Cossiga attribuisce a Moro, sul “Corriere della sera” del 14, il “lodo Moro”, cioè l’accordo con i terroristi palestinesi. Gli attribuisce anche, non richiesto, ogni altra trama dei servizi segreti, da Gladio alla semplice conoscenza del generale Miceli. Di che ha paura Cossiga? Si attesta preliminarmente di non sapere nulla in genere nelle zone di mafia, inquinate.
Tutto peraltro Cossiga attribuisce a Moro, che è morto, e non menziona Andreotti, altro deus dei servizi. Per i quali ferocemente combattè Moro - ferocemente è la sola parola giusta, approssimata per difetto.
“Non c’è opinione pubblica”, dice Nanni Moretti a Locarno. Come sempre uno di noi, che sa le cose.
Ma come sempre le dice a metà, col ghigno. Con un sospetto di cinismo che è ormai certezza.
Carlo De Benedetti è andato a Pechino per l’inaugurazione dell’Olimpiade, e in poche righe sul “Sole” di domenica 9 dà parecchie “notizie”. L’assenza di guardie nello stadio, le guardie ferme fuori, sedute su sgabelli, gli americani che hanno applaudito solo gli americani. Ai tanti inviati dei giornali erano particolari sfuggiti.
De Benedetti spiega anche, sempre in breve, l’ovvio intento politico della celebrazione, la Cina che dice: “Siamo dappertutto, anche nello sport e nell’eleganza”. E come la Cina non sia uno dei “parvenu del low cost”.
La Cgil difende gli assenteisti. Della Pubblica Amministrazione, per di più.
Un’altra conferma che l’Italia non si è ancora desovietizzata, tra burocrazia, indifferenza e linguaggio sempre doppio.
In un romanzo di fantastoria di sedici anni fa, “I figli degli uomini”, la scrittrice P.D.James lo aveva notato: “Un regime in cui a una sorveglianza continua si accompagna un permissivismo totale è incompatibile con uno sviluppo sano”. Nel romanzo una strana infecondità ha colpito nel 1995 gli uomini,i maschi, per cui l’umanità si avvia all’estinzione. Un mondo senza le api, secondo il celebre apocrifo di Einstein, sarà ridotto a poche diecine di essere umani.
Il sindaco leghista di Verona proibisce di andare a puttane. Il sindaco leghista di Novara proibisce di passeggiare in gruppi di tre o più. Quello di Brescia, o è di Bergamo?, proibisce di bere in strada: il vino sì, la birra no. Il comune di Trento, ulivista questo, ha proibito le fotografie nelle piscine in cui ci sono bambini. Nel leghista Veneto è vietato in luoghi pubblici come i centro commerciali di farsi le fotografie tra padri e figli.
Tutta roba che non c’entra con la sicurezza. È che chi ha vinto le elezioni nei primi tre mesi prende possesso: è il fascismo della Lega, di cui non c’è da dubitare. O quello del Lombardo-Veneto. Che la Lega, come spesso è il caso dei partiti, tenta di “governare” (moderare, arginare). Lo stesso col razzismo antirom: il leghista ministro dell’Interno Maroni forse ha ragione di dire che è un moderato, forse fa finta di fare quello per cui è stato votato.
L’editore del “Corriere della sera” si pubblica domenica 3 sul suo giornale una pagina di riflessioni sul ruolo dell’etica nella professione di banchiere. Assolvendosi, nel senso che ha la coscienza pulita. Ma l’avvocato Bazoli è noto per avere uno dei più alti peli sullo stomaco della Lombardia, che pure ne abbonda. Ed è – si ritiene, vuol’esserlo – l’uomo più potente d’Italia, negli affari e, attraverso i giornali, anche nella politica.
Il molto napoletano De Magistris, in esilio da una vita a Catanzaro, voleva il trasferimento a Napoli. E Mancino, fingendo di punirlo, lo ha accontentato. Ma c’era bisogno, per farsi così punire, di trovare Prodi e Mastella massoni a San Marino, insieme con una buona metà dei giudici lucani?
La Rai prende sul serio un giornaletto scandalistico Usa che vuole i Bush al divorzio e lui fidanzato di Condoleezza Rice. Solo la Rai: i suoi notiziari ripetono a raffica la “notizia”.
Ma la Rai non è il vero Pd, bianco-rosso? Che amerikano è dunque Veltroni?
sabato 16 agosto 2008
Secondi pensieri (16)
zeulig
Avarizia – È del cuore, certo, non della testa. E si applica alle cose del cuore, non agli interessi materiali – la cura degli interessi non è avara, il vizio sta nel preporre le cose a ogni passione.
È l’esclusione della passione: l’amore, l’amicizia, la compassione.
Coscienza – È titolo del Novecento italiano, la coscienza di uno straniero. E flusso dei romanzi europei dello stesso secolo. Ma non è recente, è latina, creata da Cicerone per calco dal greco suneìdesis, che però vuol dire capire insieme, imparare insieme. Nel greco antico la coscienza non c’è, Cicerone la preparava per il cristianesimo, con la questione tuttora insoluta dell’anima. E fu ottima cosa. Inoltre c’è una graduazione della coscienza, insegna Schopenhauer, dal polipo all’uomo - e filosoficamente, è da supporre, bisogna sapere cos’è polipo.
È che la coscienza ha ora il compito di spiegare l’inconscio ma la missione è impossibile, essendo le due realtà forse parenti ma nemiche. Di più se si ha la revulsione della storia, per l’uso di vivere, o sopravvivere, istante per istante, per inclinazione e riflessione. O per essere perfettamente storicizzati: senza residui, intellettuali o romantici. Nudi, e quindi in certo senso inermi, ma come lo sono le statue, inattaccabili. E più per avere l’occhio di lince. Che può essere una condanna: spogliare le persone. Spogliarle materialmente, le donne soprattutto, vedere attraverso il trucco, i vestiti, le sottovesti, anche le donne svestite dopo Mary Quant, che ha semplificato la penetrazione, e anche gli uomini, attraverso le sofisticherie – gli uomini sono in quello che dicono. Tutto ciò che invece fa la nobiltà del signor Kent di Superman.
