Alle amenità ci pensa la pia Gelmini, il grembiulino, il sette in condotta e la maestra-mamma, all’università il laico Brunetta. A chiudere l’università, che è poi il vero obiettivo della ministra, e a questo punto del governo – l’università è l’area, di tutto l’edificio scolastico, in cui c’è polpa, vero business. Il ministro della P.A. ha operato senza proclami ma con la nota incisività: un emendamento in commissione Lavoro alla Camera sul 1441 quater, la manovra estiva, che cancella le stabilizzazioni previste dalle due finanziarie precedenti. Anche di quelli che hanno vinto una qualche forma di concorso.
Nessun dramma, chi ha titolo alla stabilizzazione lo farà valere, è decisione facile, rapida e obbligata per qualsiasi giudice del lavoro. Ma l'efficiente ministro sa quello che fa: bisogna che i nuovi entranti scappino dai ranghi universitari, quelli capaci, e a questo fine l'emendamento certamente sarà efficace.
I “tagli” previsti sono 50 mila. Tanti quanti sono stimati i precari all’università, che si sentono l’obiettivo vero dell’emendamento. L’emendamento cancellerebbe infatti anche il comma che stanziava i fondi per la stabilizzazione negli enti di ricerca. Il Progetto, com’è noto, della Moratti e ora della Gelmini, è di svuotare l’università, impedendole di funzionare, nel mentre che si moltiplicano le istituzioni private. L’emendamento Brunetta dà la spinta decisiva. Senza precari, non solo la ricerca, anche la didattica diventa impossibile all’università. Come succede a Firenze, dove i contrattisti rifiutano i rinnovi: molte facoltà non riescono a far partire i corsi neanche in formato ridotto.
sabato 27 settembre 2008
Chi ha giocato (in Borsa) con Colaninno?
Prodi furioso vuole sapere. Furioso perché la soluzione italiana per Alitalia era la sua, e ora si rimprovera di essere stato debole col “partito francese”, cioè con i Ds. E perché teme che la soluzione a sorpresa, con un tè a casa di Veltroni, nasconda una grossa operazione di insider trading, “l’ennesima”. Claudio Costamagna e altri fidati operatori sono stati messi in allarme per sapere chi ha guadagnato dal balzo inconsulto e incongruo in Borsa dei due titoli di Colaninno, Immsi e Piaggio, da 65 a 84 centesimi e da 1,60 a 1,78 in poche ore. Non sarà un’indagine facile, perché Colaninno è assistito dai Magnoni, specie dal disoccupato Ruggero, capo londinese della defunta Lehman Brothers. Ma il sospetto è forte che Colaninno abbia finanziato surrettiziamente la corrente veltroniana nel Partito democratico.
La soluzione nazionale era stata tentata da Prodi nel tentativo di privatizzazione un anno e mezzo fa. Privilegiando la M&C di Carlo De Benedetti, che però non era riuscito a convincere i suoi soci. A France 24, la Cnn francese, Prodi aveva spiegato che la partnership Air France era utile e forse necessaria, ma che l’Italia doveva avere una compagnia aerea italiana, “se consideriamo che l’Italia è un grande mercato, il secondo per il trasporto aereo europeo”. Il nervosismo sull’incontro Colaninno-Veltroni nasce da un precedente che il partito di Prodi ritiene acclarato, quando dieci anni fa acquistò (a debito) Telecom Italia: l’imprenditore andava ogni sera a Botteghe Oscure, e il guadagno netto in Borsa per l’ex Pci fu allora calcolato dagli ex Dc in 87 miliardi.
La soluzione nazionale era stata tentata da Prodi nel tentativo di privatizzazione un anno e mezzo fa. Privilegiando la M&C di Carlo De Benedetti, che però non era riuscito a convincere i suoi soci. A France 24, la Cnn francese, Prodi aveva spiegato che la partnership Air France era utile e forse necessaria, ma che l’Italia doveva avere una compagnia aerea italiana, “se consideriamo che l’Italia è un grande mercato, il secondo per il trasporto aereo europeo”. Il nervosismo sull’incontro Colaninno-Veltroni nasce da un precedente che il partito di Prodi ritiene acclarato, quando dieci anni fa acquistò (a debito) Telecom Italia: l’imprenditore andava ogni sera a Botteghe Oscure, e il guadagno netto in Borsa per l’ex Pci fu allora calcolato dagli ex Dc in 87 miliardi.
Cupio dissolvi di Veltroni da Vespa
Nei giornali e alla Rai, dove Veltroni ha sicuro potere, sono stati due giorni frenetici di angosciate domande. Oggetto: Lui, Veltroni, e il Partito. Col sottinteso: dove andremo a finire (con chi ci dobbiamo schierare)?
Le ultime uscite di Veltroni dopo la vacanza in America sono sembrate uno spot per Berlusconi. E tanto peggio se, com’è ovvio, è un effetto non voluto, i fedelissimi per questo sono preoccupati. L’angoscia è precipitata con l’imbarazzante performance a Porta a porta, che avrebbe sbalordito pure il cinico Vespa. Con l’inverosmile vicenda della mediazione tra Colaninno e Epifani, come ai vecchi tempi del Pci. E l’ironia sulle camicie “scure” del presidente del consiglio, che avrebbe fatto scadere a scherzo il dibattito sul fascismo, dai fedelissimi ritenuto invece “centrale”.
L’inquietudine si era diffusa al ritorno di Veltroni dall’America “a mani vuote”. Senza nemmeno una fotografia con Obama. E si rafforza di ora in ora con il suo palese girare a vuoto, senza argomenti, gemono i suoi, per i problemi seri: la recessione, il carovita, il precariato, e la decisa controriforma del governo sulla scuola e la sanità, la privatizzazione dei servizi essenziali.
Le ultime uscite di Veltroni dopo la vacanza in America sono sembrate uno spot per Berlusconi. E tanto peggio se, com’è ovvio, è un effetto non voluto, i fedelissimi per questo sono preoccupati. L’angoscia è precipitata con l’imbarazzante performance a Porta a porta, che avrebbe sbalordito pure il cinico Vespa. Con l’inverosmile vicenda della mediazione tra Colaninno e Epifani, come ai vecchi tempi del Pci. E l’ironia sulle camicie “scure” del presidente del consiglio, che avrebbe fatto scadere a scherzo il dibattito sul fascismo, dai fedelissimi ritenuto invece “centrale”.
L’inquietudine si era diffusa al ritorno di Veltroni dall’America “a mani vuote”. Senza nemmeno una fotografia con Obama. E si rafforza di ora in ora con il suo palese girare a vuoto, senza argomenti, gemono i suoi, per i problemi seri: la recessione, il carovita, il precariato, e la decisa controriforma del governo sulla scuola e la sanità, la privatizzazione dei servizi essenziali.
venerdì 26 settembre 2008
Ma Heidegger non può fare da scudo al nazismo
Rispetto all’edizione Albin Michel del 2005, corredata di vasta bigliografia e indice dei nomi, il tascabile ha una nuova prefazione, e riporta la bibliografia del dibattito internazionale cui la pubblicazione ha dato esca. Ma anche per questo il volume, pure corposo, scade alla rilettura a libello. Faye, che insegna a Parigi X-Nanterre, vuol’essere “scientifico”, è preciso e dettaglista, esercitandosi, come dice il sottotitolo, Attorno ai seminari inediti 1933-35, che egli porta alla luce: vuole proporsi come storico obiettivo – e fare un libro diverso dal Farias. Ma è esoso, quasi persecutorio, negli addebiti: la sua sembra un'arringa avvocatesca. Da una parte. Dall’altra accomuna nel nazismo a ogni passo senza argomenti Nolte e Jünger, che invece si sanno estranei, oltre che Schmitt, e perfino Spengler e Stefan George. E questo stona e allarma.
Il nazismo di Heidegger è anteriore al 1933, afferma Faye nelle “Conclusioni”. Ma per spiegare, caratteristicamente: “In “Essere e Tempo” si fa discreto perché il suo scopo è di ottenere la successione di Husserl”. Heidegger, “Essere e tempo” e tutto quanto riducendo a bega universitaria. Nell’ottica della bega Faye poi nega a Heidegger il più piccolo apporto alla filosofia. Non è il suo più piccolo limite. Il nazismo di Heidegger, prima, durante e dopo il nazismo di Hitler, è un fatto ed è noto. Anche nelle sue componenti - che non sono razziali, anche questo stona in Faye: il nazionalismo teutonico non è razzismo, non ancora. Ma Faye sembra fare di tutto per “giustificarlo”.
Lo studioso francese di obiettivo ne ha uno suo, documentare il progetto di Heidegger di “porsi da solo e unico pensatore del nazionalsocialismo” (p.257). In aggiunta ai fatti noti e documentati da Ott e Farias, la tessera con distintivo del partito nazista, i tentativi di allineamento dell’università, il progetto di scuola nazista dei professori, i filosofemi sulla tirannia (il Führerprinzip) e gli inni a Hitler, basandosi su quattro fonti inedite: 1)il seminario “Sull’essenza e i concetti di natura, storia e Stato”, nove sessioni di due ore ciascuna, dal novembre 1933 a febbraio 1934, sulla base delle note prese di volta in volta da uno dei partecipanti, mai lo stesso, riviste e annotate da Heidegger; 2) i lasciti di Rudolph Stadelmann, un libero docente che Heidegger utilizzò da rettore come segretario particolare in molte attività legate al partito o al regime nazista; 3) i testi editi e inediti di Erik Wolf, compreso il seminario “Hegel, sullo Stato”, tenuto congiuntamente con Heidegger nel 1934-35 - Wolf è il giurista, membro del comitato parrocchiale di Friburgo, nominato dal rettore Heidegger preside di Legge, il cui eccessivo attivismo nazista portò Heidegger alle dimissioni, e alla decisione da parte del ministero di allontanare lo stesso Wolf, ma che la successiva militanza nella Chiesa Confessante, il movimento luterano di opposizione, ha assolto da colpe alla fine della guerra con gli Alleati, meritandogli anzi fama di giurista di sinistra (e contribuendo allo sdoganamento di Heidegger); 4) una integrazione alla nona sessione del seminario 1933-34 con la testimonianza di Theodore Kisiel.
Il seminario '33-34 è, malgrado il titolo, “un corso di educazione politica hitleriana”, senza dubbio. Così come quello sullo Stato, con riferimento a Hegel: lo Stato è il Volk, con tutta la stantìa esagerazione che il popolare si è stracsinato dietro in epoca nazista. Come pezze d'appoggio al suo lavoro di achivio, Faye può inoltre usare la riedizione nel 1989 dei corsi su Nietzsche, e i tre volumi della opera omnia di Heidegger, usciti negli anni 1990, Beitraege, Besinnung, Koinon, che raccolgono gli inediti degli anni 1933-45, appunti, interventi, discorsi, congressi, conferenze. dove si fa spreco di popolo, sangue, e terra, le parole chiave del nazismo. Una edizione completa delle opere di Heidegger impostata dallo stesso filosofo che però non è un'edizione critica. Faye non manca di rilevare che gli inediti non sono gli originali, ma testi rivisti da Heidegger dopo la guerra.
