane a Materazzi l’ha aiutata a sopravvivere. Essendo stato Zidane un grande juventino ed essendo Materazzi un orrido interista, la cosa potrebbe fare piacere. Ma il fatto è che l’euromediterraneo è tutto qui, Francia-Italia e Spagna-Italia, non più di una partita di pallone: Berlusconi, Sarkozy, Zapatero, che non sono nemmeno buoni calciatori, majorette la Bétancourt, ormai purtroppo in età se non in saggezza. Il Nord Africa che conosciamo è migliore di Zidane, sia riconosciuto da juventini, ma anche lì non si sa mai.
domenica 13 luglio 2008
Gentildonne arabe e veline europee
La notizia della visita di Bashir Assad a Parigi sarà stata sua moglie. La première dame Asma el Assad ha oscurato la sinistra fama dei siriani, traditori della Francia che sempre li ha protetti, con l’autobomba contro i militari Onu francesi a Beirut venticinque anni fa. E perfino la fama recente della cantautrice première dame Carla Bruni.
C’è un vistoso décalage tra le primedonne arabe e quelle europee. Istruite, sensibili, poliglotte, intelligenti quelle arabe ultimamente viste in Europa, Rania di Giordania, Lalla del Marocco, Moza al Thani del Qatar, una delle moglie dell’emiro del Qatar, una delle donne più potenti del globo secondo “Forbes”, Haya del Dubai, figlia tutta occidentale di re Hussein di Giordania, moglie dello sceicco del Dubai, e Asma el Assad, brave anche più dei loro mariti e comunque con una determinante funzione politica. Per la salute, l'istruzione e i fatti sociali, certo, più che sui carri armati. Con più figli, che non esibiscono, nemmeno incinte. Anche belle e ben vestite. Mentre gli europei se la fanno con chi capita, le ministre di Zapatero, Berlusconi, Rasmussen, direbbe la comica Guzzanti, le mogli di Schröder, le cantanti e le veline. Una scelta che si deve ritenere risponda anch’essa, così come quelle dei governanti arabi, a una domanda politica.
E così, al raffronto, è l’Europa che rinnega le donne - uno dei motivi per cui Blair è odiato in Italia è che non divorziato dalla moglie Cherie, per giunta cattolica. Mentre la moglie giovane, moderna e preparata è scelta nei paesi arabi – dai governanti o da chi per essi – quale testimonianza e immagine. Una traccia altrettanto forte che quella talebane e qaedista, e sicuramente vincente, più duratura, poiché proietta un immaginario fatto di impegno e lavoro, di parità con lo sposo, e di integrità senza veli. Le nostre primedonne si appiattiscono sul genere donne del calciatore, anche quando non ne hanno il fisico. Le arabe imparano a pensare con la loro testa, impercettibilmente finendo di delegare il mondo là fuori comodamente all’uomo.
C’è un vistoso décalage tra le primedonne arabe e quelle europee. Istruite, sensibili, poliglotte, intelligenti quelle arabe ultimamente viste in Europa, Rania di Giordania, Lalla del Marocco, Moza al Thani del Qatar, una delle moglie dell’emiro del Qatar, una delle donne più potenti del globo secondo “Forbes”, Haya del Dubai, figlia tutta occidentale di re Hussein di Giordania, moglie dello sceicco del Dubai, e Asma el Assad, brave anche più dei loro mariti e comunque con una determinante funzione politica. Per la salute, l'istruzione e i fatti sociali, certo, più che sui carri armati. Con più figli, che non esibiscono, nemmeno incinte. Anche belle e ben vestite. Mentre gli europei se la fanno con chi capita, le ministre di Zapatero, Berlusconi, Rasmussen, direbbe la comica Guzzanti, le mogli di Schröder, le cantanti e le veline. Una scelta che si deve ritenere risponda anch’essa, così come quelle dei governanti arabi, a una domanda politica.