Tolstòj spregiava la coscienza, e anche Hitler, che ne imputò l’invenzione agli ebrei. Già Hobbes la teneva in sospetto: “Coscienza, secondo il modo in cui abitualmente gli uomini usano la parola, significa un’opinione, non tanto circa la verità della proposizione quanto della loro conoscenza di essa, alla qual cosa la verità della proposizione è conseguente”. Quindi, se io non conosco Del Piero, la verità della proposizione, e ascolto al bar i fautori di Totti, magari mi convinco che il bomber è un brocco. La certezza si combatte con l’incertezza, o con un’altra certezza? E l’incertezza?
A noi non ci spaventa il brutto, ma semmai quest’uso democratico, piccolo borghese, del doppio dativo, che poi è buonissima grammatica spagnola. Del resto la coscienza, coi rimorsi e tutto, ce l’hanno i buoni, ai quali non sarebbe necessaria. Gli altri non hanno coscienza. E dunque la coscienza, che Hegel mette con Dio o spirito del mondo, è invenzione del diavolo, se umilia i buoni.
Non è l’automatismo, la sciocchezza che occupa la scena, non ultimo torto del dottor Freud. Prendere per buono il flusso di coscienza, come se non fosse una tecnica espressiva ma la verità, il modo di emergere della verità. Quando si sa, chiunque ha scritto due righe lo sa, che l’associazione libera va in mille direzioni, comprese quelle in cui non va. Ogni memoria e ogni espressione essendo un sistema di equazioni a più variabili, nessuna delle quali è risolutiva, neppure per caso – per caso nella migliore delle ipotesi, perché più spesso la libertà d’associazione è determinata dalle situazioni, dagli interlocutori, dagli umori, dalle stesse regole del gioco. Le coscienze, per quanto libere, automatiche, fluenti, sono casuali e solo per se stesse significative. Come una barzelletta, un’ottava rima, un coro allo stadio. In quanto sintomo sono parziali, e più volentieri fuorvianti.
Si vede che una buona evacuazione è gratificazione grande, se Freud è santo popolare, incontestato. Ma la coscienza – riflessione, scrittura – è un fiume, che è sempre diverso, il tempo è ciò che si trasforma e si moltiplica, spiega Meister Eckhart, semplice è l’eternità.
Crisi – All’economia è connaturata: nella teoria del ciclo, nel marginalismo, in quello che resta di Marx, in Keynes, tutto Keynes è pensato in rapporto alla crisi. È sempre deficitaria rispetto ai bisogni, che sono come la felicità, inesauribili. Ma anche rispetto all’economia dei consumi. E alla semplice sopravvivenza. Si può dire un modo di essere. E una forma ontologica della conoscenza hegeliana, l’antitesi che sempre impone nuove realtà.
La cultura della crisi, o della fine del mondo, è altro. È la mancanza del conforto della vita dopo la morte. Di uno scetticismo che ha travalicato dall’irreligiosità alla storia. All’abolizione della memoria.
Non è l’anno Mille, allora era paura, ora è un desiderio, sia pure perverso. Non sappiamo se moriremo di siccità o di diluvio, ma vogliamo morire. Come, è vero, dobbiamo. Ma vogliamo anche che tutti muoiano, come invece non dovremmo.
Lo scetticismo si può intendere anche come scongiuro e prevenzione. Ma solo in ipotesi: il catastrofismo è fungibile, se non è questo è quello. Un democraticismo estremo, forse, esteso dalle forme di vita all’apprendimento, anche nelle forme elementari del ricordo. Data – storicamente – dal Novecento (Nietzsche, la lettura di Nietzsche, è del Novecento), che è il secolo dell’apoteosi e il suicidio dell’Europa.
Giornale - L’arte della stampa è economia di attenzione. Si scrive anche come si legge, soprappensiero: i giornali hanno un padrone e nessuno è mai morto per un capitalista. E invece è ricco e potente, in un suo modo.
“È bello scrivere ciò che si pensa, è il privilegio dell’uomo”, spiega il nobile veneziano Pococurante nel “Candido”, anche se “nella nostra Italia non si scrive che ciò che non si pensa”. O nel senso che Necker, lo svizzero che portò la Francia alla Rivoluzione, dava all’opinione pubblica, quale “potere invisibile, che senza ricchezza, senza protezioni, senza eserciti può imporre le leggi alla città, alla corte e fin nel palazzo del Re”. Con limiti, poiché vuole e dà ricchezza e protezioni. Del resto il giornale è aspirazione collettiva, dacché, per dirla con Joyce, “il Rinascimento ha messo il giornalista nella cattedra del monaco”.
Scrivere – È portare al presente il passato, incluso l’inesistente. E al passato il presente, inesistente incluso. La storia, purtroppo, si scrive.
È la fissazione di una relazione, perfino di più relazioni, con tutti, con chiunque. Dice Stevenson che si scrive per i propri amici. Sembra modestia, ma bisogna avere amici. Altrimenti si scrive per se stessi. E ancora: con indulgenza. Cos’è l’eternità dell’uomo, questo quid di aspirazioni che lo distingue dal resto compatto della natura, se non un caso di insiemi? Non si è eterni per sé soli. Questo sono, erano, le pasquinate e le rivoltellate, uno scambio spensierato.