La novità è irrilevante, e l’intento polemico è frustrante. Troppo spesso Faye usa affermazioni presupposte. “Come vedremo”, dice in una tipica circonlocuzione, “Heidegger non riprende che parzialmente il vocabolario di (Carl) Schmitt”. E intende: sono tanto nazisti tutt’e due che s’intendono anche se usano vocabolari differenti. Mentre il contrario è più vero: Heidegger non è Schmitt. La concezione della politica di Heidegger, se se ne può formulare una, è opposta a quella di Schmitt, il gregge non è una battaglione d'assalto. Poiché tra Heidegger e Schmitt non si conoscono rapporti, Faye argomenta caratteristicamente che i due abbiano distrutto la loro corrispondenza - alle pagine 355-8. Dopo aver supposto Heidegger autore ombra dei discorsi di Hitler. Mentre gli scritti politici di Heidegger, per quanto deboli, riescono tuttavia a dare una lettura duratura, comunque vera, del nazionalismo. Nella sue forme di comunità, razzismo, imperialismo: il potere nelle sue forme nazionali è effettualmente una metafisica, fuoriesce dalle razionalità economica, sciologica, culturale, e certamente da quella biologica.
Faye è apocalittico. Analizzando, seppure più conciso e pertinente, il seminario 1934-35, dal titolo “Hegel, sullo Stato”, otto sessioni di cui restano solo gli appunti non corretti (Fay utilizza quelli di Wilhelm Hallwachs), afferma (pp. 474-75): “Heidegger si rivela a noi oggi come quello che ha voluto assicurare la perennità dell'hitlerismo e della sua dominazione dittatoriale e distruttrice sugli spiriti, al di là della persone storica del Führer. E questo ruolo di vero Führer spirituale, si è risoluto a tenerlo estremamente presto, con una prescienza che gli ha permesso di mantenersi a galla dopo la sconfitta del 1945, di perennizzare la sua azione e di propagare la sua influenza sugli spiriti dopo che il esatto contemporaneo, Hitler, ebbe militarmente fallito. E tutto questo quando la sua opera, che aveva sposato fino al 1945 la causa stessa del III° Reich ... era a quella data terminata, la sconfitta del Reich nazista segnando il termine e la fine di un'opera la cui principale ragione d'essere consisteva nel legittimare la dominazione del III° Reich e, come vedremo, del suo principio di dominazione razziale”. Niente di meno.
Il genere arringa fa parte della storia intesa come tribunale, cresciuta mostruosamente, da Norimberga alla Shoah, e ora imperativa. Ma la letteratura polemica è faticosa, così piena in questo librone di “come vedremo” e “come abbiamo già detto”, più spesso in nota. Ed è rischiosa, specie per il presupposto politico che muove Faye e tutti quanti: invece di capire perché pensatori del calibro di Heidegger, Schmitt e Junger, o tra gli scrittori Pound, per esempio, Céline, Hamsun, Benn (e Pirandello, Malaparte, Yourcenar, Simenon, Saint-Exupéry, Caillois, Montherlant, Éliade, Cioran…), perché artisti e filosofi di forte intuito e intelligenza sono stati di destra e perfino nazisti, si incollano gli stessi come fiori all’occhiello del nazismo, stendardi, trofei, e quasi a suo scudo. Non domandanselo, si ritualizza la storia, la si rende cioè inefficace ai fini delle nostre responsabilità, e Faye non esce dalle tre vulgate del nazismo e dello sterminio, come opera di pazzi, di sadici, di congiure esoteriche.
Lo scandalo non è Heidegger nazista – anche Platone ebbe la sola ambizione di diventare consigliori del tiranno di Siracusa. È che il nazismo non era carta stagnola, non è quello di Leni Riefenstahl, né un circolo esoterico o stregonesco, e neppure un manicomio, in Germania e fuori. Nel caso di Heidegger per una coerenza sopravvissuta altezzosa, solo poco dissimulata, alla sconfitta, alla cognizione senza più scusanti degli abissi della Germania nazista.
Questo non è un buon argomento, afferma Faye in conclusione. E invece lo è. Per la politica non è un buon argomento, si può professare la fede per un posto, o per una utopia. Nessuno fa torto a Platone di avere scelto il tiranno, e nessuno ricorda il tiranno che prima lo sfruttò e poi lo maltrattò. Heidegger è quello che è, sempre insincero, con le donne e con gli uomini, spesso traditore, e fellone, un tedesco addottorato di provincia, anzi di paese. Ma per la filosofia invece è un buon argomento: è parte del cammino della verità.
Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, Livre de poche, pp.767, € 9
Il nazismo di Heidegger è anteriore al 1933, afferma Faye nelle “Conclusioni”. Ma per spiegare, caratteristicamente: “In “Essere e Tempo” si fa discreto perché il suo scopo è di ottenere la successione di Husserl”. Heidegger, “Essere e tempo” e tutto quanto riducendo a bega universitaria. Nell’ottica della bega Faye poi nega a Heidegger il più piccolo apporto alla filosofia. Non è il suo più piccolo limite. Il nazismo di Heidegger, prima, durante e dopo il nazismo di Hitler, è un fatto ed è noto. Anche nelle sue componenti - che non sono razziali, anche questo stona in Faye: il nazionalismo teutonico non è razzismo, non ancora. Ma Faye sembra fare di tutto per “giustificarlo”.
Lo studioso francese di obiettivo ne ha uno suo, documentare il progetto di Heidegger di “porsi da solo e unico pensatore del nazionalsocialismo” (p.257). In aggiunta ai fatti noti e documentati da Ott e Farias, la tessera con distintivo del partito nazista, i tentativi di allineamento dell’università, il progetto di scuola nazista dei professori, i filosofemi sulla tirannia (il Führerprinzip) e gli inni a Hitler, basandosi su quattro fonti inedite: 1)il seminario “Sull’essenza e i concetti di natura, storia e Stato”, nove sessioni di due ore ciascuna, dal novembre 1933 a febbraio 1934, sulla base delle note prese di volta in volta da uno dei partecipanti, mai lo stesso, riviste e annotate da Heidegger; 2) i lasciti di Rudolph Stadelmann, un libero docente che Heidegger utilizzò da rettore come segretario particolare in molte attività legate al partito o al regime nazista; 3) i testi editi e inediti di Erik Wolf, compreso il seminario “Hegel, sullo Stato”, tenuto congiuntamente con Heidegger nel 1934-35 - Wolf è il giurista, membro del comitato parrocchiale di Friburgo, nominato dal rettore Heidegger preside di Legge, il cui eccessivo attivismo nazista portò Heidegger alle dimissioni, e alla decisione da parte del ministero di allontanare lo stesso Wolf, ma che la successiva militanza nella Chiesa Confessante, il movimento luterano di opposizione, ha assolto da colpe alla fine della guerra con gli Alleati, meritandogli anzi fama di giurista di sinistra (e contribuendo allo sdoganamento di Heidegger); 4) una integrazione alla nona sessione del seminario 1933-34 con la testimonianza di Theodore Kisiel.
Il seminario '33-34 è, malgrado il titolo, “un corso di educazione politica hitleriana”, senza dubbio. Così come quello sullo Stato, con riferimento a Hegel: lo Stato è il Volk, con tutta la stantìa esagerazione che il popolare si è stracsinato dietro in epoca nazista. Come pezze d'appoggio al suo lavoro di achivio, Faye può inoltre usare la riedizione nel 1989 dei corsi su Nietzsche, e i tre volumi della opera omnia di Heidegger, usciti negli anni 1990, Beitraege, Besinnung, Koinon, che raccolgono gli inediti degli anni 1933-45, appunti, interventi, discorsi, congressi, conferenze. dove si fa spreco di popolo, sangue, e terra, le parole chiave del nazismo. Una edizione completa delle opere di Heidegger impostata dallo stesso filosofo che però non è un'edizione critica. Faye non manca di rilevare che gli inediti non sono gli originali, ma testi rivisti da Heidegger dopo la guerra.
La novità è irrilevante, e l’intento polemico è frustrante. Troppo spesso Faye usa affermazioni presupposte. “Come vedremo”, dice in una tipica circonlocuzione, “Heidegger non riprende che parzialmente il vocabolario di (Carl) Schmitt”. E intende: sono tanto nazisti tutt’e due che s’intendono anche se usano vocabolari differenti. Mentre il contrario è più vero: Heidegger non è Schmitt. La concezione della politica di Heidegger, se se ne può formulare una, è opposta a quella di Schmitt, il gregge non è una battaglione d'assalto. Poiché tra Heidegger e Schmitt non si conoscono rapporti, Faye argomenta caratteristicamente che i due abbiano distrutto la loro corrispondenza - alle pagine 355-8. Dopo aver supposto Heidegger autore ombra dei discorsi di Hitler. Mentre gli scritti politici di Heidegger, per quanto deboli, riescono tuttavia a dare una lettura duratura, comunque vera, del nazionalismo. Nella sue forme di comunità, razzismo, imperialismo: il potere nelle sue forme nazionali è effettualmente una metafisica, fuoriesce dalle razionalità economica, sciologica, culturale, e certamente da quella biologica.
Faye è apocalittico. Analizzando, seppure più conciso e pertinente, il seminario 1934-35, dal titolo “Hegel, sullo Stato”, otto sessioni di cui restano solo gli appunti non corretti (Fay utilizza quelli di Wilhelm Hallwachs), afferma (pp. 474-75): “Heidegger si rivela a noi oggi come quello che ha voluto assicurare la perennità dell'hitlerismo e della sua dominazione dittatoriale e distruttrice sugli spiriti, al di là della persone storica del Führer. E questo ruolo di vero Führer spirituale, si è risoluto a tenerlo estremamente presto, con una prescienza che gli ha permesso di mantenersi a galla dopo la sconfitta del 1945, di perennizzare la sua azione e di propagare la sua influenza sugli spiriti dopo che il esatto contemporaneo, Hitler, ebbe militarmente fallito. E tutto questo quando la sua opera, che aveva sposato fino al 1945 la causa stessa del III° Reich ... era a quella data terminata, la sconfitta del Reich nazista segnando il termine e la fine di un'opera la cui principale ragione d'essere consisteva nel legittimare la dominazione del III° Reich e, come vedremo, del suo principio di dominazione razziale”. Niente di meno.