E così, al raffronto, è l’Europa che rinnega le donne - uno dei motivi per cui Blair è odiato in Italia è che non divorziato dalla moglie Cherie, per giunta cattolica. Mentre la moglie giovane, moderna e preparata è scelta nei paesi arabi – dai governanti o da chi per essi – quale testimonianza e immagine. Una traccia altrettanto forte che quella talebane e qaedista, e sicuramente vincente, più duratura, poiché proietta un immaginario fatto di impegno e lavoro, di parità con lo sposo, e di integrità senza veli. Le nostre primedonne si appiattiscono sul genere donne del calciatore, anche quando non ne hanno il fisico. Le arabe imparano a pensare con la loro testa, impercettibilmente finendo di delegare il mondo là fuori comodamente all’uomo.
Intellettuali di Berlinguer, allineati e coperti
La satira dev’essere libera di criticare. E il comico è un intellettuale, in un certo senso il primo degli intellettuali, il più radicale, onesto sempre. Con loro c'erano altri quattro intellettuali a piazza Navona, Travaglio, Camilleri, Flores e Furio Colombo. Anche Di Pietro volendo, che risulta laureato. E le girotondine, che sarebbero professoresse. Ma non erano molti.
Galli della Loggia fa da storico sul “Corriere della sera” del 12 luglio una disamina della storia delle due Italie, la buona e la cattiva, del “moralismo divisivo” persistente, che a questo punto è un fatto culturale, da far ascendere agli intellettuali. Il saggio prende le mosse dalla manifestazione di piazza Navona, com'è giusto. Ma non dice che gli intellettuali vi erano pochi. Altri fatti importanti lo storico omette. Che il credito fu conquistato dagli intellettuali in Italia prima dell’unità, per secoli l’Italia è stata solo letteraria e storica, anche filosofica. Mentre gli intellettuali dopo l'unità, come tutto quello che è avvenuto dopo Cavour, sono parte integrante del morbo italico, la corruttela e l'impunità. E che gli intellettuali, comici inclusi, sono stati vezzeggiati, privilegiati e anche pagati dal fascismo. E poi dal partito Comunista. La libertà di giudizio e l'etica nella categoria sono esili.
Gli intellettuali anche in Italia hanno nella storia osato, il carcere, l’esilio e anche il fuoco. Ora non è detto che non lo rifarebbero. Ma il martirio cercano in tv, e per linee sghembe – non dove il torto c’è, ma dove si vorrebbe che fosse. Questa è una novità, la divisione in belli-e-buoni e “gli altri”. Di cui lo stesso Galli della Loggia coglie la data e le modalità di nascita. Ma prima di arrivarci altre precisazioni s’impongono. La divisione non è il fatto di Grillo e Sabina Guzzanti, loro sono due attori, recitano. Il problema è dei giornali e dei politici, di quelli che li sostengono, seppure in pectore, e di quelli che li criticano, specie i vergini alla Furio Colombo: è il conformismo dominante col moralismo, per cui è opportuno marciare sempre “allineati e coperti”, come si diceva in caserma.
Ma soprattutto manca allo storico Mani Pulite, omissione consueta a Milano, che è la controrivoluzione dell'Italia repubblicana, di incisività e durata di poco inferiori al fascismo. Il problema principale è che la questione morale è la questione morale stessa. Il modo di porre cioè la questione morale, di chi la pone - quasi indistintamente, siano essi giudici o giornalisti o uomini d'affari, non c’è molta moralità in giro - e dei fini per cui è posta, il mantenimento del piccolo potere naufragato del compromesso storico.