C’è nella scrittura, nella buona scrittura, qualcosa di più del percepito e dell’espresso, o del vissuto. Freud e Heidegger, e Nietzsche, Kant, eccetera, o Stendhal e Schopenhauer, e Platone, Rousseau, eccetera, scrittori dotati, sono molto più dei loro filosofemi, delle loro modeste biografie, la sapienza è solo letteratura – solo letteratura? Straordinario potere ha la scrittura, se consente di passare sopra all’immagine deteriore che gli scrittori ne danno. Pallidi, acidi, gobbi, sempre in posa, le labbra serrate, la palpebra scesa, le spalle curve, i denti gialli, il collo incassato, l’occhio spento. Incattiviti nei ricordi, incollati alle minute indigenze dell’editoria e della pubblicistica, i dispetti, i favori, gli amori sempre falsi, favoleggiando di guadagni inesistenti, di giudizio svagato sugli eventi storici, personali o politici, sempre sbagliato, fuori della realtà – senza reale interesse o curiosità. Rifiuti umani talvolta, cariati, che sanno di chiuso, inarticolati spesso, sempre senza entusiasmo. La scrittura è incantesimo, che cancella queste miserie. Di grandezza incomparabile, poiché la misura un fascino sterminato. Ciò può essere fonte di meraviglia, o paura. Ma è esaltante: dà la misura del potenziale umano, della realtà dell’uomo. A meno che leggere non sia un esercizio masochistico.
Scrivere è riscrivere, opera infinita. Una sedia a un certo punto è finita. Anche a una statua o a una pittura a un certo punto non si può più mettere mano. Il pittore lavora “per via di porre”, dice Leonardo, lo scultore “per via di levare”, ma a un certo punto non più. A una poesia o a un racconto invece sì: c’è chi leva e chi pone, e chi pone levando, chi accumula fatti e chi sensazioni, e ogni volta la forma cambia, e la narrazione stessa. È opera necessariamente incompleta. Nicèforo Gregoras, che rielaborava sull’attualità le sue opere, comprese le lettere, è ingiustamente deriso dai bizantinologi. Arbasino ha già rifatto due volte le mille pagine dei “Fratelli d’Italia”, e le vorrebbe rifare. Giustamente, poiché sa leggere l’epoca. Ma più si scrive e più si scrive. Husserl, morendo a settantasette anni, ha lasciato 44 mila pagine autografe inedite – che un francescano è riuscito a sottrarre al fuoco nazista, nascondendole a Lovanio. Se voleva pubblicare qualcosa lo riscriveva tutto di nuovo, perpetuo debuttante.
zeulig@gmail.com
Avarizia – È del cuore, certo, non della testa. E si applica alle cose del cuore, non agli interessi materiali – la cura degli interessi non è avara, il vizio sta nel preporre le cose a ogni passione.
È l’esclusione della passione: l’amore, l’amicizia, la compassione.
Coscienza – È titolo del Novecento italiano, la coscienza di uno straniero. E flusso dei romanzi europei dello stesso secolo. Ma non è recente, è latina, creata da Cicerone per calco dal greco suneìdesis, che però vuol dire capire insieme, imparare insieme. Nel greco antico la coscienza non c’è, Cicerone la preparava per il cristianesimo, con la questione tuttora insoluta dell’anima. E fu ottima cosa. Inoltre c’è una graduazione della coscienza, insegna Schopenhauer, dal polipo all’uomo - e filosoficamente, è da supporre, bisogna sapere cos’è polipo.
È che la coscienza ha ora il compito di spiegare l’inconscio ma la missione è impossibile, essendo le due realtà forse parenti ma nemiche. Di più se si ha la revulsione della storia, per l’uso di vivere, o sopravvivere, istante per istante, per inclinazione e riflessione. O per essere perfettamente storicizzati: senza residui, intellettuali o romantici. Nudi, e quindi in certo senso inermi, ma come lo sono le statue, inattaccabili. E più per avere l’occhio di lince. Che può essere una condanna: spogliare le persone. Spogliarle materialmente, le donne soprattutto, vedere attraverso il trucco, i vestiti, le sottovesti, anche le donne svestite dopo Mary Quant, che ha semplificato la penetrazione, e anche gli uomini, attraverso le sofisticherie – gli uomini sono in quello che dicono. Tutto ciò che invece fa la nobiltà del signor Kent di Superman.
Tolstòj spregiava la coscienza, e anche Hitler, che ne imputò l’invenzione agli ebrei. Già Hobbes la teneva in sospetto: “Coscienza, secondo il modo in cui abitualmente gli uomini usano la parola, significa un’opinione, non tanto circa la verità della proposizione quanto della loro conoscenza di essa, alla qual cosa la verità della proposizione è conseguente”. Quindi, se io non conosco Del Piero, la verità della proposizione, e ascolto al bar i fautori di Totti, magari mi convinco che il bomber è un brocco. La certezza si combatte con l’incertezza, o con un’altra certezza? E l’incertezza?
A noi non ci spaventa il brutto, ma semmai quest’uso democratico, piccolo borghese, del doppio dativo, che poi è buonissima grammatica spagnola. Del resto la coscienza, coi rimorsi e tutto, ce l’hanno i buoni, ai quali non sarebbe necessaria. Gli altri non hanno coscienza. E dunque la coscienza, che Hegel mette con Dio o spirito del mondo, è invenzione del diavolo, se umilia i buoni.
Non è l’automatismo, la sciocchezza che occupa la scena, non ultimo torto del dottor Freud. Prendere per buono il flusso di coscienza, come se non fosse una tecnica espressiva ma la verità, il modo di emergere della verità. Quando si sa, chiunque ha scritto due righe lo sa, che l’associazione libera va in mille direzioni, comprese quelle in cui non va. Ogni memoria e ogni espressione essendo un sistema di equazioni a più variabili, nessuna delle quali è risolutiva, neppure per caso – per caso nella migliore delle ipotesi, perché più spesso la libertà d’associazione è determinata dalle situazioni, dagli interlocutori, dagli umori, dalle stesse regole del gioco. Le coscienze, per quanto libere, automatiche, fluenti, sono casuali e solo per se stesse significative. Come una barzelletta, un’ottava rima, un coro allo stadio. In quanto sintomo sono parziali, e più volentieri fuorvianti.