Il genere arringa fa parte della storia intesa come tribunale, cresciuta mostruosamente, da Norimberga alla Shoah, e ora imperativa. Ma la letteratura polemica è faticosa, così piena in questo librone di “come vedremo” e “come abbiamo già detto”, più spesso in nota. Ed è rischiosa, specie per il presupposto politico che muove Faye e tutti quanti: invece di capire perché pensatori del calibro di Heidegger, Schmitt e Junger, o tra gli scrittori Pound, per esempio, Céline, Hamsun, Benn (e Pirandello, Malaparte, Yourcenar, Simenon, Saint-Exupéry, Caillois, Montherlant, Éliade, Cioran…), perché artisti e filosofi di forte intuito e intelligenza sono stati di destra e perfino nazisti, si incollano gli stessi come fiori all’occhiello del nazismo, stendardi, trofei, e quasi a suo scudo. Non domandanselo, si ritualizza la storia, la si rende cioè inefficace ai fini delle nostre responsabilità, e Faye non esce dalle tre vulgate del nazismo e dello sterminio, come opera di pazzi, di sadici, di congiure esoteriche.
Lo scandalo non è Heidegger nazista – anche Platone ebbe la sola ambizione di diventare consigliori del tiranno di Siracusa. È che il nazismo non era carta stagnola, non è quello di Leni Riefenstahl, né un circolo esoterico o stregonesco, e neppure un manicomio, in Germania e fuori. Nel caso di Heidegger per una coerenza sopravvissuta altezzosa, solo poco dissimulata, alla sconfitta, alla cognizione senza più scusanti degli abissi della Germania nazista.
Questo non è un buon argomento, afferma Faye in conclusione. E invece lo è. Per la politica non è un buon argomento, si può professare la fede per un posto, o per una utopia. Nessuno fa torto a Platone di avere scelto il tiranno, e nessuno ricorda il tiranno che prima lo sfruttò e poi lo maltrattò. Heidegger è quello che è, sempre insincero, con le donne e con gli uomini, spesso traditore, e fellone, un tedesco addottorato di provincia, anzi di paese. Ma per la filosofia invece è un buon argomento: è parte del cammino della verità.
Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, Livre de poche, pp.767, € 9
Roma Fine Secolo nel "Ferramonti"
Si è ripubblicato dieci anni fa in virtù della recensione che Pasolini ne fece nel 1973, quando il romanzo fu riscoperto da Italo Calvino per la sua collana “Centopagine”. Ma di Pasolini, della sua affascinata e affascinante lettura, che l’edizione di Toni Iermano per Avagliano ripropone (si può rileggere anche in “Descrizioni di descrizioni”), il romanzo si può dire vittima, ridotto a “saggio sceneggiato” contro “la qualità abietta della piccola borghesia italiana”, vista “senza alcun amore”. È il romanzo “del «possesso»”, dice Pasolini. E non “del «possesso» verghiano”, che questo “Ferramonti” peraltro anticipa, “reso epico dal suo fondo popolare e contadino: si tratta di un «possesso» la cui unica epicità consiste nel Male, perseguito senza tentennamenti faustiani”, per l’inconsistenza morale della piccola borghesia. Una lettura monotematica, da realismo socialista, che sarebbe una pietra tombale.
Il tema è in effetti la “roba”. Ma anche il suo contrario: ogni altra aspettativa conculcata dai soldi. “L’eredità Ferramenti” è propriamente il romanzo della vitalità sopraffatta dalla mediocrità, e l’idiozia. E può anche leggersi come una storia d’amore sopraffatto. Dall’adulterio, seppure non consenziente nelle sue pratiche di letto, e quasi dall’incesto. Può essere – è – una “Bovary” antemarcia, anche per la misoginia flaubertiana dell’ignoto Chelli, che è poi misantropia. Di una Emma-Irene con più spessore, riformatrice e non rassegnata, che invece di suicidarsi per i debiti si inventa una seconda o terza vita, su sfondo balzacchiano. I personaggi sono ambigui, compreso lo stesso capofamiglia “borghese” eponimo, che ha porti passioni, meno però l’avidità. È del resto stato ripescato nella collana “Centopagine”, che Pasolini deride nella recensione come “kitsch intelligente” di Fine Secolo, ma che di proposito si fece per “saltare” il realismo socialista, delle storie contadine, di borgata, della Resistenza.
L’equivoco di Pasolini è favorito dall’ambiguità del discorso indiretto, che mentre rappresenta censura. E dalla fobia piccolo borghese che, dopo il Sessantotto e Praga, perseguitava lo stesso recensore. “Questo Chelli” è quindi lui, e non solo perché l’autore è il suo critico. La tarda recensione, a quasi un anno dalla ripubblicazione del “Ferramonti”, acuta, partecipata, si rilegge per molti motivi: il titolo anzitutto, “Dopo Verga e prima di Svevo”, l’analisi del discorso indiretto, la geniale “enfasi sdrucciola propria di quegli anni”, e purtroppo anche dei successivi, di fremiti, palpiti, spasimi, terribili, pallidi, trepidi. Ma, anche in questo, non fa giustizia a Chelli, che invece se ne astiene. Iermano prospetta richiami più appropriati, Moreau, Rops, Fogazzaro.
Resta da dire dell’autore. E della corruzione, che segue l’unità d’Italia. Il filone è consistente dei romanzi della corruzione e della concussione, in Pirandello, Ravetta, De Roberto. Si comincia presto con gli scandali, con la Regìa Tabacchi nel 1869, e anzi con le stesse guerre di indipendenza. Il politico moralista “aveva guadagnato molto danaro” in questo romanzo “colle susssistenze militari, nelle guerre di Lombardia”. L’autore, impiegato a Roma ai tabacchi, era reduce da una piccola attività pubblicistica nella sua città, Massa, di cui aveva pubblicato per un decennio l’avvisatore commerciale, “L’Apuano”. Nel quale pubblicò a puntate due racconti, e l’inizio di un terzo. Che ripubblicati da Paolo Giannotti nel 2003 in Racconti dell’Apuano, Edizioni Publieti, fanno luce sulle fonti. Chelli è stato indirizzato alla riedizione nel 1972 (Calvino, Pasolini) su Verga, quello “francese” di Firenze e quello verista. Giannotti trova invece, col metodo dell’acqua calda o delle date, che entrambi, sia Verga che Chelli, ripetono clichè del tempo. A proposito del Verga fiorentino citando Petronio: le fonti sono, “in Italia, la Percoto, Salvatore Farina, e tanti che noi oggi non leggiamo più”. I temi dei racconti sono quelli della letteratura di Fine Secolo: morire d’amore, o per la cupa avidità, lei muore d’amore per lui, stringere in gita, al mare, alla festa, muti patti e promesse di baci e carezze, colpirsi con un fiore. E allora? Allora, Chelli ne sa fare dei racconti.
Gaetano Carlo Chelli, L’eredita Ferramonti
Il tema è in effetti la “roba”. Ma anche il suo contrario: ogni altra aspettativa conculcata dai soldi. “L’eredità Ferramenti” è propriamente il romanzo della vitalità sopraffatta dalla mediocrità, e l’idiozia. E può anche leggersi come una storia d’amore sopraffatto. Dall’adulterio, seppure non consenziente nelle sue pratiche di letto, e quasi dall’incesto. Può essere – è – una “Bovary” antemarcia, anche per la misoginia flaubertiana dell’ignoto Chelli, che è poi misantropia. Di una Emma-Irene con più spessore, riformatrice e non rassegnata, che invece di suicidarsi per i debiti si inventa una seconda o terza vita, su sfondo balzacchiano. I personaggi sono ambigui, compreso lo stesso capofamiglia “borghese” eponimo, che ha porti passioni, meno però l’avidità. È del resto stato ripescato nella collana “Centopagine”, che Pasolini deride nella recensione come “kitsch intelligente” di Fine Secolo, ma che di proposito si fece per “saltare” il realismo socialista, delle storie contadine, di borgata, della Resistenza.
L’equivoco di Pasolini è favorito dall’ambiguità del discorso indiretto, che mentre rappresenta censura. E dalla fobia piccolo borghese che, dopo il Sessantotto e Praga, perseguitava lo stesso recensore. “Questo Chelli” è quindi lui, e non solo perché l’autore è il suo critico. La tarda recensione, a quasi un anno dalla ripubblicazione del “Ferramonti”, acuta, partecipata, si rilegge per molti motivi: il titolo anzitutto, “Dopo Verga e prima di Svevo”, l’analisi del discorso indiretto, la geniale “enfasi sdrucciola propria di quegli anni”, e purtroppo anche dei successivi, di fremiti, palpiti, spasimi, terribili, pallidi, trepidi. Ma, anche in questo, non fa giustizia a Chelli, che invece se ne astiene. Iermano prospetta richiami più appropriati, Moreau, Rops, Fogazzaro.
Resta da dire dell’autore. E della corruzione, che segue l’unità d’Italia. Il filone è consistente dei romanzi della corruzione e della concussione, in Pirandello, Ravetta, De Roberto. Si comincia presto con gli scandali, con la Regìa Tabacchi nel 1869, e anzi con le stesse guerre di indipendenza. Il politico moralista “aveva guadagnato molto danaro” in questo romanzo “colle susssistenze militari, nelle guerre di Lombardia”. L’autore, impiegato a Roma ai tabacchi, era reduce da una piccola attività pubblicistica nella sua città, Massa, di cui aveva pubblicato per un decennio l’avvisatore commerciale, “L’Apuano”. Nel quale pubblicò a puntate due racconti, e l’inizio di un terzo. Che ripubblicati da Paolo Giannotti nel 2003 in Racconti dell’Apuano, Edizioni Publieti, fanno luce sulle fonti. Chelli è stato indirizzato alla riedizione nel 1972 (Calvino, Pasolini) su Verga, quello “francese” di Firenze e quello verista. Giannotti trova invece, col metodo dell’acqua calda o delle date, che entrambi, sia Verga che Chelli, ripetono clichè del tempo. A proposito del Verga fiorentino citando Petronio: le fonti sono, “in Italia, la Percoto, Salvatore Farina, e tanti che noi oggi non leggiamo più”. I temi dei racconti sono quelli della letteratura di Fine Secolo: morire d’amore, o per la cupa avidità, lei muore d’amore per lui, stringere in gita, al mare, alla festa, muti patti e promesse di baci e carezze, colpirsi con un fiore. E allora? Allora, Chelli ne sa fare dei racconti.