Sulle origini della divisione lo storico Galli della Loggia è magistrale: “Con sempre meno operai e sempre più esponenti del «ceto medio riflessivo » nelle proprie file, suggestionato da spregiudicati gruppi editoriali che ambiscono quasi a dettargli la linea, pressato da giudici di tipo nuovo che considerano se stessi e la giustizia come investiti di una missione etica, e infine condizionato da una stampa straniera abituata a semplificare drasticamente una realtà italiana che nella sostanza non conosce, il Pci non trova di meglio che fare della «questione morale» la sua nuova carta d'identità. Incapace di convertirsi alla socialdemocrazia, al partito di Gramsci e di Togliatti, che pure un tempo non ignorava gli aspri dilemmi della politica, non rimane che presentarsi come «il partito degli onesti»; che affidare le sue speranze alla delegittimazione morale dell' avversario”. È il Pci di Berlinguer trent'anni fa. Questi intellettuali sono i reduci dell'8 settembre del partito Comunista, che ancora vagano per la giungla. Ma, le abitudini sono dure a morire, in ordine compatto, sempre allineati e coperti.
Galli della Loggia fa da storico sul “Corriere della sera” del 12 luglio una disamina della storia delle due Italie, la buona e la cattiva, del “moralismo divisivo” persistente, che a questo punto è un fatto culturale, da far ascendere agli intellettuali. Il saggio prende le mosse dalla manifestazione di piazza Navona, com'è giusto. Ma non dice che gli intellettuali vi erano pochi. Altri fatti importanti lo storico omette. Che il credito fu conquistato dagli intellettuali in Italia prima dell’unità, per secoli l’Italia è stata solo letteraria e storica, anche filosofica. Mentre gli intellettuali dopo l'unità, come tutto quello che è avvenuto dopo Cavour, sono parte integrante del morbo italico, la corruttela e l'impunità. E che gli intellettuali, comici inclusi, sono stati vezzeggiati, privilegiati e anche pagati dal fascismo. E poi dal partito Comunista. La libertà di giudizio e l'etica nella categoria sono esili.
Gli intellettuali anche in Italia hanno nella storia osato, il carcere, l’esilio e anche il fuoco. Ora non è detto che non lo rifarebbero. Ma il martirio cercano in tv, e per linee sghembe – non dove il torto c’è, ma dove si vorrebbe che fosse. Questa è una novità, la divisione in belli-e-buoni e “gli altri”. Di cui lo stesso Galli della Loggia coglie la data e le modalità di nascita. Ma prima di arrivarci altre precisazioni s’impongono. La divisione non è il fatto di Grillo e Sabina Guzzanti, loro sono due attori, recitano. Il problema è dei giornali e dei politici, di quelli che li sostengono, seppure in pectore, e di quelli che li criticano, specie i vergini alla Furio Colombo: è il conformismo dominante col moralismo, per cui è opportuno marciare sempre “allineati e coperti”, come si diceva in caserma.
Ma soprattutto manca allo storico Mani Pulite, omissione consueta a Milano, che è la controrivoluzione dell'Italia repubblicana, di incisività e durata di poco inferiori al fascismo. Il problema principale è che la questione morale è la questione morale stessa. Il modo di porre cioè la questione morale, di chi la pone - quasi indistintamente, siano essi giudici o giornalisti o uomini d'affari, non c’è molta moralità in giro - e dei fini per cui è posta, il mantenimento del piccolo potere naufragato del compromesso storico.
Sulle origini della divisione lo storico Galli della Loggia è magistrale: “Con sempre meno operai e sempre più esponenti del «ceto medio riflessivo » nelle proprie file, suggestionato da spregiudicati gruppi editoriali che ambiscono quasi a dettargli la linea, pressato da giudici di tipo nuovo che considerano se stessi e la giustizia come investiti di una missione etica, e infine condizionato da una stampa straniera abituata a semplificare drasticamente una realtà italiana che nella sostanza non conosce, il Pci non trova di meglio che fare della «questione morale» la sua nuova carta d'identità. Incapace di convertirsi alla socialdemocrazia, al partito di Gramsci e di Togliatti, che pure un tempo non ignorava gli aspri dilemmi della politica, non rimane che presentarsi come «il partito degli onesti»; che affidare le sue speranze alla delegittimazione morale dell' avversario”. È il Pci di Berlinguer trent'anni fa. Questi intellettuali sono i reduci dell'8 settembre del partito Comunista, che ancora vagano per la giungla. Ma, le abitudini sono dure a morire, in ordine compatto, sempre allineati e coperti.
