D’improvviso, senza un progetto, per contrastare in qualche modo il crollo finanziario, l’Europa ha deciso una politica senza limite di salvataggi. A discrezione dei governi nazionali. Gran Bretagna, Germania e Belgio vi hanno già fatto ampio ricorso, l'Olanda vi si prepara. La Francia non sembra averne bisogno, né la Spagna. L’Italia non ne ha bisogno per le banche, ma la voglia d’intervento è forte, è comune a tutti i partiti, e trova in Berlusconi la massima disponibilità, anzi una sorta di auspicio. È quindi probabile che si faranno degli interventi a favore delle maggiori aziende, dopo Alitalia: la Fiat è la prima nella lista, con tutto il settore meccanico, della componentistica e delle macchine utensili, Telecom, con la rinazionalizzazione a buon prezzo della rete (il vecchio progetto di Prodi), la siderurgia.
La crisi non è finita, e potrà avere ancora sviluppi imprevedibili. “Se dieci banche sono bacate (e lo sono), mille lo saranno, tanti sono gli intrecci interbancari - e salvare tutte le banche del mondo si può solo negli incubi”, scriveva questo sito il 31 gennaio. I viluppi dei mutui americani insoluti e dei derivati accomunano tutte le economie, con l’eccezione di quelle asiatiche, e potrebbero anche contagiare la cosiddetta economia reale. Provocare cioè la recessione che finora è stata evitata, se non la depressione. L’esito finale potrebbe quindi essere distruttivo. Ma, stando le cose come stanno, l’Europa sarà radicalmente diversa.
Le differenze con un mese fa, una settimana fa, saranno enormi. La prima è paradossale. I vecchi gruppi pubblici privatizzati non hanno bisogno dello Stato, sanno stare sul mercato da soli, ad eccezione ovviamente di Alitalia: Eni, Saipem, Rete Gas, Enel, le banche, Finmeccanica, perfino Terna, e StMicroelectronis, più tutte le attività inglobate nei gruppi privati, sono solidi patrimonialmente e redditualmente (fa eccezione Telecom, che però è stata una finta privatizzazione, a beneficio di tre gruppi - finora - di speculatori). L’esito finale sarà uno stravolgimento del mercato. C’è un massiccio trasferimento di capitali dal pubblico al privato, con nuovo debito e probabilmente nuove tasse. Tornerà la stagione dello Stato imprenditore, con le note diseconomie: il controllo politico, le inefficienze, la corruzione nelle tante sue forme. Malgrado i buoni propositi (partecipazione a tempo, senza rappresentanza in consiglio, senza diritti di voto in assemblea), i governi non si libereranno presto delle banche e delle imprese che avranno salvato. Se anche lo volessero, non potrebbero: tutti i criteri di gestione, e la filosofia della gestione, dovranno uniformarsi alla presenza dello Stato, i manager e le imprese dovranno rispondere anzitutto ai governi. L’esito sbilanciato dell’intervento, con alcuni Stati europei grandi padroni e altri no, accentuerà gli squilibri già forti a Bruxelles, dove alcuni contano e altri no. L’unilateralismo del governo tedesco è una novità solo nel senso che si è tolta la maschera.
L’Italia, se dovesse superare la crisi senza interventi pubblici, malgrado l’auspicio di Berlusconi, acquisterà all’apparenza un vantaggio relativo. I suoi gruppi economici continueranno ad agire liberamente sul mercato, con più flessibilità e redditività. Non ci saranno trasferimenti dal pubblico al privato, non crescerà il debito. Ma l’Italia resta pur sempre soggetta alle regole europee, che non saranno più fatte per il mercato. In un quadro globale regolato dalla Wto, chi è più competitivo più lavora. Ma un’Italia ipoteticamente virtuosa si troverebbe sempre a dover partecipare al mercato globale attraverso la gabbia europea. E nel nuovo quadro che si andrà a formare lavorare sulle proprie risorse potrebbe essere un handicap, di fronte ai rinnovati “campioni nazionali". Il mercato europeo conta comunque per il sessanta per cento delle attività italiane all’estero, e non c’è concorrenza possibile con i gruppi sussidiati nazionalmente.