Gaetano Carlo Chelli, L’eredita Ferramonti
L'incertezza è già nota
L’età dell’incertezza avrà questa connotazione: che tutto si consuma subito. Compresa la sociologia. Quattro tipologie rientrano a vario titolo nella postmodernità: Il flâneur, il vagabondo, il turista e il giocatore, le quattro categoria della postmodernità, verranno buone per la successiva “liquidità” che caratterizzerà l’analisi di Baumann. Ma stonano dopo appena un decennio con la nuova condizione materiale del vivere: l’aggressione, solo apparentemente confusa, dell’innovazione (strumentazioni, gadget, tariffe), il telefonino e il pc (la solitudine), il benessere decimato dall’euro, la Cina, il mercato così caro, i giovani senza reddito, senza previdenza, senza sanità, e in fondo senza scuola. L’incertezza è una certezza, e molto solida: la burocratizzazione di ogni singolo gesto, la polizia senza sicurezza, la riflessione come analisi di mercato. La modernità non è l’avventura, per molti aspetti l’ignoto è già passato, e non è incerto. Avrà avuto ragione Freud, che apre il libro, che la modernità ha a che fare con la bellezza, ma anche con la pulizia e l’ordine.
Zygmunt Baumann, L’età dell’incertezza
Zygmunt Baumann, L’età dell’incertezza
martedì 23 settembre 2008
Problemi di base (4)
Perché Otello crede a Jago, invece che a Desdemona?
Perché i gesuiti non vogliono Pio XII santo? Loro che erano antisemiti.
Perché Generali prospera, malgrado Mediobanca?
E la Fondiaria Sai di Ligresti?
A che servono le piste ciclabili?
Perché lo Stato non parla italiano?
Perché i cattolici meridionali bruni non disprezzano i protestanti settentrionali biondi?
Perché le macchine non si fanno elettriche?
Perché il succo d’arancia non si fa con le arance? Ce ne sono tante.
Perché i gesuiti non vogliono Pio XII santo? Loro che erano antisemiti.
Perché Generali prospera, malgrado Mediobanca?
E la Fondiaria Sai di Ligresti?
A che servono le piste ciclabili?
Perché lo Stato non parla italiano?
Perché i cattolici meridionali bruni non disprezzano i protestanti settentrionali biondi?
Perché le macchine non si fanno elettriche?
Perché il succo d’arancia non si fa con le arance? Ce ne sono tante.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (23)
Giuseppe Leuzzi
L’europarlamentare Donnici presenta a Strasburgo un’interrogazione contro la giunta Loiero alla Regione Calabria, che spende otto milioni come sponsor delle Nazionali di calcio fino al 2010, e si merita per questo mezza pagina del “Corriere della sera”. L’onorevole cosentino, dell’Italia dei valori, ex della lista Occhetto, ha dei conti da regolare col suo schieramento, quello di Loiero, la sua denuncia della Regione Calabria alla Commissione europea può non stupire. Ma il “Corriere della sera”?
Al Sud non succede niente che non faccia scandalo grave. Anche se il denunciante è l’onorevole Donnici.
È arrivato il generale Mori e il porto di Gioia Tauro diventa covo di delitti. Per un decennio è stato un faro, in posizione leader, per l’economia, il management, l’innovazione, la regolarità del servizio. Ma un generale dei carabinieri sta lì per scovare, snidare, sradicare il crimine. E dunque si comincia. Un container ogni mese o due, su alcuni milioni di container movimentati, giusto per far rientrare anche il porto nell’immaginario italiano su Gioia Tauro, la capitale della mafia. Un container che uno penserebbe pieno di cocaina o eroina, che fa la ricchezza portentosa della mafia calabrese secondo i servizi segreti. Ma no, è un container di vestiti cinesi contraffatti. Importato da altri cinesi. Di vestiti buoni peraltro, meglio tagliati e cuciti di tanti nazionali, e per il prezzo addirittura eccezionali, un affarone, ma che indebitamente portano marchi non di competenza. E dunque la Calabria deve pagare anche per la protezione dei marchi milanesi. Passi. Ma è il crimine creato dai carabinieri, dai Procuratori della Repubblica, dai cronisti giudiziari? Ma allora, eccellenza Mori, memore del prefetto, ci restituisca l’onore: trovi presto qualche container pieno di droga, se non di kalashnikoff - o di carne umana, come li ha trovati il best-seller Mondadori di Saviano.
La liberazione del Sud dev’essere soprattutto da Napoli. E dalla Sicilia.
Del repertorio delle memorie popolari raccolte a Sansepolcro-Anghiari, diari, lettere, novelle, memorie registrate, quelle delle donne in età sanno di saputo, riferite agli anni tra il 1940 e il 1950, nelle zone di montagna dell’Appennino tosco-emiliano.
“Allora per sposarsi usava “scappare”, perché c’era miseria”, trascrivono Angela Maria Fruzzetti e Rossana Lazzini frugando nelle loro conversazioni con le anziani delle Apuane. Il matrimonio si celebrava poi di mattina presto, senza vestito bianco, seguito da un rinfresco per i soli familiari. La “fuitina” più spesso si faceva per non spendere, per abiti, addobbi, ricevimento, non tutti hanno i soldi.
“Quando i due giovani ricevevano il benestare della famiglia, gli era permesso di “fare l’amore” a distanza: lei alla finestra e lui a passeggiare sotto, su e giù nella strada”.
“Quando una ragazza, pur se ignorante o ingenua, restava incinta ed era rifiutata dal suo s seduttore, tutte le colpe si riversavano su di lei. Ma il danno maggiore, all’epoca, ricadeva sulle spalle dei genitori e dell’intera famiglia. Tutta la famiglia era disonorata”.
Si partoriva in casa. Ma qui nulla di male: ora si riusa.
“Sapevamo tutto di tutti, anche di faccende intime. Questo è un aspetto che ancora oggi è rimasto nei paesi di montagna. Però, se c’era da tenere un segreto, le bocche erano veramente cucite. L’omertà era totale, specie con gli «stranieri»”.
Il “Sud” non è insomma speciale, diverso – se è diverso non è per questo. I costumi sociali sono comuni agli stessi ceti, nello stesso territorio di montagna, specie se conformati dal bisogno. L’“invenzione del Sud” è stata per questo aspetto tanto folle quanto perversa. Anche dopo il referendum del 1974 (il divorzio), che fu vinto dalle donne del Sud. Segregare il Sud riversandogli addosso in blocco in massa tutti gli stereotipi non graditi è peraltro operazione sempre fiorente, la malasanità, il pizzo, la diseducazione, la droga, la corruzione, la raccomandazione, il fancazzismo, lo spreco di denaro pubblico. A opera principalmente dei giornali locali, specie in Sicilia e in Calabria.
Si passa con volubilità e vivacità da un argomento all’altro, il vino, l’olio, il petrolio, lo stocco, l’autostrada, la montagna, la politica più utopistica,”frammenti di eventi storici ancora più sbalorditivi, ciarlando senza tregua di questo e di quello con gran buon umore e stupefacente ignoranza dei fatti, con infantile assurdità, la più completa serenità e l’umore più scettico e sagace”. Così i contadini di Vernon Lee alla periferia di Mantova, nel racconto “L’avventura di Winthrop”. Immutabili, e anche divertenti. Se non che la Rai e la Repubblica dei diritti hanno trasformato la provincia in piccola borghesia saccente. Irosa, sprezzante. Per essere pronta a (vittima di?) ogni compromesso: tutto è visto, infatti, esposto, analizzato, discettato, in termini di potere, di affermazione di sé comparativa: “Io ne so più di te, posso più di te, e sono migliore”. La connettività è l’invidia sociale.
Il punto d’insofferenza più acuto tra chi è partito e chi è rimasto è la saccenza. Che si corona sull’ignoranza. Chi è andato via ha dovuto imparare a “sapere”, e odia l’approssimazione. Ma più per la saccenteria, che non è più pettegolezzo e passatempo, è ignoranza.
Lady Ciccone, Madonna Ciccone, “Repubblica” e “Corriere” e “Messaggero” fanno a gara nell’esibire per la star la connotazione diminutiva, di figlia di emigranti, per di più meridionali. Non per la concorrenza, perché tutti i giornali ne magnificano il concerto, danno indicazioni per gli accessi, trovano i biglietti esauriti. Disprezzo della donna? Sì – quanti elogi per Celentano e il modesto “Yuppi Du”, negli stessi giornali negli stessi giorni. Ma a opera di giornaliste femmine. Disprezzo per l’emigrazione pulciosa del Sud. Certo, ma a opera magari di giornalisti meridionali. È la stupidità che regge l’Italia. Non la superficialità: proprio la cattiveria tipica degli straccioni. Che se cerca un primato ce l’ha: è il democraticismo degli stupidi e gli ignoranti, che sempre sono violenti.
Pentimento. Statisticamente, i criminali sentono il bisogno di confessare. A chiunque, pare, qualsiasi cosa. Non di pentirsi, o di punirsi, ma di raccontarla. Farsi in qualche modo protagonisti, sia pure di racconti o romanzi sguaiati.
Il pentimento è narrazione. Come fatto attivo – denunciare, quindi giudicare – è in realtà non pentirsi.
Il vero pentimento sarebbe l’autoannullamento – è la metafora della prigione.
C’è una lingua comune, in Calabria e Sicilia, un dialetto neo-latino compartecipato. La Calabria si è latinizzata via Sicilia, durante l’impero romano e poi coi normanni, ma ci sono diversi linguaggi. Il barbiere chiacchierone di uno dei “Padrini”, dovrebbe essere “Il padrino III”, è di Gioia Tauro e ne ha, nell’originale, la parlata. Mentre De Niro, che fa l’americano di origine palermitana, è taciturno in palermitano.
Ho imparato a conoscere la Calabria da Old Calabria. Da Corrado Alvaro naturalmente, ma quella è la Calabria come appare, senza storia, mutangola, con poco carattere, circoscritta nella rassegnazione, quando non nella bestialità. I suoi linguaggi, e i suoi orizzonti, sono quelli aperti da Old Calabria, a venticinque anni, per un regalo di mia moglie a Londra.
Ci siamo passati la prima volta nel maggio 1968, impolverati nello Spitfire Triumph, tra pietraie e muretti a secco. Poi il calore della pietra del ragusano è stato messo a frutto, e ora è oro verde: il pomodoro di Pachino, il nero d’Avola eccetera. Vi si fa anche turismo, gradevole, di mare, d’arte, di natura,di gelati e perfino di cioccolata.