Si vede che una buona evacuazione è gratificazione grande, se Freud è santo popolare, incontestato. Ma la coscienza – riflessione, scrittura – è un fiume, che è sempre diverso, il tempo è ciò che si trasforma e si moltiplica, spiega Meister Eckhart, semplice è l’eternità.
Crisi – All’economia è connaturata: nella teoria del ciclo, nel marginalismo, in quello che resta di Marx, in Keynes, tutto Keynes è pensato in rapporto alla crisi. È sempre deficitaria rispetto ai bisogni, che sono come la felicità, inesauribili. Ma anche rispetto all’economia dei consumi. E alla semplice sopravvivenza. Si può dire un modo di essere. E una forma ontologica della conoscenza hegeliana, l’antitesi che sempre impone nuove realtà.
La cultura della crisi, o della fine del mondo, è altro. È la mancanza del conforto della vita dopo la morte. Di uno scetticismo che ha travalicato dall’irreligiosità alla storia. All’abolizione della memoria.
Non è l’anno Mille, allora era paura, ora è un desiderio, sia pure perverso. Non sappiamo se moriremo di siccità o di diluvio, ma vogliamo morire. Come, è vero, dobbiamo. Ma vogliamo anche che tutti muoiano, come invece non dovremmo.
Lo scetticismo si può intendere anche come scongiuro e prevenzione. Ma solo in ipotesi: il catastrofismo è fungibile, se non è questo è quello. Un democraticismo estremo, forse, esteso dalle forme di vita all’apprendimento, anche nelle forme elementari del ricordo. Data – storicamente – dal Novecento (Nietzsche, la lettura di Nietzsche, è del Novecento), che è il secolo dell’apoteosi e il suicidio dell’Europa.
Giornale - L’arte della stampa è economia di attenzione. Si scrive anche come si legge, soprappensiero: i giornali hanno un padrone e nessuno è mai morto per un capitalista. E invece è ricco e potente, in un suo modo.
“È bello scrivere ciò che si pensa, è il privilegio dell’uomo”, spiega il nobile veneziano Pococurante nel “Candido”, anche se “nella nostra Italia non si scrive che ciò che non si pensa”. O nel senso che Necker, lo svizzero che portò la Francia alla Rivoluzione, dava all’opinione pubblica, quale “potere invisibile, che senza ricchezza, senza protezioni, senza eserciti può imporre le leggi alla città, alla corte e fin nel palazzo del Re”. Con limiti, poiché vuole e dà ricchezza e protezioni. Del resto il giornale è aspirazione collettiva, dacché, per dirla con Joyce, “il Rinascimento ha messo il giornalista nella cattedra del monaco”.
Scrivere – È portare al presente il passato, incluso l’inesistente. E al passato il presente, inesistente incluso. La storia, purtroppo, si scrive.
È la fissazione di una relazione, perfino di più relazioni, con tutti, con chiunque. Dice Stevenson che si scrive per i propri amici. Sembra modestia, ma bisogna avere amici. Altrimenti si scrive per se stessi. E ancora: con indulgenza. Cos’è l’eternità dell’uomo, questo quid di aspirazioni che lo distingue dal resto compatto della natura, se non un caso di insiemi? Non si è eterni per sé soli. Questo sono, erano, le pasquinate e le rivoltellate, uno scambio spensierato.
C’è nella scrittura, nella buona scrittura, qualcosa di più del percepito e dell’espresso, o del vissuto. Freud e Heidegger, e Nietzsche, Kant, eccetera, o Stendhal e Schopenhauer, e Platone, Rousseau, eccetera, scrittori dotati, sono molto più dei loro filosofemi, delle loro modeste biografie, la sapienza è solo letteratura – solo letteratura? Straordinario potere ha la scrittura, se consente di passare sopra all’immagine deteriore che gli scrittori ne danno. Pallidi, acidi, gobbi, sempre in posa, le labbra serrate, la palpebra scesa, le spalle curve, i denti gialli, il collo incassato, l’occhio spento. Incattiviti nei ricordi, incollati alle minute indigenze dell’editoria e della pubblicistica, i dispetti, i favori, gli amori sempre falsi, favoleggiando di guadagni inesistenti, di giudizio svagato sugli eventi storici, personali o politici, sempre sbagliato, fuori della realtà – senza reale interesse o curiosità. Rifiuti umani talvolta, cariati, che sanno di chiuso, inarticolati spesso, sempre senza entusiasmo. La scrittura è incantesimo, che cancella queste miserie. Di grandezza incomparabile, poiché la misura un fascino sterminato. Ciò può essere fonte di meraviglia, o paura. Ma è esaltante: dà la misura del potenziale umano, della realtà dell’uomo. A meno che leggere non sia un esercizio masochistico.
Scrivere è riscrivere, opera infinita. Una sedia a un certo punto è finita. Anche a una statua o a una pittura a un certo punto non si può più mettere mano. Il pittore lavora “per via di porre”, dice Leonardo, lo scultore “per via di levare”, ma a un certo punto non più. A una poesia o a un racconto invece sì: c’è chi leva e chi pone, e chi pone levando, chi accumula fatti e chi sensazioni, e ogni volta la forma cambia, e la narrazione stessa. È opera necessariamente incompleta. Nicèforo Gregoras, che rielaborava sull’attualità le sue opere, comprese le lettere, è ingiustamente deriso dai bizantinologi. Arbasino ha già rifatto due volte le mille pagine dei “Fratelli d’Italia”, e le vorrebbe rifare. Giustamente, poiché sa leggere l’epoca. Ma più si scrive e più si scrive. Husserl, morendo a settantasette anni, ha lasciato 44 mila pagine autografe inedite – che un francescano è riuscito a sottrarre al fuoco nazista, nascondendole a Lovanio. Se voleva pubblicare qualcosa lo riscriveva tutto di nuovo, perpetuo debuttante.