Tra Italia e Spagna lo spaccio controllato
Victor Diaz Silva, l’assassino di Federica Squarise, è uno spacciatore. Noto per essere uno spacciatore in tutta Lloret de Mar, nelle piazze, i bar, i ristoranti, le discoteche, le spiagge, e anche alle casalinghe. Quindi pure alla polizia. Ha assassinato la ragazza perché lei non cercava droga e forse ha minacciato di denunciarlo, magari non a Lloret de Mar, dove l'uomo si sapeva protetto. Questa è tutta la verità.
La polizia non ha arrestato Diaz Silva, come avrebbe dovuto una settimana prima, perché tocca alle mafie della droga accertare le colpe in quel particolare settore. Diaz Silva è stato arrestato quando i suoi controllori lo hanno consegnato. Gli investigatori italiani che sono arrivati in Catalogna per collaborare alle indagini lo sanno per certo, anche se naturalmente non ne hanno le prove, il capo della Polizia Manganelli lo ha spiegato al ministro degli Esteri Frattini.
La movida in Spagna è droga facile, controllata e non letale: fumo, pasticche e cocaina. Che la polizia controllata, attraverso i canali consolidati di smercio. Ai quali demanda l’“ordine”. Il miracolo spagnolo è fatto di droga e immobiliare, si sa. Il turismo della Costa Brava prospera sulla droga facile, specie per i giovani italiani e centroeuropei. È una sorta di riviera romagnola, con più palazzoni e meno mare, insomma non più bella, ma con la droga per tutti.
Il contenzioso tra Italia e Spagna che ne è nato è sullo spaccio, sia pure controllato. La Farnesina che minacciava ritorsioni sul turismo italiano questo intendeva: spiegare la movida agli italiani. Si è detto che Boada, il vice-ministro che l’assassinio ha imputato all’Italia, “serva di Berlusconi”, è in mano ai cartelli della droga, ma non c’è bisogno di queste agudezas. Altrove un governo che prosperasse sulla droga, come quello catalano, negherebbe e spergiurerebbe di no – non s’è mai visto che Noriega o i colombiani si facessero gloria della cocaina. In Europa è invece possibile, e anzi motivo di vanto, specie a sinistra purtroppo: Boada sicuramente si ritiene migliore di Berlusconi.
La polizia non ha arrestato Diaz Silva, come avrebbe dovuto una settimana prima, perché tocca alle mafie della droga accertare le colpe in quel particolare settore. Diaz Silva è stato arrestato quando i suoi controllori lo hanno consegnato. Gli investigatori italiani che sono arrivati in Catalogna per collaborare alle indagini lo sanno per certo, anche se naturalmente non ne hanno le prove, il capo della Polizia Manganelli lo ha spiegato al ministro degli Esteri Frattini.
La movida in Spagna è droga facile, controllata e non letale: fumo, pasticche e cocaina. Che la polizia controllata, attraverso i canali consolidati di smercio. Ai quali demanda l’“ordine”. Il miracolo spagnolo è fatto di droga e immobiliare, si sa. Il turismo della Costa Brava prospera sulla droga facile, specie per i giovani italiani e centroeuropei. È una sorta di riviera romagnola, con più palazzoni e meno mare, insomma non più bella, ma con la droga per tutti.
Il contenzioso tra Italia e Spagna che ne è nato è sullo spaccio, sia pure controllato. La Farnesina che minacciava ritorsioni sul turismo italiano questo intendeva: spiegare la movida agli italiani. Si è detto che Boada, il vice-ministro che l’assassinio ha imputato all’Italia, “serva di Berlusconi”, è in mano ai cartelli della droga, ma non c’è bisogno di queste agudezas. Altrove un governo che prosperasse sulla droga, come quello catalano, negherebbe e spergiurerebbe di no – non s’è mai visto che Noriega o i colombiani si facessero gloria della cocaina. In Europa è invece possibile, e anzi motivo di vanto, specie a sinistra purtroppo: Boada sicuramente si ritiene migliore di Berlusconi.
