Una Fiat che, ormai per il terzo anno, fa il bilancio con le automobili. Col settore cioè in maggior crisi in tutto il mondo. Che per il gruppo è stato un peso dal 1974, dopo la prima crisi petrolifera. Che tiene in Italia, suo primo o secondo mercato, col Brasile, in un anno in cui il mercato dell’auto si contrae del 10-12 per cento. A opera di un manager che di formazione era poco più di un contabile, e la cui filosofia è "fare prodotto", nientemeno, ma ha il pregio di venire da fuori. E di un azionista che è poco più di un ragazzo, e ne conserva l’animo sgombro. Consentendosi, per la forza di Fiat Auto, una prima efficace opera di pulizia nel suo non trasparente assetto di comando. Dapprima con una partecipazione diretta visibile della famiglia al controllo del gruppo, ora con l’accorpamento Ifi-Ifil.
Su entrambe le operazioni Milano ha menato grande scandalo, città come si sa di ogni virtù. Strappandosi i capelli allo swap due anni fa, col torvo silenzio sull’accorpamento. Questa reazione spiega da sola la novità della Fiat. Il parallelo con il riassetto Mediobanca è rivelatore, alla cui ombra il gruppo torinese ha vissuto per oltre trent’anni, un salotto così pieno di tagliole malgrado le paginate del “Corriere” e del “Sole”, malinconico seppure sempre pericoloso, e anzi torvo, decisamente, al confronto con la brillantezza Fiat. La Fiat va, la Fiat Auto, perché Elkann e Marchionne si sono liberati di Milano, che sarà stato pure il salotto buono, ma del diavolo.
Gli storici diranno se la colpa era di Cuccia, del sistema Mediobanca. O dell’Avvocato, che piuttosto che lavorare (produrre e vendere automobili) preferiva far “fare i bilanci” a Romiti, cioè a Cuccia. È probabile che la seconda sia vera: il sistema ha continuato dopo l’uscita di Romiti, e la morte di Cuccia, fino alla morte di Umberto, il fratello-sosia dell’Avvocato. Con lo snobismo politico tradottosi ultimamente nei sarcasmi contro Berlusconi – che per ritorsione compra da allora solo macchine tedesche, s’è pure fatto sponsorizzare dalla Opel, e la Fiat Auto voleva darla a Colaninno, il liquidatore di Olivetti, e quasi liquidatore di Telecom (e non per altro, perché Colaninno è “l’uomo dei compagni”). Poi, rapido, il miracolo. Contro ogni terribile congiuntura, il crollo delle Torri, il crollo delle banche. Contro lo squallore sindacale a Termini Imprese e Pomigliano d’Arco. Contro l’opinione di Milano, che nell’attacco a Torino non è riuscita ad andare oltre la Juventus.
sabato 13 settembre 2008
Il Raiume dei questurini
Parla da filosofo D’Avanzo su “Repubblica” nella sua polemica contro Travaglio. Parla di “logica di valori e disvalori”, di “logica di guerra «di guerra per una justa causa» che non riconosce «un justus hostis»…”. Quando sa, entrambi sanno, che è solo protagonismo e carrierismo. Di giornalisti giudiziari, cioè poco più che questurini. E che se colpa c’è, o responsabilità, è della Rai, che favorisce la carriera dei carrieristi. Chiamandola, l’ipocrisia non ha limiti, Resistenza. D’Avanzo è in polemica con Travaglio perché quest’ultimo ha detto alla Rai che il presidente del Senato Schifani è un lombrico e un mafioso, lui che allo stesso titolo ha diritto alla qualifica di mafioso.
Il giornalismo si fa forte da un ventennio dei cronisti giudiziari, figura di cui D’Avanzo e Travaglio sicuramente sono i principi. Entrambi per un periodo sulla prima pagina di “Repubblica”. Sempre imbattibili, per quanto possano essere oltraggiosi, perché hanno “le carte”. Ma che sempre ce le hanno, questo è il punto, 1) di parte, e 2) da fonte confidenziale. Una figura da sempre tenuta nei giornali in punta di bastone, perché si fa forte delle fonti. Le migliori delle quali sono le più oscure. È un giornalismo di confidenti, che un tempo si diceva di questurini, dai suoi luoghi di frequentazione.