zeulig@gmail.com
giovedì 14 agosto 2008
Bush in Georgia in cerca di sberle
I morti sono georgiani, e i profughi, ma le sberle le hanno prese Bush e Saakashvili – che, certo, è georgiano anche lui, fino al prossimo esilio. A una settimana dalla guerra della Georgia alla Russia, nientemeno, si resta senza parole di fronte a tanta stupidità politica. Di Saakashvili, e di Washington, che considera la Georgia un suo lontano cinquantunesimo stato. I georgiani che preparavano l’attacco all’Ossezia con le armi e la protezione americana. I russi, che sapevano della preparazione, e hanno reagito pronti, avevavno già discretamente mobilitato, dall’aria e da terra, chiudendo la partita in quarantotto ore. E ora Bush che vorrebbe l’Europa a impegnare uomini e capitali per difendere la Georgia. Da che? Dal prossimo attacco all’Ossezia? La Farnesina ancora si congratula con se stessa per avere evitato che Frattini partecipasse alla solerte riunione dei ministri degli Esteri europei. L’amicone Berlusconi avrà fatto capire a Bush che c’è un limite alla svagataggine?
Ancora più sorprendente è che l’attacco georgiano sia stato programmato in coincidenza con l’apertura dell’Olimpiade. Col risultato di sfocare ogni critica alla Cina per il regime politico totalitario. Razionalizzando, è come se Bush, che ha gratificato Pechino della sua augusta presenza, abbia voluto fare ai suoi ospiti anche questo regalo. Ma non c’è logica. C’è solo Bush nel pallone, con la sua amministrazione. La megapotenza mondiale che va alla cieca, bisognava vedere anche questa. Nel futuro prossimo, quando la Cina presenterà all’America il conto politico della globalizzazione, a Taiwan e altrove, la Russia sarà l’unico baluardo per gli Stati Uniti, e l’Europa. Volendo razionalizzare.
Ancora più sorprendente è che l’attacco georgiano sia stato programmato in coincidenza con l’apertura dell’Olimpiade. Col risultato di sfocare ogni critica alla Cina per il regime politico totalitario. Razionalizzando, è come se Bush, che ha gratificato Pechino della sua augusta presenza, abbia voluto fare ai suoi ospiti anche questo regalo. Ma non c’è logica. C’è solo Bush nel pallone, con la sua amministrazione. La megapotenza mondiale che va alla cieca, bisognava vedere anche questa. Nel futuro prossimo, quando la Cina presenterà all’America il conto politico della globalizzazione, a Taiwan e altrove, la Russia sarà l’unico baluardo per gli Stati Uniti, e l’Europa. Volendo razionalizzare.
Riparmiateci i prefetti
Un prefetto di Roma che vuole proteggere i rom contro quel fascistone di Alemanno, alla pari di “Famiglia Cristiana”, li vuole sciuscià. Non è il massimo. Anzi, è un obbrobrio: uno si chiede come ci sia arrivato, a prefetto di Roma. Ma questo è il problema dei prefetti – come si diventa prefetti di Roma? Il problema nostro è che questi prefetti, che una volta erano fascisti, si è sempre detto che l’istituzione prefettizia era centralista e fascista, da qualche tempo sono progressisti e anzi molto di sinistra. Fino al recupero dell’ex prefetto Serra, che originariamente si era schierato come doveva con la destra, e al candidato a sindaco di Milano. Milano, la capitale morale d’Italia, non ha trovato altro candidato progressista a sindaco che il suo ex prefetto, per giunta non milanese. Il problema si pone anche per dare certezze a "Famiglia Cristiana", nella sue recente incarnazione antifascista: non vorremo mandarla a braccetto coi prefetti?
Dov’è finita la politica è un problema ormai vecchio, a sinistra. Tra giudici felloni o carrieristi, generali, carceri, manette. Ora si aggiungono i prefetti, che non hanno nemmeno la protezione sovrana del Csm. Di che cosa ha paura questa sinistra? Perché non si fa una bella lavata di coscienza, o non si mette da parte? Le banche e i giornali (delle banche) la tengono su, ma come un punching ball, per beccarle.
Dov’è finita la politica è un problema ormai vecchio, a sinistra. Tra giudici felloni o carrieristi, generali, carceri, manette. Ora si aggiungono i prefetti, che non hanno nemmeno la protezione sovrana del Csm. Di che cosa ha paura questa sinistra? Perché non si fa una bella lavata di coscienza, o non si mette da parte? Le banche e i giornali (delle banche) la tengono su, ma come un punching ball, per beccarle.
Anna Banti: tanti critici senza autore
Illeggibile.
Il romanzo della scrittrice fiorentina, moglie di Roberto Longhi, direttrice di “Paragone”, vanta una corona critica impressionante, più volte ribadita: Bassani, Cecchi, Contini, Bo, Garboli, Pampaloni, Citati, De Robertis, Baldacci, Niccolò Gallo. Ma è illeggibile. L’“intattezza violata”, “a Pitti stridono le cicale umane”, com’è (stato) possibile?
Anna Banti, Artemisia
Il romanzo della scrittrice fiorentina, moglie di Roberto Longhi, direttrice di “Paragone”, vanta una corona critica impressionante, più volte ribadita: Bassani, Cecchi, Contini, Bo, Garboli, Pampaloni, Citati, De Robertis, Baldacci, Niccolò Gallo. Ma è illeggibile. L’“intattezza violata”, “a Pitti stridono le cicale umane”, com’è (stato) possibile?
Anna Banti, Artemisia
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (21)
Giuseppe Leuzzi
I Gava, padroni di Napoli del dopoguerra, erano veneti.