venerdì 17 ottobre 2008
"Lui" è già nella storia, ha abolito la ricerca
L’ambizione è dunque eguagliare “quello”: Berlusconi ha contato che durerà almeno diciannove anni, mentre “quello” arrivò a quasi ventuno. Dovrà quindi rivincere le prossime elezioni. Oppure andare al Quirinale. Mission impossible in entrambi i casi, ardue. Ma Berlusconi un posto ce l’ha già nella storia rispetto a “quello”, come colui che ha cacciato la ricerca scientifica fuori dal paese. “Quello” megalomane voleva fare grande l’Italia, Berlusconi, tutto casa e famiglia, anzi il pater familias buon economo secondo il modello del genovese Leon Battista Alberti, chiude le porte.
D’accordo con le pie Moratti e Gelmini, Berlusconi ha per quasi un decennio messo la ricerca scientifica in ghiacciaia, e ora la sradica. Senza dichiararlo ma con costanza. Senza concorsi e con la drastica riduzione degli accademici a un quinto, entro quattro anni, quanto durerà il governo, l’offensiva sarà conclusa. Sempre meno candidati si presentano al dottorato, e già ci sono buchi, nella ricerca che si riesce a fare con i fondi europei o dei grandi consorzi scientifici: il posto non interessa. Dopo il 2013, anche nell’ipotesi di un cambio di governo, non ci potrà essere un rilancio della ricerca. Gli studiosi non si formano all’impronta, e far ritornare gli emigrati costerà molto caro.
Il taglio di Gelmini alla ricerca non è un problema di cassa. Berlusconi trova ingenti finanziamenti pubblici ogni volta che l’urgenza gli si propone: per gli amici imprenditori, banchieri o industriali, per le guerre, per il ponte sullo Stretto, e naturalmente pe la carta sociale. È un fatto ideologico e di mentalità, il modello ciellino o milanese di ridurre la cosa pubblica all’elemosina: non c’è una volontà generale, ma “ognuno e il suo Dio”, un’accoppiata vincente, più di ogni altra. Un liberismo estremista che ha già provocato mal di pancia non celati nella componente socialista ed ex missina del governo.
“Lui” stesso sa che non dura
Il ricorso è facile alle famose “tre i”, alle quali sarebbe mancata una quarta, l’idiozia. Ma la ricerca scientifica si vuole seria, ripugna allo scarico dell’ironia. E la questione della ricerca è solo apparentemente settoriale. L’Italia ha ancora uno dei più alti numeri di laureati in rapporto alla popolazione, contrariamente a quello che dicono le statistiche internazionali. Ed è opinione condivisa, anche nello schieramento di Berlusconi, che l’Italia regge nella forte concorrenza internazionale grazie alle doti intellettuali. Grazie alla ricerca a monte, all’ingegneria, al fiuto del mercato. Che danno il tono complessivo della società e l’economia. Tutto questo finisce rapidamente con i disegni del governo.
Berlusconi caratteristicamente depreca la depressione che ha colpito l’Italia. La diffidenza, il crollo dei consumi, l’abbandono degli investimenti. Di cui però è la causa, non surrettizia. È la ricerca che guida un paese verso la qualità nella società e nell’economia. Tagliare la ricerca, la grande innovazione di Berlusconi, significa destinare rapidamente il lavoro verso il nulla: attività dequalificate e disimpegnate, senza produttività né altro valore aggiunto, e senza futuro. Cioè destinare l’Italia all’impoverimento.
Il destino dell’Italia, come degli altri paesi europei, in un mondo più giusto, cioè globalizzato, è lo studio, la qualità, la ricerca, insomma guidare la corsa degli altri, essere un gradino più in alto, un passo più avanti. L’Italia di Berlusconi sarà invece un paese di lavoratori a façon, su ordinazione o per conto, finché avrà una abilità manuale superiore a quella dei sarti cinesi e i conciatori marocchini. Non fra molto, fra una generazione o due, diciamo fra vent’anni. Un paese che vedrà ancora più volentieri le sue televisioni, incrementandogli l’inesausto tesoro pubblicitario. Ma lui stesso sa già che non durerà, investe infatti in Spagna e Germania.