Le questure sono ora cambiate, luogo più spesso di funzionari democratici, sensibili, e anche colti. Il mestiere no, testimoniano D’Avanzo e Travaglio nella loro polemica: il cronista giudiziario non solo va a pranzo e cena con i “questurini”, che ora si annidano nei corridoi delle Procure e dei partiti a loro collegati, ma ci passa pure le vacanze con la famiglia. Per produrre verità che, purtroppo, sono sempre quelle delle questure, indimostrate e indimostrabili.
Ci sono ragioni di mercato, dietro il giornalismo delle questure – se ci sono: i libri di mafia e corruzione vendono molto, i giornali invece non vendono. “Repubblica”, già teatro di D’Avanzo e Travaglio, di questo giornalismo è stata per molto tempo la regina, offrendo, accanto ai pensieri profondi di Carlo De Benedetti sul futuro del mondo, i pompini con bustarella di questa o quella berlusconiana - virtuali beninteso, il giornale si vuole moralista. Ma c’è una questione di etica, soprattutto per la Rai, il Raiume dei piccoli avventurieri di partito, gli orfani della Dc con le doppie e le triple tessere. Che dice di vincere gli ascolti con questo giornalismo, e in realtà vince perché ha costi abnormi, pagati con le tasse. Molto sicuramente sarà stato perdonato a Prodi, che quindi non ci ritroveremo nell’altra vita, essendo lui destinato al paradiso. Ma c’è un ma: che Rai è questa, che giornalismo, che diavoleria?
Il giornalismo si fa forte da un ventennio dei cronisti giudiziari, figura di cui D’Avanzo e Travaglio sicuramente sono i principi. Entrambi per un periodo sulla prima pagina di “Repubblica”. Sempre imbattibili, per quanto possano essere oltraggiosi, perché hanno “le carte”. Ma che sempre ce le hanno, questo è il punto, 1) di parte, e 2) da fonte confidenziale. Una figura da sempre tenuta nei giornali in punta di bastone, perché si fa forte delle fonti. Le migliori delle quali sono le più oscure. È un giornalismo di confidenti, che un tempo si diceva di questurini, dai suoi luoghi di frequentazione.
Le questure sono ora cambiate, luogo più spesso di funzionari democratici, sensibili, e anche colti. Il mestiere no, testimoniano D’Avanzo e Travaglio nella loro polemica: il cronista giudiziario non solo va a pranzo e cena con i “questurini”, che ora si annidano nei corridoi delle Procure e dei partiti a loro collegati, ma ci passa pure le vacanze con la famiglia. Per produrre verità che, purtroppo, sono sempre quelle delle questure, indimostrate e indimostrabili.
Ci sono ragioni di mercato, dietro il giornalismo delle questure – se ci sono: i libri di mafia e corruzione vendono molto, i giornali invece non vendono. “Repubblica”, già teatro di D’Avanzo e Travaglio, di questo giornalismo è stata per molto tempo la regina, offrendo, accanto ai pensieri profondi di Carlo De Benedetti sul futuro del mondo, i pompini con bustarella di questa o quella berlusconiana - virtuali beninteso, il giornale si vuole moralista. Ma c’è una questione di etica, soprattutto per la Rai, il Raiume dei piccoli avventurieri di partito, gli orfani della Dc con le doppie e le triple tessere. Che dice di vincere gli ascolti con questo giornalismo, e in realtà vince perché ha costi abnormi, pagati con le tasse. Molto sicuramente sarà stato perdonato a Prodi, che quindi non ci ritroveremo nell’altra vita, essendo lui destinato al paradiso. Ma c’è un ma: che Rai è questa, che giornalismo, che diavoleria?
domenica 7 settembre 2008
Il cristiano si può uccidere se è europeo
Si uccidono a frotte i cristiani, anzi i cattolici, in India senza motivo apparente, giusto perché cristiani, e la cosa non fa notizia. Non per i cinque, o dieci milioni, di lettori che i grandi giornali vantano. Neppure per la chiesastica, vaticanesca, Rai, non evidentemente per i suoi dieci o venti milioni di ascoltatori. Nemmeno per il Vaticano, del resto, che continua a pentirsi dei suoi errori di tre-quattro secoli fa, e anche del primo millennio, e i cristiani li considera buoni solo in pectore, in India come in Cina, in Russia e in altri paesi democratici e tolleranti.