Si discute di fare meglio l’olio dell’infinito uliveto che da Massarosa va alla Spezia, di individuare e debellare le cause specifiche della “mal’aria” lungo il mare, di migliorare gli accessi e gli sbocchi della tante cave, non solo di marmo, di assestare i terreni in pendio, del miglior uso della manomorta e dei tesori della chiesa. Non senza interesse per il lettore di oggi, anzi con taglio sempre contemporaneo. Effetto forse della letteratura economica, quando si lega alla storia e ai caratteri, della natura e delle popolazioni.Nel 1845, anno della pubblicazione di questa ristampa, “Saggio storico dell’antica e moderna Versilia”, di Ranieri Barbacciani-Fedeli, la Versilia era solo un pontile malfermo per i carichi di marmo. Non c’era l’industria della sabbia, della spiaggia di mare. E il Forte, che ora vende il metro quadrato al prezzo più alto in Italia, era uno dei tanti disseminati dai granduchi lungo la costa. Ma la cura era la stessa. Quella dell’ulivo è perfino commovente, una coltura che tanto è ricca come prodotto quanto è abbandonata in Italia al traffico dei marchi e all’insensata politica agricola europea. Il “tenue lavoro storico-patrio” del Barbacciani-Fedeli, “socio di rispettabili accademie italiane”, documenta un paio di dozzine di tipologie di olivi, quercetano o minutaio, stringaio, grossinaio, moraiolo, frantoiano o morcaio, mortellino o allorino, pallottolaio, cornetto, peppolaio, laurino, colombino o razzarolo, cucco, grendinone, bastardo, selvatico, tiburtino… Ricca è anche la “geoponica olearia”: la luce tra le ceppaie, e tra i grandi e piccoli rami, la potatura dall’alto, eccetera, due terzi di morcaio, il venti per cento di grossinaio e il dieci per cento di minutaio, come prescrive l’uso, oggi si direbbe il disciplinare della coltura dell’olivo nella lucchesia. E la tecnica di lavorazione: lo “spolpa olive” del signor Stancovich, il “torchio oleario domestico portatile” dello stesso, il procedimento Bonard, parroco di Vandarques in Francia, “per ricavare dall’ulive una maggiore quantità di olio… (mediante) una semplicissima aspersione dell’ulive nell’aceto”. Era come avere il mare oggi, l’industria che ha reso superflua la fatica e moltiplica il reddito.
L’europarlamentare Donnici presenta a Strasburgo un’interrogazione contro la giunta Loiero alla Regione Calabria, che spende otto milioni come sponsor delle Nazionali di calcio fino al 2010, e si merita per questo mezza pagina del “Corriere della sera”. L’onorevole cosentino, dell’Italia dei valori, ex della lista Occhetto, ha dei conti da regolare col suo schieramento, quello di Loiero, la sua denuncia della Regione Calabria alla Commissione europea può non stupire. Ma il “Corriere della sera”?
Al Sud non succede niente che non faccia scandalo grave. Anche se il denunciante è l’onorevole Donnici.
È arrivato il generale Mori e il porto di Gioia Tauro diventa covo di delitti. Per un decennio è stato un faro, in posizione leader, per l’economia, il management, l’innovazione, la regolarità del servizio. Ma un generale dei carabinieri sta lì per scovare, snidare, sradicare il crimine. E dunque si comincia. Un container ogni mese o due, su alcuni milioni di container movimentati, giusto per far rientrare anche il porto nell’immaginario italiano su Gioia Tauro, la capitale della mafia. Un container che uno penserebbe pieno di cocaina o eroina, che fa la ricchezza portentosa della mafia calabrese secondo i servizi segreti. Ma no, è un container di vestiti cinesi contraffatti. Importato da altri cinesi. Di vestiti buoni peraltro, meglio tagliati e cuciti di tanti nazionali, e per il prezzo addirittura eccezionali, un affarone, ma che indebitamente portano marchi non di competenza. E dunque la Calabria deve pagare anche per la protezione dei marchi milanesi. Passi. Ma è il crimine creato dai carabinieri, dai Procuratori della Repubblica, dai cronisti giudiziari? Ma allora, eccellenza Mori, memore del prefetto, ci restituisca l’onore: trovi presto qualche container pieno di droga, se non di kalashnikoff - o di carne umana, come li ha trovati il best-seller Mondadori di Saviano.
La liberazione del Sud dev’essere soprattutto da Napoli. E dalla Sicilia.
Del repertorio delle memorie popolari raccolte a Sansepolcro-Anghiari, diari, lettere, novelle, memorie registrate, quelle delle donne in età sanno di saputo, riferite agli anni tra il 1940 e il 1950, nelle zone di montagna dell’Appennino tosco-emiliano.
“Allora per sposarsi usava “scappare”, perché c’era miseria”, trascrivono Angela Maria Fruzzetti e Rossana Lazzini frugando nelle loro conversazioni con le anziani delle Apuane. Il matrimonio si celebrava poi di mattina presto, senza vestito bianco, seguito da un rinfresco per i soli familiari. La “fuitina” più spesso si faceva per non spendere, per abiti, addobbi, ricevimento, non tutti hanno i soldi.
“Quando i due giovani ricevevano il benestare della famiglia, gli era permesso di “fare l’amore” a distanza: lei alla finestra e lui a passeggiare sotto, su e giù nella strada”.
“Quando una ragazza, pur se ignorante o ingenua, restava incinta ed era rifiutata dal suo s seduttore, tutte le colpe si riversavano su di lei. Ma il danno maggiore, all’epoca, ricadeva sulle spalle dei genitori e dell’intera famiglia. Tutta la famiglia era disonorata”.
Si partoriva in casa. Ma qui nulla di male: ora si riusa.
“Sapevamo tutto di tutti, anche di faccende intime. Questo è un aspetto che ancora oggi è rimasto nei paesi di montagna. Però, se c’era da tenere un segreto, le bocche erano veramente cucite. L’omertà era totale, specie con gli «stranieri»”.
Il “Sud” non è insomma speciale, diverso – se è diverso non è per questo. I costumi sociali sono comuni agli stessi ceti, nello stesso territorio di montagna, specie se conformati dal bisogno. L’“invenzione del Sud” è stata per questo aspetto tanto folle quanto perversa. Anche dopo il referendum del 1974 (il divorzio), che fu vinto dalle donne del Sud. Segregare il Sud riversandogli addosso in blocco in massa tutti gli stereotipi non graditi è peraltro operazione sempre fiorente, la malasanità, il pizzo, la diseducazione, la droga, la corruzione, la raccomandazione, il fancazzismo, lo spreco di denaro pubblico. A opera principalmente dei giornali locali, specie in Sicilia e in Calabria.
Si passa con volubilità e vivacità da un argomento all’altro, il vino, l’olio, il petrolio, lo stocco, l’autostrada, la montagna, la politica più utopistica,”frammenti di eventi storici ancora più sbalorditivi, ciarlando senza tregua di questo e di quello con gran buon umore e stupefacente ignoranza dei fatti, con infantile assurdità, la più completa serenità e l’umore più scettico e sagace”. Così i contadini di Vernon Lee alla periferia di Mantova, nel racconto “L’avventura di Winthrop”. Immutabili, e anche divertenti. Se non che la Rai e la Repubblica dei diritti hanno trasformato la provincia in piccola borghesia saccente. Irosa, sprezzante. Per essere pronta a (vittima di?) ogni compromesso: tutto è visto, infatti, esposto, analizzato, discettato, in termini di potere, di affermazione di sé comparativa: “Io ne so più di te, posso più di te, e sono migliore”. La connettività è l’invidia sociale.
Il punto d’insofferenza più acuto tra chi è partito e chi è rimasto è la saccenza. Che si corona sull’ignoranza. Chi è andato via ha dovuto imparare a “sapere”, e odia l’approssimazione. Ma più per la saccenteria, che non è più pettegolezzo e passatempo, è ignoranza.
Lady Ciccone, Madonna Ciccone, “Repubblica” e “Corriere” e “Messaggero” fanno a gara nell’esibire per la star la connotazione diminutiva, di figlia di emigranti, per di più meridionali. Non per la concorrenza, perché tutti i giornali ne magnificano il concerto, danno indicazioni per gli accessi, trovano i biglietti esauriti. Disprezzo della donna? Sì – quanti elogi per Celentano e il modesto “Yuppi Du”, negli stessi giornali negli stessi giorni. Ma a opera di giornaliste femmine. Disprezzo per l’emigrazione pulciosa del Sud. Certo, ma a opera magari di giornalisti meridionali. È la stupidità che regge l’Italia. Non la superficialità: proprio la cattiveria tipica degli straccioni. Che se cerca un primato ce l’ha: è il democraticismo degli stupidi e gli ignoranti, che sempre sono violenti.
Pentimento. Statisticamente, i criminali sentono il bisogno di confessare. A chiunque, pare, qualsiasi cosa. Non di pentirsi, o di punirsi, ma di raccontarla. Farsi in qualche modo protagonisti, sia pure di racconti o romanzi sguaiati.
Il pentimento è narrazione. Come fatto attivo – denunciare, quindi giudicare – è in realtà non pentirsi.
Il vero pentimento sarebbe l’autoannullamento – è la metafora della prigione.
C’è una lingua comune, in Calabria e Sicilia, un dialetto neo-latino compartecipato. La Calabria si è latinizzata via Sicilia, durante l’impero romano e poi coi normanni, ma ci sono diversi linguaggi. Il barbiere chiacchierone di uno dei “Padrini”, dovrebbe essere “Il padrino III”, è di Gioia Tauro e ne ha, nell’originale, la parlata. Mentre De Niro, che fa l’americano di origine palermitana, è taciturno in palermitano.
Ho imparato a conoscere la Calabria da Old Calabria. Da Corrado Alvaro naturalmente, ma quella è la Calabria come appare, senza storia, mutangola, con poco carattere, circoscritta nella rassegnazione, quando non nella bestialità. I suoi linguaggi, e i suoi orizzonti, sono quelli aperti da Old Calabria, a venticinque anni, per un regalo di mia moglie a Londra.
Ci siamo passati la prima volta nel maggio 1968, impolverati nello Spitfire Triumph, tra pietraie e muretti a secco. Poi il calore della pietra del ragusano è stato messo a frutto, e ora è oro verde: il pomodoro di Pachino, il nero d’Avola eccetera. Vi si fa anche turismo, gradevole, di mare, d’arte, di natura,di gelati e perfino di cioccolata.