D’accordo con le pie Moratti e Gelmini, Berlusconi ha per quasi un decennio messo la ricerca scientifica in ghiacciaia, e ora la sradica. Senza dichiararlo ma con costanza. Senza concorsi e con la drastica riduzione degli accademici a un quinto, entro quattro anni, quanto durerà il governo, l’offensiva sarà conclusa. Sempre meno candidati si presentano al dottorato, e già ci sono buchi, nella ricerca che si riesce a fare con i fondi europei o dei grandi consorzi scientifici: il posto non interessa. Dopo il 2013, anche nell’ipotesi di un cambio di governo, non ci potrà essere un rilancio della ricerca. Gli studiosi non si formano all’impronta, e far ritornare gli emigrati costerà molto caro.
Il taglio di Gelmini alla ricerca non è un problema di cassa. Berlusconi trova ingenti finanziamenti pubblici ogni volta che l’urgenza gli si propone: per gli amici imprenditori, banchieri o industriali, per le guerre, per il ponte sullo Stretto, e naturalmente pe la carta sociale. È un fatto ideologico e di mentalità, il modello ciellino o milanese di ridurre la cosa pubblica all’elemosina: non c’è una volontà generale, ma “ognuno e il suo Dio”, un’accoppiata vincente, più di ogni altra. Un liberismo estremista che ha già provocato mal di pancia non celati nella componente socialista ed ex missina del governo.
“Lui” stesso sa che non dura
Il ricorso è facile alle famose “tre i”, alle quali sarebbe mancata una quarta, l’idiozia. Ma la ricerca scientifica si vuole seria, ripugna allo scarico dell’ironia. E la questione della ricerca è solo apparentemente settoriale. L’Italia ha ancora uno dei più alti numeri di laureati in rapporto alla popolazione, contrariamente a quello che dicono le statistiche internazionali. Ed è opinione condivisa, anche nello schieramento di Berlusconi, che l’Italia regge nella forte concorrenza internazionale grazie alle doti intellettuali. Grazie alla ricerca a monte, all’ingegneria, al fiuto del mercato. Che danno il tono complessivo della società e l’economia. Tutto questo finisce rapidamente con i disegni del governo.
Berlusconi caratteristicamente depreca la depressione che ha colpito l’Italia. La diffidenza, il crollo dei consumi, l’abbandono degli investimenti. Di cui però è la causa, non surrettizia. È la ricerca che guida un paese verso la qualità nella società e nell’economia. Tagliare la ricerca, la grande innovazione di Berlusconi, significa destinare rapidamente il lavoro verso il nulla: attività dequalificate e disimpegnate, senza produttività né altro valore aggiunto, e senza futuro. Cioè destinare l’Italia all’impoverimento.
Il destino dell’Italia, come degli altri paesi europei, in un mondo più giusto, cioè globalizzato, è lo studio, la qualità, la ricerca, insomma guidare la corsa degli altri, essere un gradino più in alto, un passo più avanti. L’Italia di Berlusconi sarà invece un paese di lavoratori a façon, su ordinazione o per conto, finché avrà una abilità manuale superiore a quella dei sarti cinesi e i conciatori marocchini. Non fra molto, fra una generazione o due, diciamo fra vent’anni. Un paese che vedrà ancora più volentieri le sue televisioni, incrementandogli l’inesausto tesoro pubblicitario. Ma lui stesso sa già che non durerà, investe infatti in Spagna e Germania.
I disoccupati organizzati anti-Gelmini
Si susseguono al ministero dell’Istruzione a Trastevere a Roma i cortei e i sit-in di studenti dei licei contro la scuola targata Gelmini. Non sono molti, qualche centinaio. Ma si fanno notare. Bloccano infatti il tram n. 8, che nella striminzita rete urbana dei trasporti fa da metropolitana di superficie per il quarto di Sud-Ovest della città, e quindi bloccano, nelle due-tre ore prima dello sciogliete le fila per il pranzo, alcune migliaia di persone nei loro trasferimenti da e per la città.