Draghi insiste: frammentare Eni e Enel
“Con più mercato nell’energia ci sarebbe più crescita”, dice la Banca d’Italia, una ricerca degli economisti Guglielmo Barone e Federico Cingano. Di ben l’1,1 per cento l’anno, hanno calcolato: sono quasi venti miliardi. Di quanto la finanziaria ogni anno stringe la cinghia. Insomma, si avrebbe un miracolo. E questo semplicemente mettendo sotto bastone l’Eni e l’Enel.
Ma c’è un’altra lettura della meraviglia: mettere l’Eni e l’Enel sotto bastone, appunto. Con l’Eni e l’Enel non è riuscito a Draghi, il grande privatizzatore ora governatore della Banca d’Italia, e ai suoi amici quello che è invece riuscito perfettamente con Telecom e le banche: mettere le mani sul tesoretto e spolparlo, senza spendere una lira – allora c’era la lira. Senza fare torto agli economisti Barone e Cingano. Magari un qualche modello energocentrico darà la loro strabiliante crescita, ma come crederci? In Italia il mercato dell’energia – elettricità, gas, petrolio - è molto più liberalizzato che in Francia, Germania, Spagna. Al centro, negli ex feudi dell’Eni e dell’Enel, e in periferia, le deprecate muncipalizzate hanno tutte bei partner stranieri.
Ma c’è un’altra lettura della meraviglia: mettere l’Eni e l’Enel sotto bastone, appunto. Con l’Eni e l’Enel non è riuscito a Draghi, il grande privatizzatore ora governatore della Banca d’Italia, e ai suoi amici quello che è invece riuscito perfettamente con Telecom e le banche: mettere le mani sul tesoretto e spolparlo, senza spendere una lira – allora c’era la lira. Senza fare torto agli economisti Barone e Cingano. Magari un qualche modello energocentrico darà la loro strabiliante crescita, ma come crederci? In Italia il mercato dell’energia – elettricità, gas, petrolio - è molto più liberalizzato che in Francia, Germania, Spagna. Al centro, negli ex feudi dell’Eni e dell’Enel, e in periferia, le deprecate muncipalizzate hanno tutte bei partner stranieri.
Zentrum: l'unificatore si chiama Lombardo
Lombardo è l’astro nascente del nuovo Zentrum. Nel disegno di dislocare la maggioranza non alle prossime, lontane, elezioni, ma di rifare presto il colpo del 1994, il capolavoro di Scalfaro. O perlomeno, se non il ribaltone, per il quale non ci sono i numeri, delle due l’una: o un governo con Draghi (istituzionale, del fisco federale, di garanzia, le formule non mancano per accantonare Berlusconi), oppure la crisi politica e le elezioni anticipate.
Il movimento è per adesso all’interno del partito Democratico, nell’intento di scalzare il predominio diessino, quello che gli (ex) Dc chiamano il partito togliattiano. Il “problema dell’identità” che Rutelli pone è questo. E la sua “radicale novità” è coinvolgere nel Pd le membra sparse della Dc, per mettere i diessini in minoranza e al guinzaglio. I frammenti di Dc da coalizzare sono per ora quelli che già pencolano verso il Pd, Tabacci, Baccini e i Montezemoli. Un po’ di Milano, un po’ di Torino, con i Bazoli, i Tronchetti Provera, i De Benedetti e gli Elkann, e un po’ di Roma e del napoletano. La punta di diamante dello schieramento è, si sa, Draghi, il governatore della Banca d’Italia, che ritiene già di averne avuto l’investitura, da Bonanni (Cisl) e dall’élite occulta della sinistra, i banchieri e gli speculatori. Ma il vero obiettivo della manovra è catturare Raffaele Lombardo, il leader dell’Mpa siciliano.