Il “Corriere della sera”, che pubblica la giusta rimostranza del suo collaboratore Panebianco, non trova un titolo, fra i quattordici della sua prima pagina, per l’attacco alle suore di Teresa di Calcutta, agenti dell'imperialismo nel libero stato di Kerala. Che documenta anodino in una pagina interna, insieme con l’anodina notizia che 41 chiese e 457 istituti religiosi sono stati messi a fuoco. Giusto, no? Quante centinaia di chiese e case deve avere il Vaticano in India? Anzi, che ci sta a fare, proselitismo? Il proselitismo è una provocazione, eccetera.
Il ministro degli Esteri Frattini ha tentato di appropriarsi il caso con una timida nota di protesta. Ma l’India, con la nota umiltà ariana, ha risposto: “Fatti i cazzi tuoi”. La caccia al cristiano si è infatti consumata non nel proditorio campo degli islamici, che si sa sono miscredenti, ma in quello religiosissimo degli indù, che molti europei tentano di imitare, per la loro spiritualità così irenica e celestiale, e nello stato comunista del Kerala, che libera i paria anche senza il cattolicesimo, almeno stando a quanto ce ne narra Arundhati Roy.
Non è appeasement, è debolezza di spirito, del cardinale salesiano segretario di Stato incluso. Non è da ora che si uccidono i cristiani in India e in Pakistan, a opera soprattutto degli indù, ma anche dei bombaroli islamici, impunemente. Di fronte agi eccidi si tace per ragioni di balance of power, di superiori equilibri internazionali, si dice. Il che è semplicemente ridicolo, nessuno mai fu rispettato perché si prese gli schiaffi e propose l’altra guancia, non in diplomazia. No, il fatto è che i morti non sono americani, né i loro referenti. Se la chiesa di Roma fosse stata a Rome, N.Y., i cristiani non sarebbero stati assassinati impunemente in India, e anzi gli indù non li avrebbero assassinati, per quanto ariani, di casta superiore.
Morire da cristiani è morire imbelli da europei, i quali più che fishing for compliments non sanno fare, per essere buoni, giusti, e generosi. Se lo dicono nei loro giornali, e non sanno che anche fuori queste cose si sanno. Sotto ogni rispetto, politico, economico e culturale, e ora anche e i diritti umani, la fine dell’Europa è precipitosa, nessuno ne ha più rispetto, nemmeno per farsene beffe.
Il “Corriere della sera”, che pubblica la giusta rimostranza del suo collaboratore Panebianco, non trova un titolo, fra i quattordici della sua prima pagina, per l’attacco alle suore di Teresa di Calcutta, agenti dell'imperialismo nel libero stato di Kerala. Che documenta anodino in una pagina interna, insieme con l’anodina notizia che 41 chiese e 457 istituti religiosi sono stati messi a fuoco. Giusto, no? Quante centinaia di chiese e case deve avere il Vaticano in India? Anzi, che ci sta a fare, proselitismo? Il proselitismo è una provocazione, eccetera.
Il ministro degli Esteri Frattini ha tentato di appropriarsi il caso con una timida nota di protesta. Ma l’India, con la nota umiltà ariana, ha risposto: “Fatti i cazzi tuoi”. La caccia al cristiano si è infatti consumata non nel proditorio campo degli islamici, che si sa sono miscredenti, ma in quello religiosissimo degli indù, che molti europei tentano di imitare, per la loro spiritualità così irenica e celestiale, e nello stato comunista del Kerala, che libera i paria anche senza il cattolicesimo, almeno stando a quanto ce ne narra Arundhati Roy.
Non è appeasement, è debolezza di spirito, del cardinale salesiano segretario di Stato incluso. Non è da ora che si uccidono i cristiani in India e in Pakistan, a opera soprattutto degli indù, ma anche dei bombaroli islamici, impunemente. Di fronte agi eccidi si tace per ragioni di balance of power, di superiori equilibri internazionali, si dice. Il che è semplicemente ridicolo, nessuno mai fu rispettato perché si prese gli schiaffi e propose l’altra guancia, non in diplomazia. No, il fatto è che i morti non sono americani, né i loro referenti. Se la chiesa di Roma fosse stata a Rome, N.Y., i cristiani non sarebbero stati assassinati impunemente in India, e anzi gli indù non li avrebbero assassinati, per quanto ariani, di casta superiore.