Ma non c’è aria di manifestazione, libera, irridente, innovativa. Gli hurrah sono su chiamata, come ai talk-show in tv. I messaggi al megafono sono sempre gli stessi, il linguaggio è ripetitivo, anche le voci dei leader sono stanche, da compito obbligato o fatica assegnata. È il modello del Sessantotto, vecchio quindi di quarant’anni, trasposto a uso di piccoli funzionari di Partito. Anche i concetti vogliono essere “di opposizione e di governo”, il modello ex-Pci trasposto nel partito Democratico, gli interventi della nuova sinistra limitandosi sono ogni mattina a non più di un paio, e anch’essi stanchi. Senza idee per la scuola, senza per la politica o per il proprio destino, che poi è la stessa cosa.
Somaticamente è il modello napoletano dei disoccupati organizzati. Trastevere è un viale, ma davanti al ministero dell’Istruzione si crea una cavea che ricorda la parte superiore di piazza Municipio a Napoli, quella che per decenni fu occupata dai disoccupati organizzati. Con i loro slogan ripetitivi. La loro piccola organizzazione ininfluente, anche se capace di ricatto. Destino a cui i ragazzi anti-Gelmini personalmente vanno incontro, se è vero ciò che dicono al megafono. Ma, sembra, senza preoccuparsi.
Ma non c’è aria di manifestazione, libera, irridente, innovativa. Gli hurrah sono su chiamata, come ai talk-show in tv. I messaggi al megafono sono sempre gli stessi, il linguaggio è ripetitivo, anche le voci dei leader sono stanche, da compito obbligato o fatica assegnata. È il modello del Sessantotto, vecchio quindi di quarant’anni, trasposto a uso di piccoli funzionari di Partito. Anche i concetti vogliono essere “di opposizione e di governo”, il modello ex-Pci trasposto nel partito Democratico, gli interventi della nuova sinistra limitandosi sono ogni mattina a non più di un paio, e anch’essi stanchi. Senza idee per la scuola, senza per la politica o per il proprio destino, che poi è la stessa cosa.
Somaticamente è il modello napoletano dei disoccupati organizzati. Trastevere è un viale, ma davanti al ministero dell’Istruzione si crea una cavea che ricorda la parte superiore di piazza Municipio a Napoli, quella che per decenni fu occupata dai disoccupati organizzati. Con i loro slogan ripetitivi. La loro piccola organizzazione ininfluente, anche se capace di ricatto. Destino a cui i ragazzi anti-Gelmini personalmente vanno incontro, se è vero ciò che dicono al megafono. Ma, sembra, senza preoccuparsi.
I socialisti di Berlusconi non sanno che fare
Non è scattato l’orgoglio socialista a Milano venerdì 10 alla presentazione di “Rifare l’Italia”, una riedizione del discorso che Turati tenne alla Camera nel 1920 contro i massimalisti, il futuro partito Comunista. Tutti d’accordo quando Cicchitto ha affermato che “la sinistra è finita quando il Pci-Pds ha lavorato con alcune Procure, e alcuni potentati finanziari coi loro giornali, per distruggere il partito Socialista”. Poiché questa, malgrado tutto, comincia a essere la storia. D’accordo anche sull’antisocialismo viscerale di Veltroni, che lo stesso Cicchitto ha denunciato. Ma perplessi sul loro futuro nel partito di Berlusconi. Che privilegia ormai senza equilibrio la visione ciellina della società, o privatistica, nella sanità e nell’istruzione, università compresa. Il tutto in un’ottica confessionale.
Molti non sono andati a Milano, gli esponenti di primo piano dell’ex Psi nel governo: Tremonti, Sacconi, Brunetta, Bonaiuti. Ma più per evitare l’inevitabile trionfalismo di simili manifestazioni. Insomma, per il mal di pancia. La componente socialista del partito della Libertà, che ritiene di avere dato un grosso contributo di idee e di voti ai successi di Berlusconi, si pente del suo eccesso di fedeltà al Capo. “Per una volta abbiamo dato senza prendere nulla”, si scherza nel loro ambiente, ma con amarezza. Anche dal punto di vista personale: sanno che se la politica del governo Berlusconi è un’altra, in tema di federalismo scuola, sanità, diritto del lavoro, la loro stessa posizione entro breve tempo sarà superflua.