Lombardo è già il referente dell’Udc di Casini in Sicilia. Ma un referente concorrente: il Movimento popolare di Lombardo è infatti nato per nessuna altra ragione che di sottrarre il capo all'ombra di Casini. Un po' come il berlusconismo improprio di Formigoni in Lombardia: sono molte le scegge che Casini ha fatto allontanare, di comprimari che non sopportano la sua leadership, e che i teoria sono disponibili a farsi federare.
Nell’isola, dove non si guarda a Cuffaro ma a lui, Lombardo ha già unificato di fatto i due tronconi principali del nuovo Zentrum. Lombardo stesso in pectore già di crede, alla leadership della nuova Dc, dall’alto dei suoi due milioni di preferenze. Forte anche del precedente di Leoluca Orlando, di cui fa tesoro. E non si trova nella veste di amministratore: si dice un politico, e sogna la non remota Ialia in cui il vero potere era nel segretario della Dc. La convinzione insomma non manca, non è di questo che difetta la Sicilia – l'isola sempre presume di sé.
Anche Orlando, trionfatore in Sicilia, a Palermo aveva tre voti su quattro, in alcune sezioni il 100 per cento dei voti, che pure statisticamente è impossibile, si candidò nel 1990-91 a guidare la Dc, ma fu letteralmente disintegrato dagli “amici”. Lombardo aspetta, non si candida. Gli amici dovranno prima abbattere i Ds. A quel punto lui arriverà con i voti: cinque punti percentuali sono più di tutta l’Udc. La crisi insomma non è vicina. Ma se le cose vanno per il verso giusto, se il Pd sarà a maggioranza bianco, Lombardo non aspetterà il 2013.
Il movimento è per adesso all’interno del partito Democratico, nell’intento di scalzare il predominio diessino, quello che gli (ex) Dc chiamano il partito togliattiano. Il “problema dell’identità” che Rutelli pone è questo. E la sua “radicale novità” è coinvolgere nel Pd le membra sparse della Dc, per mettere i diessini in minoranza e al guinzaglio. I frammenti di Dc da coalizzare sono per ora quelli che già pencolano verso il Pd, Tabacci, Baccini e i Montezemoli. Un po’ di Milano, un po’ di Torino, con i Bazoli, i Tronchetti Provera, i De Benedetti e gli Elkann, e un po’ di Roma e del napoletano. La punta di diamante dello schieramento è, si sa, Draghi, il governatore della Banca d’Italia, che ritiene già di averne avuto l’investitura, da Bonanni (Cisl) e dall’élite occulta della sinistra, i banchieri e gli speculatori. Ma il vero obiettivo della manovra è catturare Raffaele Lombardo, il leader dell’Mpa siciliano.
Lombardo è già il referente dell’Udc di Casini in Sicilia. Ma un referente concorrente: il Movimento popolare di Lombardo è infatti nato per nessuna altra ragione che di sottrarre il capo all'ombra di Casini. Un po' come il berlusconismo improprio di Formigoni in Lombardia: sono molte le scegge che Casini ha fatto allontanare, di comprimari che non sopportano la sua leadership, e che i teoria sono disponibili a farsi federare.
Nell’isola, dove non si guarda a Cuffaro ma a lui, Lombardo ha già unificato di fatto i due tronconi principali del nuovo Zentrum. Lombardo stesso in pectore già di crede, alla leadership della nuova Dc, dall’alto dei suoi due milioni di preferenze. Forte anche del precedente di Leoluca Orlando, di cui fa tesoro. E non si trova nella veste di amministratore: si dice un politico, e sogna la non remota Ialia in cui il vero potere era nel segretario della Dc. La convinzione insomma non manca, non è di questo che difetta la Sicilia – l'isola sempre presume di sé.
Anche Orlando, trionfatore in Sicilia, a Palermo aveva tre voti su quattro, in alcune sezioni il 100 per cento dei voti, che pure statisticamente è impossibile, si candidò nel 1990-91 a guidare la Dc, ma fu letteralmente disintegrato dagli “amici”. Lombardo aspetta, non si candida. Gli amici dovranno prima abbattere i Ds. A quel punto lui arriverà con i voti: cinque punti percentuali sono più di tutta l’Udc. La crisi insomma non è vicina. Ma se le cose vanno per il verso giusto, se il Pd sarà a maggioranza bianco, Lombardo non aspetterà il 2013.