Anche a Palermo, i padroni sono stati nel secondo Novecento veneti: veneto Cassina, il primo appaltatore, veneto il cardinale Ruffini, veneto il senatore Verzotto.
È veneto, prima che meridionale, l’intreccio di politica e affari. È stato toscano, piemontese, e ora e milanese.
“Sudismi\sadismi” è il discorso sul Sud. Sulla mafia, la corruzione, l’inefficienza. Che è ormai a occhio, non c’è bisogno di bilancia, molto più pesante e oneroso dei fenomeni che denuncia.
A opera più spesso di gente del Sud. È il segno della servitù, avere introiettato il discorso sul Sud. L’unità è stata certamente deteriore in questo senso, sancendo l’inferiorità culturale e morale del Sud. Con che titoli?
Sudismi\sadismi. “Il Quotidiano di Calabria” pubblica sabato le intercettazioni ambientali dei Piromalli vs. Molé nella loro recente faida. Della miseria morale in cui vivono e si confrontano, assassinandosi per le strade, le due famiglie mafiose di Gioia Tauro. Domenica un articolo di Eva Catizone, ex responsabile del Pci-Pds a Cosenza, in cui i Piromalli e i Molè banditi di strada indossano “tailleurs o blazer manageriali, studiano le lingue e leggono i libri”. E dominano il Porto di Gioia Tauro. Che è la maggiore realtà industriale di tutto il Mediterraneo, del Nord e del Sud. Un articolo assurdo, che si vuole ostile ed è un monumento: i mafiosi catizoniani hanno sempre dominato il Porto, anche prima di imparare le lingue, e ora scrivono “una nuova, per certi versi ignota, storia letteraria”.
Tanti Tauri in Calabria, le tombe di Otranto, un’Eraclea Minoa e altre pietre resistenti a Augusta in Sicilia, bisognerà pure fare la storia dei micenei prima della Magna Grecia. A Roca Vecchia sotto il famoso san Foca, il martire giardiniere patrono dei marinai, si vede che i micenei erano in Italia settecento anni prima della prima colonia della storia greca ora in disarmo, avendovi lasciato le loro imitazioni povere delle piramidi. A Otranto, vecchia Idrusa, il signor De Donno ne ha alcune nel suo campo di Torre Pinta, dove fa trattoria.
I micenei, gente che vagava per i mari, al tempo degli egiziani e dei medi persiani. Prima di sprofondare, da Creta e da ogni altra presenza in terraferma, col gigantesco krakatoa che inghiottì Santorini. Presto mitizzati, l’ingegner Dedalo e il figlio Icaro, l’accondiscendente Pasifae moglie del re Minosse, la gentile Arianna, e i tori onnipotenti. Si potrà sempre dire: ecco da dove viene il machismo del Sud.
Si dice Turchia ma di fatto è un mondo greco, bizantino, sottomesso quindici secoli fa da alcune tribù turche del centro Asia. I turchi l’hanno islamizzata, ma la popolazione restò sotto di loro “fissata” al momento della conquista, senza più mescolanza col resto del bacino mediterraneo, nelle forme somatiche e mentali (espressive) del tempo. È così che molte fisionomie e parlate mute, nel Salento, in Calabria e in Sicilia sono inequivocabilmente “turche”.
Il pino calabrese è quello siriano, che si ritrova sulle coste turche.
Il discorso sulla mafia
C’è la mafia, e c’è il discorso sulla mafia. C’è gente che si ammazza e ammazza, e impone servitù e vincoli. E c’è chi questa violenza studia, approfondisce, spiega, facendone ragione di vita. È un impegno nobile, anche quando è un’attività per vivere, a volte perfino lucrosa (le pubblicazioni, i convegni, le commissioni). Ma quando non risolve il problema, quando si perpetua col problema, il discorso sulla mafia, che da alcuni decenni prende l’ottanta per cento del discorso e del Sud, è altrettanto insidioso.
L’antimafia non è mafia naturalmente, ma è come se, anch’essa micidiale. Lo diventa, perpetuandosi, perché il suo discorso trascende, per slittamenti minimi ma significativi, verso l’annichilamento delle società che delle mafie sono le vittime. Attraverso gli stessi studi talvolta, più spesso nell’attività inquirente e normativa, parlamentare, e soprattutto attraverso l’opinione pubblica, i media. I dibattiti, le tavole rotonde, i talk show, specie in tv, hanno un forte potere dissolvente sulle vittime, e finiscono per magnificare l’oggetto della loro critica. Mentre sugli onesti, che pure delle mafie sono le vittime, scende il sospetto (omertà, connivenza, cultura), il pregiudizio giudiziario (e quindi l’ingiustizia), lo scoramento.
Il discorso infinito sulla mafia diventa una camicia di forza e un morbo contagioso, una sorta di epidemia, lenta più spesso che acuta, ma pestifera. Gli effetti depressivi sono visibili nella Pubblica Amministrazione, compresi i giudici e le forze dell’ordine, gli operatori economici, le famiglie, che si parli di formazione, di prospettive, di mera sopravvivenza. Uno che vive al Sud deve sopravvivere alle mafie e, più, al discorso sulla mafia.
Ci sono grandi giornali che hanno giornalisti specializzati unicamente a dire male del Sud.
Provenzano e altri “scrittori” mafiosi tengono in altissima considerazione i mugwump delle televisioni, alla pari dei divi del cinema, di Dante, di Manzoni, di Benedetto Croce, dei grandissimi della storia e della letteratura.