Molti non sono andati a Milano, gli esponenti di primo piano dell’ex Psi nel governo: Tremonti, Sacconi, Brunetta, Bonaiuti. Ma più per evitare l’inevitabile trionfalismo di simili manifestazioni. Insomma, per il mal di pancia. La componente socialista del partito della Libertà, che ritiene di avere dato un grosso contributo di idee e di voti ai successi di Berlusconi, si pente del suo eccesso di fedeltà al Capo. “Per una volta abbiamo dato senza prendere nulla”, si scherza nel loro ambiente, ma con amarezza. Anche dal punto di vista personale: sanno che se la politica del governo Berlusconi è un’altra, in tema di federalismo scuola, sanità, diritto del lavoro, la loro stessa posizione entro breve tempo sarà superflua.
martedì 14 ottobre 2008
Perché gli italiani non hanno moglie
I Bush, lui e lei, hanno fatto un giorno di festa per Berlusconi alla Casa Bianca, che invece vi si aggirava solo. Tra ghirlande, festoni, sfilate in costume, bande militari, bandierine tricolori, sul prato e al balcone, dappertutto Berlusconi è inquadrato solo tra George W. e Laura. Lei peraltro sempre sorridente e simpatica con l’ospite, la padrona di casa è sempre fresca con l’ospite che ha invitato. Facendo tanto più risaltare la stranezza dell’invitato italiano, tutto casa e famiglia ma senza moglie.
Non è il primo caso, i politici italiani di solito non hanno moglie. Il più famoso è quello di Pertini. Craxi, un altro che amava gli impegni all’estero, e tutti i presidenti del consiglio democristiani non ebbero moglie. È una forma di modestia, si dice, l’uomo politico non deve esibire la famiglia. Il presidente Leone pagò per questo, per avere una moglie bella e elegante al suo fianco, con pettegolezzi e infamie. C’è insomma da tenere conto dell’astio molto italiano, specie delle donne, contro le mogli dei potenti.
Ma l’astio ci dev’essere anche in America, visto quello che è successo a Hillary Clinton, che se fosse stata Hillary Come si chiama lei sarebbe probabilmente diventata presidente degli Stati Uniti. No, la differenza è che in Italia la donna emancipata, la moglie di Berlusconi, la moglie di Pertini, che conosce le lingue e la politica, non deve partecipare della gioie e le fortune del marito, anzi non crede alla politica, alla politica di lui, vede la fatica dei viaggi, non ha curiosità. Il presidente Ciampi ha lasciato tanta buona traccia di sé, come ora sta facendo Napolitano, per aver avuto accanto a sé la moglie. Una persona che, per il garbo e con intelligenza, conferma le qualità dell'uomo in titolo. Ma non fanno scuola, il femminismo italico si vuole com’è sempre stato, un mondo separato.
Non è il primo caso, i politici italiani di solito non hanno moglie. Il più famoso è quello di Pertini. Craxi, un altro che amava gli impegni all’estero, e tutti i presidenti del consiglio democristiani non ebbero moglie. È una forma di modestia, si dice, l’uomo politico non deve esibire la famiglia. Il presidente Leone pagò per questo, per avere una moglie bella e elegante al suo fianco, con pettegolezzi e infamie. C’è insomma da tenere conto dell’astio molto italiano, specie delle donne, contro le mogli dei potenti.
Ma l’astio ci dev’essere anche in America, visto quello che è successo a Hillary Clinton, che se fosse stata Hillary Come si chiama lei sarebbe probabilmente diventata presidente degli Stati Uniti. No, la differenza è che in Italia la donna emancipata, la moglie di Berlusconi, la moglie di Pertini, che conosce le lingue e la politica, non deve partecipare della gioie e le fortune del marito, anzi non crede alla politica, alla politica di lui, vede la fatica dei viaggi, non ha curiosità. Il presidente Ciampi ha lasciato tanta buona traccia di sé, come ora sta facendo Napolitano, per aver avuto accanto a sé la moglie. Una persona che, per il garbo e con intelligenza, conferma le qualità dell'uomo in titolo. Ma non fanno scuola, il femminismo italico si vuole com’è sempre stato, un mondo separato.