L'euro forte con l'inflazione
Il carovita col caromoneta, che storia è questa? Un tempo l’inflazione portava svalutazione, i due fenomeni si compensavano, sia pure non in modo virtuoso. Oggi l’inflazione va con la rivalutazione, e anzi per troppi aspetti ne è l’effetto: non sarà l’euro, invenzione senza precedenti, ad aver creato questa miscela senza precedenti? Insomma: non sarà l’euro, questo euro, la causa dell’inflazione?
La situazione è inedita. Ma l’euro è inedito. E più ancora la pervicace stolidità monetarista che gli sta dietro – che si imputa alla Bundesbank, ma i tedecshi da tempo hanno preso le distanze dalla ideologia dell’euro. Che cosa giustifica la forza dell’euro se non un’errata politica monetaria, che si vorrebbe a protezione dall’inflazione? Non la produttività, che in Europa cresce meno che negli Usa e nelle nuove potenze asiatiche, e in alcuni paesi europei, Italia in testa, è stagnante da un quindicennio. Non il diverso potere d’acquisto, comparativamente inferiore in Europa rispetto all’area del dollaro, anche molto inferiore. Non, evidentemente, il ritmo della crescita economica, che in Europa raramente passa l’1 per cento. È un fatto di reflazione forzata e insensata, di cui l’Italia ha già fatto le spese nel 1992, quando una politica di rivalutazione della lira sul marco portò al disastro.
Si dice il contrario: l’euro forte ha attutito i rincari internazionali dei beni che si negoziano in dollari, petrolio e materie prime alimentari. Ma la verità è che la causa prima di questi rincari è un euro troppo forte rispetto alla moneta che fa i valori delle materie prime. È l’assenza di una politica nei confronti del dollaro che non fosse il tasso divaricante d’interesse, al punto da raddoppiare-dimezzare il tasso di cambio in pochi mesi. Anche nel caso, che piace in Italia, che il dollaro sia stato di proposito indebolito dalle autorità americane, dalla Federal Reserve in combutta con la presidenza: a ogni riduzione dei tassi Usa, se reputata competitiva, si doveva rispondere con analoga riduzione dei tassi Ue.
Si dice che i tassi elevati sono una barriera contro l’inflazione. Ma il contrario è pure vero: gli Usa non hanno più inflazione della Ue, col dollaro debole, e mantengono la crescita, della produzione e dei consumi. Né è peggiorata l’inflazione delle grandi economie asiatiche agganciate al dollaro, che anch’esse subiscono il caro petrolio e il caro materie prime.
La politica dell’aloofness sul dollaro è più imbelle o suicida? Non riconoscere il dollaro, l’area del dollaro, dove si esprimono il benessere e la crescita mondiali e si fanno gli affari, è insensato. Dacché ci sono le politiche monetarie si è sempre puntato al concerto, all’incontro, alla massimizzazione degli interessi reciproci, se non all’accordo. A meno di non farsi la guerra. Che l’Europa non vuole e non sa fare. Perfino l’avida Francia di Poincaré riconobbe il diritto della Germania alla stabilizzazione dei prezzi e a una politica monetaria. L’Europa invece, che si vuole cattivissima, sull'euro s’è lasciata intrappolare dagli americani, che essa ritiene di disprezzare - si sa come è andata: gli Usa hanno coniato la “Fortezza Europa”, uno slogan, con le solite idiozie del mercato di quattrocento milioni, dei primati, della storia, etc., e l’Europa ci ha creduto. L’Europa ha creduto e crede di poter fare da sola, sputando sulla globalizzazione.