Si discute di fare meglio l’olio dell’infinito uliveto che da Massarosa va alla Spezia, di individuare e debellare le cause specifiche della “mal’aria” lungo il mare, di migliorare gli accessi e gli sbocchi della tante cave, non solo di marmo, di assestare i terreni in pendio, del miglior uso della manomorta e dei tesori della chiesa. Non senza interesse per il lettore di oggi, anzi con taglio sempre contemporaneo. Effetto forse della letteratura economica, quando si lega alla storia e ai caratteri, della natura e delle popolazioni.Nel 1845, anno della pubblicazione di questa ristampa, “Saggio storico dell’antica e moderna Versilia”, di Ranieri Barbacciani-Fedeli, la Versilia era solo un pontile malfermo per i carichi di marmo. Non c’era l’industria della sabbia, della spiaggia di mare. E il Forte, che ora vende il metro quadrato al prezzo più alto in Italia, era uno dei tanti disseminati dai granduchi lungo la costa. Ma la cura era la stessa. Quella dell’ulivo è perfino commovente, una coltura che tanto è ricca come prodotto quanto è abbandonata in Italia al traffico dei marchi e all’insensata politica agricola europea. Il “tenue lavoro storico-patrio” del Barbacciani-Fedeli, “socio di rispettabili accademie italiane”, documenta un paio di dozzine di tipologie di olivi, quercetano o minutaio, stringaio, grossinaio, moraiolo, frantoiano o morcaio, mortellino o allorino, pallottolaio, cornetto, peppolaio, laurino, colombino o razzarolo, cucco, grendinone, bastardo, selvatico, tiburtino… Ricca è anche la “geoponica olearia”: la luce tra le ceppaie, e tra i grandi e piccoli rami, la potatura dall’alto, eccetera, due terzi di morcaio, il venti per cento di grossinaio e il dieci per cento di minutaio, come prescrive l’uso, oggi si direbbe il disciplinare della coltura dell’olivo nella lucchesia. E la tecnica di lavorazione: lo “spolpa olive” del signor Stancovich, il “torchio oleario domestico portatile” dello stesso, il procedimento Bonard, parroco di Vandarques in Francia, “per ricavare dall’ulive una maggiore quantità di olio… (mediante) una semplicissima aspersione dell’ulive nell’aceto”. Era come avere il mare oggi, l’industria che ha reso superflua la fatica e moltiplica il reddito.
Secondi pensieri (18)
zeulig
Accumulo - È il processo di formazione psicologica per eccellenza, il motore che una volta avviato si ricarica. Se non ponderato con riesami periodici, e dall’autocritica, anche per effetto degli eventi, è destinato a creare per concrezioni successive dei mostri. In tutte le forme dell’amore, comprese la gelosia e l’odio, e nell’antropia, la filosofia, la ricerca, la creazione. Si diventa violenti con convinzione, oltre che santi.
Coscienza – La solitudine, dice Mannheim in Ideologia e utopia, è coscienza che “non ricopre l’Essere circostante”. O non il contrario, che percepisce il circostante ma non l’Essere? La solitudine – la coscienza - è il vuoto di sé.
Felicità – Viene proiettata in avanti, tipica materia di utopia, sullo sviluppo individuale, al di là della diga salute-lavoro (sussistenza, reddito, occupazione del tempo). In un improbabile terreno delle passioni, erotiche,sociali, spirituali. Mentre è determinata a monte dalla linea sopravvivenza. Soprattutto nella società moderna o delle classi medie, che l’asse affluenza-salutismo hanno ingigantito oltre che inspessito. È determinata dal “nemico invisibile” (educazione, esperienza, mentalità, e tradizione – società o tribù, e Dna), dall’opinione pubblica, dallo Stato nelle sue innumerevoli filiere repressive. Se la determinante “invisibile” è amica, invece che ostile, la felicità è tutta lì.
Filosofia - Dissecca perché distingue. Non solo la logica, anche la metafisica. La stupidità, che è violenza, è già più sociale, accorpa. La religione ha più richiamo perché insiste, per quanto al coperto, sul grumo comune, è eminentemente un fatto politico.
La socialità non ha nulla a che vedere con la verità?
La filosofia che ha dimenticato la dimensione religiosa ha già dimenticato la verità.
Non produce conoscenza – di che? – ma altra filosofia. Quando è in forma di conoscenza è un adattamento, un transcript – come dal Libro degli amici.
Fotografia – È sempre beffarda, perché decontestualizza. Soprattutto la foto documentaria. Solo quella ricordo è reale, perché è privata.
Per la pubblicità è – come lo è – ok.
Movimento – Ritorna per il Sessantotto. È francese e sa di Heidegger. Ma il movimento è totalitario, fascista, nazista – non comunista, sovietico. Va con le masse: i gruppi che si vogliono masse.
Morte – La morte è poco filosofica: sempre si è nati, e si è vivi. A prova del con-trario il filosofo Antistene più volte tentò il suicidio, ma lo fallì. Il senso della fine è delle storie, ne romanzi, la politica, l’impresa, che sono un surrogato e non un quadro della realtà, e vanno coi premi e i primati. Il tempo è immortale, altrimenti non sarebbe. È un metronomo. Anzi, un pendolo: non accelera, indifferente. “Lo scopo della vita è la morte” e “il non essere esisteva prima dell’essere” sono di Freud - di chi altri sennò, la cultura del lutto. Che Heidegger avalla: “La storicità autentica è l’es-sere-per-la-morte”. Ma filosoficamente l’essere, la vita, esiste prima dell’esserci, qui e ora, e continua dopo la morte. Il dottor Freud dice bene: “Ogni essere muore necessariamente per cause interne”. La realtà entra in noi, che la realizziamo, molto prima di essere. Come presagio, desiderio, rovina - ma raccontare è utile, estrae il reale dall’irreale.
Non è la fine di ogni inizio ma il non poterlo fare più, un dispiacere. Un inconveniente, non un destino, anche se fatale – ma chissà.
Riso – A Dio mancherà. La celebre battuta, mentre condannava Adamo alla compagnia femminile e alla fatica, “ecco, l’uomo è divenuto uno di noi”, come un dio, la disse in uno sbocco d’ira. E dopo d’allora non ha più parlato – sì, a Mosè, ma Mosè era egiziano, non c’è da fidarsi.
Rivoluzione – Se ne avvalgono i mediocri, se ne avvantaggiano. Poi ce ne vuole prima che i belli-e-buoni riemergano.
Non ci sono poeti nelle rivoluzioni, né filosofi. Prima sì, e dopo, non durante.
È, si dice, lo strumento per eccellenza della politica. Invece la interrompe, come la guerra prima di Clausewitz, e dopo.
Sentimenti – I buoni sentimenti sono anche cattivi: il rapporto d’inclusione implica l’esclusione. Ci vulle forza d’animo e cultura per nutrire sentimenti equilibrati, cioè non esclusivi. Nei rapporti personali come in quelli sociali, e perfino in politica – il pacifismo che non sia critica del Nemico e lode dell’Amico.
Stupidità – Esiste, e più spesso è graziosa.
Senza Dio è la nostra fondamentale condizione. Tutta la filosofia è stupidità, non solo quella dello stupore, e la vita.
L’assenza di causalità è la stupidità – l’assenza di ragione logica.
Può essere gioiosa: fa della vita un fuoco fatuo.
Tecnica - È l’altro lato della guerra dell’homo faber. L’evoluzione selettiva da tempo ha portato l’uomo di fronte a un solo nemico, se stesso.
Tolleranza - È poter essere tollerati
Implica una majestas, una gerarchia morale.
Tradizione – Non vive se non è recuperata: la tradizione è un’invenzione. Si costruisce come la storia, lì per lì.
Utopia - È servile: fa sempre bene a qualcuno, mai a se stessi.
È fissazione dell’immaginario. Doppiamente pericolosa, a destra e a sinistra, poiché è sempre domanda di ordine. La caserma di Bismarck, luogo dell’ordine, e l’uguaglianza sono uguali.
zeulig@gmail.com
Accumulo - È il processo di formazione psicologica per eccellenza, il motore che una volta avviato si ricarica. Se non ponderato con riesami periodici, e dall’autocritica, anche per effetto degli eventi, è destinato a creare per concrezioni successive dei mostri. In tutte le forme dell’amore, comprese la gelosia e l’odio, e nell’antropia, la filosofia, la ricerca, la creazione. Si diventa violenti con convinzione, oltre che santi.
Coscienza – La solitudine, dice Mannheim in Ideologia e utopia, è coscienza che “non ricopre l’Essere circostante”. O non il contrario, che percepisce il circostante ma non l’Essere? La solitudine – la coscienza - è il vuoto di sé.
Felicità – Viene proiettata in avanti, tipica materia di utopia, sullo sviluppo individuale, al di là della diga salute-lavoro (sussistenza, reddito, occupazione del tempo). In un improbabile terreno delle passioni, erotiche,sociali, spirituali. Mentre è determinata a monte dalla linea sopravvivenza. Soprattutto nella società moderna o delle classi medie, che l’asse affluenza-salutismo hanno ingigantito oltre che inspessito. È determinata dal “nemico invisibile” (educazione, esperienza, mentalità, e tradizione – società o tribù, e Dna), dall’opinione pubblica, dallo Stato nelle sue innumerevoli filiere repressive. Se la determinante “invisibile” è amica, invece che ostile, la felicità è tutta lì.
Filosofia - Dissecca perché distingue. Non solo la logica, anche la metafisica. La stupidità, che è violenza, è già più sociale, accorpa. La religione ha più richiamo perché insiste, per quanto al coperto, sul grumo comune, è eminentemente un fatto politico.
La socialità non ha nulla a che vedere con la verità?
La filosofia che ha dimenticato la dimensione religiosa ha già dimenticato la verità.
Non produce conoscenza – di che? – ma altra filosofia. Quando è in forma di conoscenza è un adattamento, un transcript – come dal Libro degli amici.
Fotografia – È sempre beffarda, perché decontestualizza. Soprattutto la foto documentaria. Solo quella ricordo è reale, perché è privata.
Per la pubblicità è – come lo è – ok.
Movimento – Ritorna per il Sessantotto. È francese e sa di Heidegger. Ma il movimento è totalitario, fascista, nazista – non comunista, sovietico. Va con le masse: i gruppi che si vogliono masse.
Morte – La morte è poco filosofica: sempre si è nati, e si è vivi. A prova del con-trario il filosofo Antistene più volte tentò il suicidio, ma lo fallì. Il senso della fine è delle storie, ne romanzi, la politica, l’impresa, che sono un surrogato e non un quadro della realtà, e vanno coi premi e i primati. Il tempo è immortale, altrimenti non sarebbe. È un metronomo. Anzi, un pendolo: non accelera, indifferente. “Lo scopo della vita è la morte” e “il non essere esisteva prima dell’essere” sono di Freud - di chi altri sennò, la cultura del lutto. Che Heidegger avalla: “La storicità autentica è l’es-sere-per-la-morte”. Ma filosoficamente l’essere, la vita, esiste prima dell’esserci, qui e ora, e continua dopo la morte. Il dottor Freud dice bene: “Ogni essere muore necessariamente per cause interne”. La realtà entra in noi, che la realizziamo, molto prima di essere. Come presagio, desiderio, rovina - ma raccontare è utile, estrae il reale dall’irreale.
Non è la fine di ogni inizio ma il non poterlo fare più, un dispiacere. Un inconveniente, non un destino, anche se fatale – ma chissà.