Cai alla prova esborsi - arriva Gheddafi?
In ritirata non ci sono solo Sposito, Aponte, Marcegaglia e altri minori: anche i Benetton, che come Sposito, Aponte e Marcegaglia hanno partecipato alla cordata per debito con palazzo Chigi, sono pronti a farsi da parte. Il termine non è immediato: c’è prima da definire la partecipazione del socio estero, Air France o Lufthansa, che diluirà le quote. Ma avvicinandosi il momento degli impegni reali il consorzio muterà volto.
La ricapitalizzazione non potrà tardare. Ed è per tutti i partecipanti un investimento a lungo termine. Il trasporto aereo resta in una congiuntura difficile: se il carburante ritorna a prezzi compatibili, la crisi economica riduce il traffico. Il decollo della nuova Alitalia resta quindi arduo. Anche Intesa, che ha creato la cordata e sulla quale i partecipanti fidavano per ritardare il più possibile gli esborsi, si defila. Non è più stagione di banche e di stratagemmi finanziari.
Di sicuro, si può dire oggi, c’è solo Colaninno. Una determinazione che, espressa a tutti i referenti politici, fa sospettare al sindacato che, se necessario, Colaninno rimetterà sul mercato la stessa Piaggio. Colaninno ci crede, ritiene in certo modo l’Alitalia cosa sua, e sicuramente farà fronte agli impegni, con o senza Piaggio. Degli altri, di tutti gli altri, invece non si sa.
Ma la crisi il presidente di Cai la vede dall’altro lato: c’è molta liquidità in giro, che ha solo voglia di impieghi redditizi. Ed è fiducioso di riuscire nel salvataggio anche senza un ruolo attivo di Intesa, con le banche giapponesi che stanno rilevando le americane in crisi, o con i fondi sovrani del Medio Oriente. Più di un approccio sarebbe in corso con Tripoli - Alitalia non sarà redditizia, ma Gheddafi ama i simboli.
L'approccio è politico e ministeriale: i banchieri di Gheddafi non hanno mai effettuato raid, ma solo acquisti concordati con una qualche ricaduta politica, a lungo termine, senza incidere nella gestione. Specie in Italia, Tripoli prende partecipazioni là dove può accumulare anche un capitale politico. Eni viene in cima alle priorità della Libia, ma altre occasioni, in banca e altrove, sono monitorate. La trattativa però non si presenta semplice. Anche perché la Libia è stata appena snobbata da Telecom. Dopo che un intervento era stato sollecitato.
La ricapitalizzazione non potrà tardare. Ed è per tutti i partecipanti un investimento a lungo termine. Il trasporto aereo resta in una congiuntura difficile: se il carburante ritorna a prezzi compatibili, la crisi economica riduce il traffico. Il decollo della nuova Alitalia resta quindi arduo. Anche Intesa, che ha creato la cordata e sulla quale i partecipanti fidavano per ritardare il più possibile gli esborsi, si defila. Non è più stagione di banche e di stratagemmi finanziari.
Di sicuro, si può dire oggi, c’è solo Colaninno. Una determinazione che, espressa a tutti i referenti politici, fa sospettare al sindacato che, se necessario, Colaninno rimetterà sul mercato la stessa Piaggio. Colaninno ci crede, ritiene in certo modo l’Alitalia cosa sua, e sicuramente farà fronte agli impegni, con o senza Piaggio. Degli altri, di tutti gli altri, invece non si sa.
Ma la crisi il presidente di Cai la vede dall’altro lato: c’è molta liquidità in giro, che ha solo voglia di impieghi redditizi. Ed è fiducioso di riuscire nel salvataggio anche senza un ruolo attivo di Intesa, con le banche giapponesi che stanno rilevando le americane in crisi, o con i fondi sovrani del Medio Oriente. Più di un approccio sarebbe in corso con Tripoli - Alitalia non sarà redditizia, ma Gheddafi ama i simboli.