Morire da cristiani è morire imbelli da europei, i quali più che fishing for compliments non sanno fare, per essere buoni, giusti, e generosi. Se lo dicono nei loro giornali, e non sanno che anche fuori queste cose si sanno. Sotto ogni rispetto, politico, economico e culturale, e ora anche e i diritti umani, la fine dell’Europa è precipitosa, nessuno ne ha più rispetto, nemmeno per farsene beffe.
O Prodi o Prodi, la terza discesa in campo
L’ex Pci non esprime nulla di meglio di Veltroni e D’Alema. Cioè niente, a parte l’orgoglio di partito. È su questa base che i prudenti democristiani sono usciti dopo la pausa estiva dal mugugno e scopertamente puntano a un mutamento deciso nel Pd. Con Prodi a capo. Pena lo scioglimento, i pontisti Fioroni e Letta non facciano velo. Gli ex Dc sono decisamente con Prodi, che è decisamente anti Veltroni, con Parisi e Bindi, ma anche con Marini, e con gli stessi Franceschini e Letta.
Nessun dubbio aveva suscitato il ritiro di Prodi dalla politica. E non ci poteva essere, Prodi si poneva nella riserva della Repubblica per succedere a Napolitano. Sempre in ticket, come da tredici anni, con Veltroni. Prodi e i suoi migliori patrocinanti, gli editori De Benedetti e Bazoli. Questo fino a un mese fa. Poi, di fronte al nulla di fatto di Veltroni dopo lo schiaffo elettorale, dopo il quale continua a girare a vuoto intontito, Prodi ha preso a criticare Berlusconi, e il suo fido Parisi a criticare Veltroni. E in pochi giorni si è arrivati all’affondo.
Il ritorno in campo di Prodi è cosa decisa, sempre d’accordo con Bazoli e De Benedetti. Le forme sono molteplici, ma l’intenzione è ferma. La tecnica è la stessa, del fondista, del pugile tecnico: un colpo o un allungo, pausa, un altro colpo. L'incarico all'Onu che Prodi briga servirà a farlo ritornare stabile in tv, alla Rai che è per lui ed è già in fibrillazione. Le stesse indiscrezioni-intercettazioni di un Prodi che smentisce se stesso, come se fosse antiveltroniano da sempre, rientrano in questa strategia. Senza scandalo e nemmeno sgambetti: Prodi non ha mai ghigliottinato nessuno, non è nel suo stile. Né in quello di Bazoli. Né dello stesso De Benedetti, pare, ora che dirigerà personalmente i suoi giornali. Ma senza scampo, un colpo oggi, un colpo domani, finché non cadrà. Prodi quando decide una cosa la fa. Veltroni dovrà cadere da solo, ma non avrà altra soluzione.
Veltroni e gli ex comunisti devono passare la mano, dopo il governo nemmeno l’opposizione è cosa per loro, a giudizio dei vedovi dell’Ulivo. Lo stesso Veltroni sembra peraltro concordare con loro, che alla festa di Firenze, sotto il trionfalismo, non ha fatto nemmeno uno sforzo per coprire il suo incredibile vuoto, di progetto e di proposta. Veltroni non è stanco, non sembra, ma mostra di aver capito, i suoi sponsor giornalistici glielo dicono ogni giorno quasi con violenza, che il suo tempo è finito. E l’uomo non è uno che dà battaglia. Ha la carta del congresso, che lo farebbe stravincere, il popolo ex comunista si mobilita sempre all'unisono, come già alle primarie. Ma sa che in questo caso lo farebbero fuori prima e senza ripescaggio.
Nessun dubbio aveva suscitato il ritiro di Prodi dalla politica. E non ci poteva essere, Prodi si poneva nella riserva della Repubblica per succedere a Napolitano. Sempre in ticket, come da tredici anni, con Veltroni. Prodi e i suoi migliori patrocinanti, gli editori De Benedetti e Bazoli. Questo fino a un mese fa. Poi, di fronte al nulla di fatto di Veltroni dopo lo schiaffo elettorale, dopo il quale continua a girare a vuoto intontito, Prodi ha preso a criticare Berlusconi, e il suo fido Parisi a criticare Veltroni. E in pochi giorni si è arrivati all’affondo.