In passato avevamo l’inflazione e la svalutazione. Il meccanismo si riproduceva perversamente, ma non incrudeliva come ora contro i pensionati e i salariati. Oggi la politica monetaria si vuole onesta, leale ai propositi, ma non ha rotto la spirale. La riproduce anzi, per altre ragioni, in altre forme, raddoppiando il danno. Anzi, lo triplica: il reddito fisso paga il carovita, il carodenaro, e l’economia ferma, senza investimenti, con meno occupazione e meno reddito, complessivo e per occupato. Cos’altro è un disastro?
La situazione è inedita. Ma l’euro è inedito. E più ancora la pervicace stolidità monetarista che gli sta dietro – che si imputa alla Bundesbank, ma i tedecshi da tempo hanno preso le distanze dalla ideologia dell’euro. Che cosa giustifica la forza dell’euro se non un’errata politica monetaria, che si vorrebbe a protezione dall’inflazione? Non la produttività, che in Europa cresce meno che negli Usa e nelle nuove potenze asiatiche, e in alcuni paesi europei, Italia in testa, è stagnante da un quindicennio. Non il diverso potere d’acquisto, comparativamente inferiore in Europa rispetto all’area del dollaro, anche molto inferiore. Non, evidentemente, il ritmo della crescita economica, che in Europa raramente passa l’1 per cento. È un fatto di reflazione forzata e insensata, di cui l’Italia ha già fatto le spese nel 1992, quando una politica di rivalutazione della lira sul marco portò al disastro.
Si dice il contrario: l’euro forte ha attutito i rincari internazionali dei beni che si negoziano in dollari, petrolio e materie prime alimentari. Ma la verità è che la causa prima di questi rincari è un euro troppo forte rispetto alla moneta che fa i valori delle materie prime. È l’assenza di una politica nei confronti del dollaro che non fosse il tasso divaricante d’interesse, al punto da raddoppiare-dimezzare il tasso di cambio in pochi mesi. Anche nel caso, che piace in Italia, che il dollaro sia stato di proposito indebolito dalle autorità americane, dalla Federal Reserve in combutta con la presidenza: a ogni riduzione dei tassi Usa, se reputata competitiva, si doveva rispondere con analoga riduzione dei tassi Ue.
Si dice che i tassi elevati sono una barriera contro l’inflazione. Ma il contrario è pure vero: gli Usa non hanno più inflazione della Ue, col dollaro debole, e mantengono la crescita, della produzione e dei consumi. Né è peggiorata l’inflazione delle grandi economie asiatiche agganciate al dollaro, che anch’esse subiscono il caro petrolio e il caro materie prime.
La politica dell’aloofness sul dollaro è più imbelle o suicida? Non riconoscere il dollaro, l’area del dollaro, dove si esprimono il benessere e la crescita mondiali e si fanno gli affari, è insensato. Dacché ci sono le politiche monetarie si è sempre puntato al concerto, all’incontro, alla massimizzazione degli interessi reciproci, se non all’accordo. A meno di non farsi la guerra. Che l’Europa non vuole e non sa fare. Perfino l’avida Francia di Poincaré riconobbe il diritto della Germania alla stabilizzazione dei prezzi e a una politica monetaria. L’Europa invece, che si vuole cattivissima, sull'euro s’è lasciata intrappolare dagli americani, che essa ritiene di disprezzare - si sa come è andata: gli Usa hanno coniato la “Fortezza Europa”, uno slogan, con le solite idiozie del mercato di quattrocento milioni, dei primati, della storia, etc., e l’Europa ci ha creduto. L’Europa ha creduto e crede di poter fare da sola, sputando sulla globalizzazione.
In passato avevamo l’inflazione e la svalutazione. Il meccanismo si riproduceva perversamente, ma non incrudeliva come ora contro i pensionati e i salariati. Oggi la politica monetaria si vuole onesta, leale ai propositi, ma non ha rotto la spirale. La riproduce anzi, per altre ragioni, in altre forme, raddoppiando il danno. Anzi, lo triplica: il reddito fisso paga il carovita, il carodenaro, e l’economia ferma, senza investimenti, con meno occupazione e meno reddito, complessivo e per occupato. Cos’altro è un disastro?