Milano Ortese, “Silenzio a Milano”, 78: “Città industriale e medievale insieme, affarista e ascetica, spregiudicata e prudentissima, che ovunque sospetta un’infrazione alle regole, all’ordine”. Ortese, “Silenzio a Milano”
Tornano d’agosto gli emigranti in Australia o Canada con vestiti sobri, talvolta in autobus, dopo aver fatto il viaggio da Roma in treno, per risparmiare. Tornano invece gli emigranti in Lombardia in fuoristrada o Mercedes Slk. Sono più ricchi? Forse il fuoristrada o la Mercedes sono di seconda mano, anche se bisogna comunque pagarne l’assicurazione e il carburante. Ma non è questo il punto. È che gli emigranti assimilano la cultura del paese che li ospita. Che può essere risparmiosa, e osservante delle leggi, come nei paesi anglosassoni, oppure sbruffona. Si vedono persone in fuoristrada o Slk uscire da tuguri.
Se l’economia nera venisse in chiaro le differenze di reddito di assottiglierebbero. Quelle di cultura, invece, purtroppo no: il Sud è piagnone, anche contro se stesso.
Si parlano tre lingue sotto l’ombrellone accanto, in un angolo dell’infinita spiaggia calabrese. Una accentua la cadenza lombarda, una parla romanesco di borgata, ma con piglio, senza lo strascico, lui il suo dialetto stretto, accentuato, inframmezzato di bestemmie. Perché lui è un uomo. In realtà parlano lo stesso linguaggio, anche se lui sicuramente non lavora e le ragazze sicuramente sì: quello della relativa ricchezza che però non dà sicurezza, non dà carattere. È il destino di tutti, una sorta di emigrazione interiore, quelli che mancano di un punto di riferimento territoriale, una cultura d’origine.
Leonzio Pilato insegna greco a Petrarca e Boccaccio. Nasce a Seminara nel 1316. Affidato all’igumeno Niceforo, ex primate di Bisanzio, incontra nel convento di San Filarete a Seminara Barlaam, un monaco che sarà diplomatico del papa a Bisanzio per la riunificazione delle chiese. Nel 1334 incontra Boccaccio giovane a Napoli. Contattato da Petrarca a Padova il 5 dicembre 1358, ne viene respinto: il poeta non gradisce la traduzione alla lettera, e inoltre è per la supremazia latina. Decide nel 1360 di trasferirisi a Avignone, dal vescovo di Armagh, Richard Fitzralph, che apprezza la cultura greca. Ma viene intercettato a Venezia da Boccaccio e insieme vanno a Firenze.
Leonzio Pilato tradusse Iliade e Odissea a Firenze, a uso di Boccaccio, in meno di un anno, dal greco al latino. Anche se dovette lavorare su un codice in onciale, grafia che gli pose grossi problemi per la traduzione interlineare.
Sicilia, “l’isola del degrado”. Non ci sono che i siciliani per parlare male della Sicilia. Se ci fosse la pena di morte la Sicilia deterrebbe di certo il record mondiale delle esecuzioni. Più della Cina, che pure ha una popolazione duecento volte superiore: i siciliani sono spietati con se stessi. Hanno mai visto la riviera ligure? O l’edilizia in valle d’Aosta?
I Gava, padroni di Napoli del dopoguerra, erano veneti.
Anche a Palermo, i padroni sono stati nel secondo Novecento veneti: veneto Cassina, il primo appaltatore, veneto il cardinale Ruffini, veneto il senatore Verzotto.
È veneto, prima che meridionale, l’intreccio di politica e affari. È stato toscano, piemontese, e ora e milanese.
“Sudismi\sadismi” è il discorso sul Sud. Sulla mafia, la corruzione, l’inefficienza. Che è ormai a occhio, non c’è bisogno di bilancia, molto più pesante e oneroso dei fenomeni che denuncia.
A opera più spesso di gente del Sud. È il segno della servitù, avere introiettato il discorso sul Sud. L’unità è stata certamente deteriore in questo senso, sancendo l’inferiorità culturale e morale del Sud. Con che titoli?
Sudismi\sadismi. “Il Quotidiano di Calabria” pubblica sabato le intercettazioni ambientali dei Piromalli vs. Molé nella loro recente faida. Della miseria morale in cui vivono e si confrontano, assassinandosi per le strade, le due famiglie mafiose di Gioia Tauro. Domenica un articolo di Eva Catizone, ex responsabile del Pci-Pds a Cosenza, in cui i Piromalli e i Molè banditi di strada indossano “tailleurs o blazer manageriali, studiano le lingue e leggono i libri”. E dominano il Porto di Gioia Tauro. Che è la maggiore realtà industriale di tutto il Mediterraneo, del Nord e del Sud. Un articolo assurdo, che si vuole ostile ed è un monumento: i mafiosi catizoniani hanno sempre dominato il Porto, anche prima di imparare le lingue, e ora scrivono “una nuova, per certi versi ignota, storia letteraria”.
Tanti Tauri in Calabria, le tombe di Otranto, un’Eraclea Minoa e altre pietre resistenti a Augusta in Sicilia, bisognerà pure fare la storia dei micenei prima della Magna Grecia. A Roca Vecchia sotto il famoso san Foca, il martire giardiniere patrono dei marinai, si vede che i micenei erano in Italia settecento anni prima della prima colonia della storia greca ora in disarmo, avendovi lasciato le loro imitazioni povere delle piramidi. A Otranto, vecchia Idrusa, il signor De Donno ne ha alcune nel suo campo di Torre Pinta, dove fa trattoria.
I micenei, gente che vagava per i mari, al tempo degli egiziani e dei medi persiani. Prima di sprofondare, da Creta e da ogni altra presenza in terraferma, col gigantesco krakatoa che inghiottì Santorini. Presto mitizzati, l’ingegner Dedalo e il figlio Icaro, l’accondiscendente Pasifae moglie del re Minosse, la gentile Arianna, e i tori onnipotenti. Si potrà sempre dire: ecco da dove viene il machismo del Sud.