Il ritorno in campo di Prodi è cosa decisa, sempre d’accordo con Bazoli e De Benedetti. Le forme sono molteplici, ma l’intenzione è ferma. La tecnica è la stessa, del fondista, del pugile tecnico: un colpo o un allungo, pausa, un altro colpo. L'incarico all'Onu che Prodi briga servirà a farlo ritornare stabile in tv, alla Rai che è per lui ed è già in fibrillazione. Le stesse indiscrezioni-intercettazioni di un Prodi che smentisce se stesso, come se fosse antiveltroniano da sempre, rientrano in questa strategia. Senza scandalo e nemmeno sgambetti: Prodi non ha mai ghigliottinato nessuno, non è nel suo stile. Né in quello di Bazoli. Né dello stesso De Benedetti, pare, ora che dirigerà personalmente i suoi giornali. Ma senza scampo, un colpo oggi, un colpo domani, finché non cadrà. Prodi quando decide una cosa la fa. Veltroni dovrà cadere da solo, ma non avrà altra soluzione.
Veltroni e gli ex comunisti devono passare la mano, dopo il governo nemmeno l’opposizione è cosa per loro, a giudizio dei vedovi dell’Ulivo. Lo stesso Veltroni sembra peraltro concordare con loro, che alla festa di Firenze, sotto il trionfalismo, non ha fatto nemmeno uno sforzo per coprire il suo incredibile vuoto, di progetto e di proposta. Veltroni non è stanco, non sembra, ma mostra di aver capito, i suoi sponsor giornalistici glielo dicono ogni giorno quasi con violenza, che il suo tempo è finito. E l’uomo non è uno che dà battaglia. Ha la carta del congresso, che lo farebbe stravincere, il popolo ex comunista si mobilita sempre all'unisono, come già alle primarie. Ma sa che in questo caso lo farebbero fuori prima e senza ripescaggio.
L'Espresso bad company di De Benedetti
Dunque, Carlo De Benedetti assume in proprio le redini del gruppo L’Espresso, licenziando Marco Benedetto. È questa la notizia al tempo del gossip. Mentre invece la novità è che le attività editoriali non faranno più parte del gruppo De Benedetti, del core business della sua Cofide. La componentistica, l’energia, la sanità, la finanza sì, l’editoria no. Benché abbia prodotti e testate di grande qualità e rinomanza. E abbia da solo assicurato a De Benedetti quelle patenti di nobiltà nel mercato dei capitali che gli venivano contestate: un bene dunque in un certo senso di famiglia, benché recenziore, carico di affetti se non di utili.
La notizia è lo scorporo del gruppo L’Espresso dalla nuova Cir-Cofide: le attività editoriali restano confinate nella vecchia Cir, che a questo punto è una bad company, la zavorra del gruppo. Carlo De Benedetti lascia la nuova Cir-Cofide per L’Espresso un po’ per segnare la successione, a favore del figlio Rodolfo, per lasciarlo crescere. Ma soprattutto per tentare di raddrizzare e salvare il settore editoriale. La scissione è stata preceduta ed è accompagnata da una serie di calcoli che, benché rifatti e riadattati a molteplici pesi, danno tutti una redditività insoddisfacente dell’editoria. Nel 2006 e 2007 il settore ha dimezzato i valori, di capitalizzazione e patrimoniali, e annullato in sostanza la redditività, se non per accorgimenti contabili. Nel 2008 le cose non vanno meglio.
Più liquidità per l’energia
Nel complesso, Cofide vanta una redditività elevata, quasi il doppio della media Mibtel: il 24 per cento composto nel quinquennio 2003-2007. Ma insufficiente per le necessità di capitalizzazione del settore di punta del gruppo, l’energia. Lo scorporo dell’Espresso nasce soprattutto da questo: in un mercato riflessivo, a liquidità contratta, si è ritenuto che Cofide dovesse mantenere elevata la redditività, e se possibile migliorarla, a fronte dei nuovi capitali di cui ha bisogno per crescere, e che per l’energia sono ingenti. Il settore è redditizio, ma ha bisogno di capitali.