Riso – A Dio mancherà. La celebre battuta, mentre condannava Adamo alla compagnia femminile e alla fatica, “ecco, l’uomo è divenuto uno di noi”, come un dio, la disse in uno sbocco d’ira. E dopo d’allora non ha più parlato – sì, a Mosè, ma Mosè era egiziano, non c’è da fidarsi.
Rivoluzione – Se ne avvalgono i mediocri, se ne avvantaggiano. Poi ce ne vuole prima che i belli-e-buoni riemergano.
Non ci sono poeti nelle rivoluzioni, né filosofi. Prima sì, e dopo, non durante.
È, si dice, lo strumento per eccellenza della politica. Invece la interrompe, come la guerra prima di Clausewitz, e dopo.
Sentimenti – I buoni sentimenti sono anche cattivi: il rapporto d’inclusione implica l’esclusione. Ci vulle forza d’animo e cultura per nutrire sentimenti equilibrati, cioè non esclusivi. Nei rapporti personali come in quelli sociali, e perfino in politica – il pacifismo che non sia critica del Nemico e lode dell’Amico.
Stupidità – Esiste, e più spesso è graziosa.
Senza Dio è la nostra fondamentale condizione. Tutta la filosofia è stupidità, non solo quella dello stupore, e la vita.
L’assenza di causalità è la stupidità – l’assenza di ragione logica.
Può essere gioiosa: fa della vita un fuoco fatuo.
Tecnica - È l’altro lato della guerra dell’homo faber. L’evoluzione selettiva da tempo ha portato l’uomo di fronte a un solo nemico, se stesso.
Tolleranza - È poter essere tollerati
Implica una majestas, una gerarchia morale.
Tradizione – Non vive se non è recuperata: la tradizione è un’invenzione. Si costruisce come la storia, lì per lì.
Utopia - È servile: fa sempre bene a qualcuno, mai a se stessi.
È fissazione dell’immaginario. Doppiamente pericolosa, a destra e a sinistra, poiché è sempre domanda di ordine. La caserma di Bismarck, luogo dell’ordine, e l’uguaglianza sono uguali.
zeulig@gmail.com
lunedì 22 settembre 2008
Berlusconi nel "Corriere" e in Generali
Berlusconi entrerà nel patto di sindacato di Mediobanca, di cui già gode i privilegi. L’ingresso in Mediobanca è parte di un disegno ampio, e non è solo l’opera di Geronzi.
I Berlusconi in Mediobanca è la notizia di cui meno si parla sui grandi giornali, ma che occupa Milano. Marina è nel consiglio del “salotto buono” a titolo proprio, più che di socio di maggioranza del socio Mediolanum, per un armistizio che è quasi una pace. Ce l’ha portata Cesare Geronzi, il nuovo dominus della banca. A dispetto di Profumo. Ma con l’avallo di Bazoli. Nonché di Trieste, malgrado l’ennesimo conflitto d’interessi del presidente del consiglio, coproprietario di Mediolanum. E la neutralità di Tronchetti Provera, per quello che conta. Berlusconi in Mediobanca può farsi forte, oltre che di Geronzi, dei soci francesi.
L’effetto della pace sarà immediato sulla Rcs. Sul “Corriere della sera” in prima battuta – che anzi ha preceduto la svolta. In un secondo momento sulla casa editrice, specializzata nei best-seller antiberlusconiani. Nel tempo l’intesa si potrebbe allargare alle assicurazioni. Attraverso l’entrata di Mediolanum, di cui la Fininvest è socio di maggioranza col 35 per cento, nell’orbita di Generali. Oppure attraverso un disimpegno di Fininvest da Mediolanum e l’assunzione di una quota nel patto di controllo di Generali.
I Berlusconi in Mediobanca è la notizia di cui meno si parla sui grandi giornali, ma che occupa Milano. Marina è nel consiglio del “salotto buono” a titolo proprio, più che di socio di maggioranza del socio Mediolanum, per un armistizio che è quasi una pace. Ce l’ha portata Cesare Geronzi, il nuovo dominus della banca. A dispetto di Profumo. Ma con l’avallo di Bazoli. Nonché di Trieste, malgrado l’ennesimo conflitto d’interessi del presidente del consiglio, coproprietario di Mediolanum. E la neutralità di Tronchetti Provera, per quello che conta. Berlusconi in Mediobanca può farsi forte, oltre che di Geronzi, dei soci francesi.
L’effetto della pace sarà immediato sulla Rcs. Sul “Corriere della sera” in prima battuta – che anzi ha preceduto la svolta. In un secondo momento sulla casa editrice, specializzata nei best-seller antiberlusconiani. Nel tempo l’intesa si potrebbe allargare alle assicurazioni. Attraverso l’entrata di Mediolanum, di cui la Fininvest è socio di maggioranza col 35 per cento, nell’orbita di Generali. Oppure attraverso un disimpegno di Fininvest da Mediolanum e l’assunzione di una quota nel patto di controllo di Generali.
Si parla di fascismo per non dire sovietismo
Ritorna curiosa, ma sempre col suo surrettizio significato, la questione se l’Italia sia al fascismo. O con l’“eterno fascismo” degli italiani tirato in ballo da Piero Ignazi, collaboratore del “Sole 24 Ore”, sul n.3 del “Mulino” col saggio “La Destra trionfante”. Oppure con la questione del fascismo, se sia “male assoluto”. Entrambi gli aspetti li risolleva Paolo Mieli, lo storico direttore del “Corriere della sera”, pubblicando sabato 20 una scheda al vetriolo di Giuseppe Galasso sullo scritto avventurato di Ignazi, vecchio di cinque mesi, mentre nella pagina delle lettere il curatore Sergio Romano entra diretto nella questione del “fascismo male assoluto”. Espressione che fa risalire al viaggio di Fini a Gerusalemme, e quindi a un motivo politico continente, e dice “priva di qualsiasi rilevanza storica e un po’ troppo enfatica”. Portando a sostegno le considerazioni “contenute in una lettera di Norberto Bobbio al filosofo Augusto Del Noce del 18 gennaio 1980,… pubblicate in un numero della rivista "Micromega" dell'anno seguente” (la lettera è in realtà del 1989, la pubblicazione del 1990). Bobbio, esperto di scienza politica, e uomo prudente, vi si esprime contro l’assolutizzazione, del fascismo come della democrazia.
C’è un pizzico di irrisione nella polemica, in carattere con l’estrema autonomia intellettuale di Mieli. Ma è una polemica ambigua – ridicola - al quadrato: si vuole impedire al fascismo di essere fascismo? Il fascismo rivendica il totalitarismo.
C’è da sospettare quando s’imbordellisce l’attualità con la storia - Berlusconi è abbastanza Berlusconi per doverlo fare fascista. E' il seguito dell’equivalenza tra Resistenza e Salò? La convergenza di Violante e di Alemanno, per semplificare, si sa che è intesa al solito reciproco riconoscimento con assoluzione dei due totalitarismi. La verità dell’attualità sarebbe semplice: siamo tutti antifascisti, l’Italia si è vaccinata con il disastro della guerra, se non con l’abiezione delle persecuzioni. E allora?
Allora, il sospetto deve avanzarsi che si parla di fascismo e antifascismo per non parlare di sovietismo. Che l’Italia non ha cancellato. Il totalitarismo da cui ci dobbiamo difendere non è il fascismo ma il sovietismo, che è più spesso un mondo chiesastico, quando non è ex Pci: quello che non si vuol dire è che l’Italia è un paese sovietico per troppi aspetti.
In un saggio per la rivista di Assisi “Rocca”, anticipato sul sito di “Micromega”, Raniero La Valle argomenta che “certo il fascismo non tornerebbe con le camicie nere e l’olio di ricino (oggi si usano le spranghe), ma al di là delle forme, c’è un contenuto profondo del fascismo, un classismo ontologico, un’antropologia della disuguaglianza, una concezione esclusivista del potere, un primato della forza e, non ultimo, un culto del denaro, che fanno del fascismo un archetipo politico che sottende e può esplodere in qualsiasi società”. Tutto questo però non è fascismo, ha solo le stigmate del deprecato liberalismo.
Ma anche nel pensiero avulso di Assisi i punti di contatto dell’Italia di oggi col sovietismo dovrebbero risultare più numerosi e insidiosi che non quelli di La Valle col fascismo. L’inefficienza pubblica eletta a sistema e protetta dal sindacato, inclusa la giustizia, un mercato opaco, controllato nel solo interesse del capitale, un’informazione non veritiera (più di quella di Berlusconi, giacché esprime governi che perdono le elezioni), la strafottenza dei pubblici poteri, dalla spazzatura agli acquedotti, la minuta corruzione, dagli appalti all'orario di lavoro. Con un governo politico di destra ma con un apparato istituzionale, quello che assicura la continuità, sicuramente di sinistra: il presidente della Repubblica, i capi della Rai, della Corte Costituzionale, del Csm, di quasi tutte le autorità di controllo del mercato, della Banca d’Italia, delle banche, dell’editoria, del sindacato politico, una nomenklatura, una casta?, più spesso non edificante.
C’è un pizzico di irrisione nella polemica, in carattere con l’estrema autonomia intellettuale di Mieli. Ma è una polemica ambigua – ridicola - al quadrato: si vuole impedire al fascismo di essere fascismo? Il fascismo rivendica il totalitarismo.
C’è da sospettare quando s’imbordellisce l’attualità con la storia - Berlusconi è abbastanza Berlusconi per doverlo fare fascista. E' il seguito dell’equivalenza tra Resistenza e Salò? La convergenza di Violante e di Alemanno, per semplificare, si sa che è intesa al solito reciproco riconoscimento con assoluzione dei due totalitarismi. La verità dell’attualità sarebbe semplice: siamo tutti antifascisti, l’Italia si è vaccinata con il disastro della guerra, se non con l’abiezione delle persecuzioni. E allora?
Allora, il sospetto deve avanzarsi che si parla di fascismo e antifascismo per non parlare di sovietismo. Che l’Italia non ha cancellato. Il totalitarismo da cui ci dobbiamo difendere non è il fascismo ma il sovietismo, che è più spesso un mondo chiesastico, quando non è ex Pci: quello che non si vuol dire è che l’Italia è un paese sovietico per troppi aspetti.
In un saggio per la rivista di Assisi “Rocca”, anticipato sul sito di “Micromega”, Raniero La Valle argomenta che “certo il fascismo non tornerebbe con le camicie nere e l’olio di ricino (oggi si usano le spranghe), ma al di là delle forme, c’è un contenuto profondo del fascismo, un classismo ontologico, un’antropologia della disuguaglianza, una concezione esclusivista del potere, un primato della forza e, non ultimo, un culto del denaro, che fanno del fascismo un archetipo politico che sottende e può esplodere in qualsiasi società”. Tutto questo però non è fascismo, ha solo le stigmate del deprecato liberalismo.