Si dice Turchia ma di fatto è un mondo greco, bizantino, sottomesso quindici secoli fa da alcune tribù turche del centro Asia. I turchi l’hanno islamizzata, ma la popolazione restò sotto di loro “fissata” al momento della conquista, senza più mescolanza col resto del bacino mediterraneo, nelle forme somatiche e mentali (espressive) del tempo. È così che molte fisionomie e parlate mute, nel Salento, in Calabria e in Sicilia sono inequivocabilmente “turche”.
Il pino calabrese è quello siriano, che si ritrova sulle coste turche.
Il discorso sulla mafia
C’è la mafia, e c’è il discorso sulla mafia. C’è gente che si ammazza e ammazza, e impone servitù e vincoli. E c’è chi questa violenza studia, approfondisce, spiega, facendone ragione di vita. È un impegno nobile, anche quando è un’attività per vivere, a volte perfino lucrosa (le pubblicazioni, i convegni, le commissioni). Ma quando non risolve il problema, quando si perpetua col problema, il discorso sulla mafia, che da alcuni decenni prende l’ottanta per cento del discorso e del Sud, è altrettanto insidioso.
L’antimafia non è mafia naturalmente, ma è come se, anch’essa micidiale. Lo diventa, perpetuandosi, perché il suo discorso trascende, per slittamenti minimi ma significativi, verso l’annichilamento delle società che delle mafie sono le vittime. Attraverso gli stessi studi talvolta, più spesso nell’attività inquirente e normativa, parlamentare, e soprattutto attraverso l’opinione pubblica, i media. I dibattiti, le tavole rotonde, i talk show, specie in tv, hanno un forte potere dissolvente sulle vittime, e finiscono per magnificare l’oggetto della loro critica. Mentre sugli onesti, che pure delle mafie sono le vittime, scende il sospetto (omertà, connivenza, cultura), il pregiudizio giudiziario (e quindi l’ingiustizia), lo scoramento.
Il discorso infinito sulla mafia diventa una camicia di forza e un morbo contagioso, una sorta di epidemia, lenta più spesso che acuta, ma pestifera. Gli effetti depressivi sono visibili nella Pubblica Amministrazione, compresi i giudici e le forze dell’ordine, gli operatori economici, le famiglie, che si parli di formazione, di prospettive, di mera sopravvivenza. Uno che vive al Sud deve sopravvivere alle mafie e, più, al discorso sulla mafia.
Ci sono grandi giornali che hanno giornalisti specializzati unicamente a dire male del Sud.
Provenzano e altri “scrittori” mafiosi tengono in altissima considerazione i mugwump delle televisioni, alla pari dei divi del cinema, di Dante, di Manzoni, di Benedetto Croce, dei grandissimi della storia e della letteratura.
Milano Ortese, “Silenzio a Milano”, 78: “Città industriale e medievale insieme, affarista e ascetica, spregiudicata e prudentissima, che ovunque sospetta un’infrazione alle regole, all’ordine”. Ortese, “Silenzio a Milano”
Tornano d’agosto gli emigranti in Australia o Canada con vestiti sobri, talvolta in autobus, dopo aver fatto il viaggio da Roma in treno, per risparmiare. Tornano invece gli emigranti in Lombardia in fuoristrada o Mercedes Slk. Sono più ricchi? Forse il fuoristrada o la Mercedes sono di seconda mano, anche se bisogna comunque pagarne l’assicurazione e il carburante. Ma non è questo il punto. È che gli emigranti assimilano la cultura del paese che li ospita. Che può essere risparmiosa, e osservante delle leggi, come nei paesi anglosassoni, oppure sbruffona. Si vedono persone in fuoristrada o Slk uscire da tuguri.
Se l’economia nera venisse in chiaro le differenze di reddito di assottiglierebbero. Quelle di cultura, invece, purtroppo no: il Sud è piagnone, anche contro se stesso.
Si parlano tre lingue sotto l’ombrellone accanto, in un angolo dell’infinita spiaggia calabrese. Una accentua la cadenza lombarda, una parla romanesco di borgata, ma con piglio, senza lo strascico, lui il suo dialetto stretto, accentuato, inframmezzato di bestemmie. Perché lui è un uomo. In realtà parlano lo stesso linguaggio, anche se lui sicuramente non lavora e le ragazze sicuramente sì: quello della relativa ricchezza che però non dà sicurezza, non dà carattere. È il destino di tutti, una sorta di emigrazione interiore, quelli che mancano di un punto di riferimento territoriale, una cultura d’origine.
Leonzio Pilato insegna greco a Petrarca e Boccaccio. Nasce a Seminara nel 1316. Affidato all’igumeno Niceforo, ex primate di Bisanzio, incontra nel convento di San Filarete a Seminara Barlaam, un monaco che sarà diplomatico del papa a Bisanzio per la riunificazione delle chiese. Nel 1334 incontra Boccaccio giovane a Napoli. Contattato da Petrarca a Padova il 5 dicembre 1358, ne viene respinto: il poeta non gradisce la traduzione alla lettera, e inoltre è per la supremazia latina. Decide nel 1360 di trasferirisi a Avignone, dal vescovo di Armagh, Richard Fitzralph, che apprezza la cultura greca. Ma viene intercettato a Venezia da Boccaccio e insieme vanno a Firenze.
Leonzio Pilato tradusse Iliade e Odissea a Firenze, a uso di Boccaccio, in meno di un anno, dal greco al latino. Anche se dovette lavorare su un codice in onciale, grafia che gli pose grossi problemi per la traduzione interlineare.
Sicilia, “l’isola del degrado”. Non ci sono che i siciliani per parlare male della Sicilia. Se ci fosse la pena di morte la Sicilia deterrebbe di certo il record mondiale delle esecuzioni. Più della Cina, che pure ha una popolazione duecento volte superiore: i siciliani sono spietati con se stessi. Hanno mai visto la riviera ligure? O l’edilizia in valle d’Aosta?
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