Verbund, il socio austriaco di Sorgenia, si è impegnato a un aumento che porterà il capitale a quattro miliardi, e Cofide non vorrà essere da meno. Con il 6,5 per cento della capacità elettrica nazionale, Sorgenia è l’operatore forse più piccolo, e deve crescere, con alleanze e acquisizioni, e un forte impegno di marketing.
La notizia è lo scorporo del gruppo L’Espresso dalla nuova Cir-Cofide: le attività editoriali restano confinate nella vecchia Cir, che a questo punto è una bad company, la zavorra del gruppo. Carlo De Benedetti lascia la nuova Cir-Cofide per L’Espresso un po’ per segnare la successione, a favore del figlio Rodolfo, per lasciarlo crescere. Ma soprattutto per tentare di raddrizzare e salvare il settore editoriale. La scissione è stata preceduta ed è accompagnata da una serie di calcoli che, benché rifatti e riadattati a molteplici pesi, danno tutti una redditività insoddisfacente dell’editoria. Nel 2006 e 2007 il settore ha dimezzato i valori, di capitalizzazione e patrimoniali, e annullato in sostanza la redditività, se non per accorgimenti contabili. Nel 2008 le cose non vanno meglio.
Più liquidità per l’energia
Nel complesso, Cofide vanta una redditività elevata, quasi il doppio della media Mibtel: il 24 per cento composto nel quinquennio 2003-2007. Ma insufficiente per le necessità di capitalizzazione del settore di punta del gruppo, l’energia. Lo scorporo dell’Espresso nasce soprattutto da questo: in un mercato riflessivo, a liquidità contratta, si è ritenuto che Cofide dovesse mantenere elevata la redditività, e se possibile migliorarla, a fronte dei nuovi capitali di cui ha bisogno per crescere, e che per l’energia sono ingenti. Il settore è redditizio, ma ha bisogno di capitali.
Verbund, il socio austriaco di Sorgenia, si è impegnato a un aumento che porterà il capitale a quattro miliardi, e Cofide non vorrà essere da meno. Con il 6,5 per cento della capacità elettrica nazionale, Sorgenia è l’operatore forse più piccolo, e deve crescere, con alleanze e acquisizioni, e un forte impegno di marketing.
Le tre Milano che ci governano
Nega il tribunale di Milano a Berlusconi perfino la minima soddisfazione di dirsi diffamato, come in effetti è, dal settimanale l’“Economist”, così pieno di agenti del servizio segreto inglese. Milano in effetti governa sdoppiandosi, anzi triplicandosi. Governa l’Italia in senso proprio, attraverso Berlusconi e il ceto berlusconiano, le Moratti, le Marcegaglia, le Gelmini e qualche vescovo. Chiacchierone e perfino frou-frou, ma per la platea, semrpe comunque determinato. E governa con l’antigoverno, nella fattispecie l’antiberlusconi. Indirettamente, attraverso il ceto giuridico partenopeo, e quindi con raffinata crudezza, più spesso con spregiudicatezza, quasi sempre al di fuori della costituzione, ma con mano sempre milanese, sempre insensibile. È l’antigoverno delle grandi banche, che Milano dà in affidamento, per sfuggire in questo caso ai giudici napoletani, alla sinistra e all’estrema sinistra, e dei loro giornali.
Poi c’è naturalmente la Milano della Lega, che ha saputo crescere e imporre il suo ordinamento, che sarà in definitiva la nuova Italia. Non la famigerata Seconda Repubblica dei vecchi arnesi della prima, ma la Terza Italia, dopo quella sabauda e la Repubblica statalista, della democrazia sociale: un’Italia che tenta la ripartenza al punto della storia in cui l’unità l’aveva soffocata, con le autonomie, liberamente aggregate.
Sono le tre anime di sempre di Milano. Quella del miglior lombardismo, localistica e oculata. Quella controriformistica, festaiola per le apparenze e molto determinata. E quella gaddiana della piccola borghesia, invidiosa (perbenista, fascista, loretiana, maggioritaria silenziosa, razzista), anche se non si sa di che - di Napoli?
Poi c’è naturalmente la Milano della Lega, che ha saputo crescere e imporre il suo ordinamento, che sarà in definitiva la nuova Italia. Non la famigerata Seconda Repubblica dei vecchi arnesi della prima, ma la Terza Italia, dopo quella sabauda e la Repubblica statalista, della democrazia sociale: un’Italia che tenta la ripartenza al punto della storia in cui l’unità l’aveva soffocata, con le autonomie, liberamente aggregate.