Ma anche nel pensiero avulso di Assisi i punti di contatto dell’Italia di oggi col sovietismo dovrebbero risultare più numerosi e insidiosi che non quelli di La Valle col fascismo. L’inefficienza pubblica eletta a sistema e protetta dal sindacato, inclusa la giustizia, un mercato opaco, controllato nel solo interesse del capitale, un’informazione non veritiera (più di quella di Berlusconi, giacché esprime governi che perdono le elezioni), la strafottenza dei pubblici poteri, dalla spazzatura agli acquedotti, la minuta corruzione, dagli appalti all'orario di lavoro. Con un governo politico di destra ma con un apparato istituzionale, quello che assicura la continuità, sicuramente di sinistra: il presidente della Repubblica, i capi della Rai, della Corte Costituzionale, del Csm, di quasi tutte le autorità di controllo del mercato, della Banca d’Italia, delle banche, dell’editoria, del sindacato politico, una nomenklatura, una casta?, più spesso non edificante.
Il paradiso laico
L’aldilà laico non può essere, come per i credenti, tra paradiso e inferno. Non c’è colpa individuale ma concorso di cause. Né colpa totale e definitiva, senza una ragione e una possibilità di appello. È dunque in un’area indistinta, che non può peraltro trovarsi, per una coscienza materialista, in un altro mondo che questo. L’aldilà laico è piuttosto un aldiquà.
S’immagini dunque un’area compresa tra Piazza Colonna e Campo Marzio, a Roma naturalmente, il Pantheon e Piazza Navona. Un’area non grande, e priva delle suggestioni dell’urbanistica barocca che la città domina, con spazi sventrati e monumenti alla Boullée. Tristanzuola ultimamente, benché popolata di strafiche diurne e notturne, a caccia di uomini speciali in questa città di uomini, ultracinquantenni, rotondi, profumati alla lavanda, gli onorevoli, l’etica esimendole dopo Mani Pulite dal fare quelle cose lì per le quali erano disponibili, che dunque posano liberamente discinte e quasi sfatte come al risveglio, mentre gli onorevoli fingono di avere famiglia, anche se in genere al paese ce l’hanno.
Ma niente a Roma è senza suggestioni, l’etica inclusa, che è l’unico aldilà dei laici, specie nelle ore, tra le due e le cinque del mattino, in cui questo loro mondo si popola. Sono ore di silenzio e grandi spazi, che si popolano per modo di dire, i laici saranno tre o quattro, sarebbero ormai da zoo, sdegnosi peraltro, e riservati anche tra di loro. S’immagini dunque Spadolini, non più astretto alla dispepsia della pasta e fagioli della Colonna Antonina, e anzi liberato da ogni obbligo di continenza, Sartori, Scalfari, Salvemini, più un paio di altri anonimi, non cominciando per esse. L’iniziale è privilegiata in quanto sa di sapiente e sulfureo, se non di satanico. Di sdegno, quale i tempi esigono – o tempora o mores. Anche se, qualcuno, di nostalgia segreta del paradiso vero delle urì che ha cancellato.
Non sono i soli. Altri gruppi popolano l’aldilà laico, benché sempre scarsamente, composti da personalità estrose e non inquiete, ognuno dei quali celebra per sé, in gruppo e individualmente, proprie specialistime virtù, Gobetti, Longanesi, Montanelli, Ottone, Pannunzio, le lettere centrali dell’alfabeto. In ottime stoffe inglesi, con tagli da sartoria, dritti su solide Oxford brownies. Celebrano discreti ma soddisfatti, come il libertinismo comodo del loro giornalismo.
Un tempio si riserva agli ospiti vaghi della fraternità cosmopolita. Vengono fuori dai palazzi limitrofi, Farnese, Massimo, la terrazza del Valle, uno alla volta, quasi rappresentassero in modesta solennità le rispettive nazioni. La Francia si traveste da sirena, e musiche flautate sembrano aleggiarle sul capo. L’America, anche se femmina, in vesti da vaccaro texano benché rifinite a Savile Road, amichevole ma indifferente, distratta dal governo del mondo, totalitario benché laico e democratico – è il problema della quadratura del cerchio, problema filosofico benché politico. Incalcolabili invece si aggirano a frotte, da ogni dove provenienti, il Chianti, il Salento, i più vecchi dalla Riviera, i famosi liberali inglesi, che spesso sono scozzesi, molti in età, inossidabili, indistruttibili, protetti forse dal vino, per il quale soltanto apprezzano l’Italia, all’ombra del “Guardian”, dell’“Economist” e del “Financial Times”.
Ma è un mondo ultimamente animato, se non preoccupato, per due arrivi incombenti. Uno è Berlusconi. Che è una lettera nuova, è milanese, si vanta quindi dei soldi fatti, dice le barzellette, ed è pieno di figli, ma si vuole liberale, e possiede quasi tutte le case editrici, quelle che più vendono. L’altro è il papa in persona, per la nuova teologia, che, dopo il pastore Bonhoeffer, vuole prendersi con Dio pure il mondo. È l’ultima novità che le buonanime – anche se ben viventi, beninteso – avrebbero mai immaginato. Tanto più che il papa Ratzinger è tedesco, e uno che per venticinque anni ha diretto il Sant’Uffizio, il tribunale di Galileo, Giordano Bruno e gli altri spiriti liberi, alcuni dei quali ha bruciato.
L’idea di alzare un muro, in questa città notturna, com’è la moda dopo Israele al tempo di Sharon, è stata rigettata perché ricorda il ghetto, anatema per i laici, e l’aborrito paradiso cristiano con le chiavi di san Pietro, che poi è il papa. Anche l’idea d’istituire la cooptazione – entra chi viene chiamato – è stata rigettata, in linea con l’aborrita Bossi-Fini. Si vivacchia per questo nell’inquietudine, scongiurando nell’intimo l’inevitabile: augurando lunga vita cioè a Berlusconi nell’etere e a Ratzinger nel Vaticano, se non l’immortalità. E nella costernazione, i nemici aborriti sapendo, non sapendolo, anch’essi prossimi al crollo, boccheggianti per interna implosione. Tutto è polvere, nel paradiso laico.
S’immagini dunque un’area compresa tra Piazza Colonna e Campo Marzio, a Roma naturalmente, il Pantheon e Piazza Navona. Un’area non grande, e priva delle suggestioni dell’urbanistica barocca che la città domina, con spazi sventrati e monumenti alla Boullée. Tristanzuola ultimamente, benché popolata di strafiche diurne e notturne, a caccia di uomini speciali in questa città di uomini, ultracinquantenni, rotondi, profumati alla lavanda, gli onorevoli, l’etica esimendole dopo Mani Pulite dal fare quelle cose lì per le quali erano disponibili, che dunque posano liberamente discinte e quasi sfatte come al risveglio, mentre gli onorevoli fingono di avere famiglia, anche se in genere al paese ce l’hanno.
Ma niente a Roma è senza suggestioni, l’etica inclusa, che è l’unico aldilà dei laici, specie nelle ore, tra le due e le cinque del mattino, in cui questo loro mondo si popola. Sono ore di silenzio e grandi spazi, che si popolano per modo di dire, i laici saranno tre o quattro, sarebbero ormai da zoo, sdegnosi peraltro, e riservati anche tra di loro. S’immagini dunque Spadolini, non più astretto alla dispepsia della pasta e fagioli della Colonna Antonina, e anzi liberato da ogni obbligo di continenza, Sartori, Scalfari, Salvemini, più un paio di altri anonimi, non cominciando per esse. L’iniziale è privilegiata in quanto sa di sapiente e sulfureo, se non di satanico. Di sdegno, quale i tempi esigono – o tempora o mores. Anche se, qualcuno, di nostalgia segreta del paradiso vero delle urì che ha cancellato.
Non sono i soli. Altri gruppi popolano l’aldilà laico, benché sempre scarsamente, composti da personalità estrose e non inquiete, ognuno dei quali celebra per sé, in gruppo e individualmente, proprie specialistime virtù, Gobetti, Longanesi, Montanelli, Ottone, Pannunzio, le lettere centrali dell’alfabeto. In ottime stoffe inglesi, con tagli da sartoria, dritti su solide Oxford brownies. Celebrano discreti ma soddisfatti, come il libertinismo comodo del loro giornalismo.
Un tempio si riserva agli ospiti vaghi della fraternità cosmopolita. Vengono fuori dai palazzi limitrofi, Farnese, Massimo, la terrazza del Valle, uno alla volta, quasi rappresentassero in modesta solennità le rispettive nazioni. La Francia si traveste da sirena, e musiche flautate sembrano aleggiarle sul capo. L’America, anche se femmina, in vesti da vaccaro texano benché rifinite a Savile Road, amichevole ma indifferente, distratta dal governo del mondo, totalitario benché laico e democratico – è il problema della quadratura del cerchio, problema filosofico benché politico. Incalcolabili invece si aggirano a frotte, da ogni dove provenienti, il Chianti, il Salento, i più vecchi dalla Riviera, i famosi liberali inglesi, che spesso sono scozzesi, molti in età, inossidabili, indistruttibili, protetti forse dal vino, per il quale soltanto apprezzano l’Italia, all’ombra del “Guardian”, dell’“Economist” e del “Financial Times”.
Ma è un mondo ultimamente animato, se non preoccupato, per due arrivi incombenti. Uno è Berlusconi. Che è una lettera nuova, è milanese, si vanta quindi dei soldi fatti, dice le barzellette, ed è pieno di figli, ma si vuole liberale, e possiede quasi tutte le case editrici, quelle che più vendono. L’altro è il papa in persona, per la nuova teologia, che, dopo il pastore Bonhoeffer, vuole prendersi con Dio pure il mondo. È l’ultima novità che le buonanime – anche se ben viventi, beninteso – avrebbero mai immaginato. Tanto più che il papa Ratzinger è tedesco, e uno che per venticinque anni ha diretto il Sant’Uffizio, il tribunale di Galileo, Giordano Bruno e gli altri spiriti liberi, alcuni dei quali ha bruciato.
L’idea di alzare un muro, in questa città notturna, com’è la moda dopo Israele al tempo di Sharon, è stata rigettata perché ricorda il ghetto, anatema per i laici, e l’aborrito paradiso cristiano con le chiavi di san Pietro, che poi è il papa. Anche l’idea d’istituire la cooptazione – entra chi viene chiamato – è stata rigettata, in linea con l’aborrita Bossi-Fini. Si vivacchia per questo nell’inquietudine, scongiurando nell’intimo l’inevitabile: augurando lunga vita cioè a Berlusconi nell’etere e a Ratzinger nel Vaticano, se non l’immortalità. E nella costernazione, i nemici aborriti sapendo, non sapendolo, anch’essi prossimi al crollo, boccheggianti per interna implosione. Tutto è polvere, nel paradiso laico.