Sono le tre anime di sempre di Milano. Quella del miglior lombardismo, localistica e oculata. Quella controriformistica, festaiola per le apparenze e molto determinata. E quella gaddiana della piccola borghesia, invidiosa (perbenista, fascista, loretiana, maggioritaria silenziosa, razzista), anche se non si sa di che - di Napoli?
Parking al Pincio, dove c'è da trent'anni
Nessun giudice si muove, nessun sovrintendente, nessun giornale per il parcheggio al Pincio. Per il doppione di un’opera che già da trent’anni è in funzione e non è utilizzata: nessuno ricorda che il parcheggio di Villa Borghese aveva accesso anche da piazza di Spagna, con tappeti mobili, che poi si chiusero per mancanza di utenti. Questo silenzio è squallido, e potrebbe essere sospetto, per molto meno sovrintendenti, giudici e apparti d'informazione avrebbero intasato l'opinione pubblica e anche le carceri, ma non è tutto.
Il parcheggio al Pincio è la Waterloo di Veltroni, così come altre decisioni immobiliari last minute del suo governo a Roma. È una vergogna e una sconfitta sia che si faccia sia che non si faccia, e di più se è gratuita. Ha reso impraticabile il Pincio già per quattro anni, tra polvere, transenne, sporcizia, disordine, e sprechi, nonché pezzi d'opera buttati alla rinfusa, e la cosa durerà per almeno altri quatto. Il tutto per favorire il solito partito degli architetti, con le costose prospezioni archeologiche “preliminari”. Per un’opera che non è necessaria e nemmeno utile: non ci abita nessuno, non ci lavora nessuno, e le famiglie romane, gli innamorati e i turisti che affollano il Pincio per la bellezza non hanno tempo e voglia di spendere per ingrassare il parcheggio. Gli altri parcheggi sono vuoti, a Ludovisi e, appunto, Villa Borghese.
Il progetto è segno del governo di Veltroni, così semplicista e superficiale. Nulla di speciale, insomma. Non fosse per la pelosa difesa d’ufficio che ne fanno i Carandini e i Chicco Testa, il piccolo cabotaggio che gira attorno alla politica di una certa sinistra, il partito degli architetti e ingegneri. Che non è corruzione, certo. Non si è detto per anni che bisogna mettere a frutto il capitale artistico? Il Pincio non è fatto per la veduta e il sapiente giardino, ci pensa il terzo settore a metterlo a frutto, quello avidissimo degli studi tecnici di archeologia, paesaggistica, viabilità, e della sosta a pagamento.
Il parcheggio al Pincio è la Waterloo di Veltroni, così come altre decisioni immobiliari last minute del suo governo a Roma. È una vergogna e una sconfitta sia che si faccia sia che non si faccia, e di più se è gratuita. Ha reso impraticabile il Pincio già per quattro anni, tra polvere, transenne, sporcizia, disordine, e sprechi, nonché pezzi d'opera buttati alla rinfusa, e la cosa durerà per almeno altri quatto. Il tutto per favorire il solito partito degli architetti, con le costose prospezioni archeologiche “preliminari”. Per un’opera che non è necessaria e nemmeno utile: non ci abita nessuno, non ci lavora nessuno, e le famiglie romane, gli innamorati e i turisti che affollano il Pincio per la bellezza non hanno tempo e voglia di spendere per ingrassare il parcheggio. Gli altri parcheggi sono vuoti, a Ludovisi e, appunto, Villa Borghese.
Il progetto è segno del governo di Veltroni, così semplicista e superficiale. Nulla di speciale, insomma. Non fosse per la pelosa difesa d’ufficio che ne fanno i Carandini e i Chicco Testa, il piccolo cabotaggio che gira attorno alla politica di una certa sinistra, il partito degli architetti e ingegneri. Che non è corruzione, certo. Non si è detto per anni che bisogna mettere a frutto il capitale artistico? Il Pincio non è fatto per la veduta e il sapiente giardino, ci pensa il terzo settore a metterlo a frutto, quello avidissimo degli studi tecnici di archeologia, paesaggistica, viabilità, e della sosta a pagamento.
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