L'approccio è politico e ministeriale: i banchieri di Gheddafi non hanno mai effettuato raid, ma solo acquisti concordati con una qualche ricaduta politica, a lungo termine, senza incidere nella gestione. Specie in Italia, Tripoli prende partecipazioni là dove può accumulare anche un capitale politico. Eni viene in cima alle priorità della Libia, ma altre occasioni, in banca e altrove, sono monitorate. La trattativa però non si presenta semplice. Anche perché la Libia è stata appena snobbata da Telecom. Dopo che un intervento era stato sollecitato.
Letture
letterautore
Arbasino – Vittorini è andato all’opera la prima volta a ventiquattro anni, e ne scopri le doti a quaranta, scrivendosi la prefazione a “Garofano rosso”. Arbasino all’opera ci è cresciuto, e non riesce ad adattarsi alla realtà. La conosce, l’ha studiata, la pratica, ma non la ama – ha studiato il diritto internazionale e l’ha insegnato, ha fatto il giornalista, ha viaggiato e viaggia, ma ancora oggi ha sugli eventi e le cose uno sguardo meravigliato. Che se aiuta la percezione e l’analisi – Arbasino è pur sempre il miglior social scientist che eserciti in Italia – gliene impedisce la rappresentazione, oggi si dice l’affabulazione.
Ogni evento è per lui una sorpresa. In questo rapporto inverso col reale – quotidiano, epocale – è la sua personalissima cifra, l’instancabile invenzione verbale. E la ridondanza: la meraviglia inesausta. Nel presepe farebbe l’Incantato.
Dante - “Grandissimo reazionario se mai ve ne furono” a dire di Eco. Oggi vede impegnati in severa concorrenza due campioni della sinistra, Sermonti e Benigni. È reazionaria questa sinistra? Anche perché Dante è diventato con Benigni merce da prime time, si “vende” come Sanremo. Dove è peraltro stato, sempre con Benigni, col massimo successo, di pubblico e di spot pubbicità.
Benigni ha semplicemente dato voce a Dante. C’è una riscoperta di Dante in questo senso, l’ha aperta Jacqueline Risset vent’anni fa rendendo in francese il ritmo della “Commedia” e l’invenzione verbale ravvivando oggi come era viva allora. L’invenzione di Benigni è leggere Dante come un poeta, libero dalle ragnatele dell’esegesi. Che non è molto di più della “Licenza liceale”, il racconto di Campanile in “Manuale di conversazione”: “Tu sapevi che le anime dei beati non stanno nei vari cieli, ma stanno vicini a Dio?” Con la risposta: “Sì, scendono con una corda”, che semina il panico tra i maturandi in attesa. E la ripresa: “L’invettiva di san Pietro è nel ventottesimo canto?”.
L’esegesi ha torti e meriti. Ma il suo esito è di oscurare il soggetto. Anzi, di dare i testi per ben morti. Sui testi sacri magari è più dolce della teologia, non si vuole torturatrice, ma sempre è secca: l’interpretazione è creativa, ma per l’interprete.
Gadda – Gli riesce il miracolo di elevarsi sopra il birignao milanese, di Dossi e gli altri innumerevoli del secondo Ottocento, e di Anceschi, Manganelli, Cederna, anche Arbasino purtroppo. Su di essi Gadda si è elevato con sofferto disprezzo.
È finto misantropo, atteggiato. In realtà socialissimo, il letterato italiano con più vaste e variegate frequentazioni: innumerevoli le foto che lo immortalano coi personaggi più diversi, Contini o Calamandrei, e le mogli, andava perfino ai premi letterari, amava la conversazione, invitava e si faceva invitare ai pasti. È stato nei luoghi più diversi, numerosi gli epistolari, infinite le testimonianze – mancano solo una Céleste Albaret e i colleghi ingegneri - è da dubitare che ne avesse, in Vaticano come in Sud America? Il letterato più a suo agio tra i letterati, che per quarant'anni ha frequentato con costanza e quasi esclusivamente, promuovendo le recensioni, partecipando ai premi, e alle beghe dei premi.
Landolfi – Si ricorda in una rara apparizione in tv figura a punto interrogativo, in atto d’irridere lacanotteri e altri invertebrati della psiche, la pelle stretta alle ossa robuste, il passo ferrigno celato nelle taglie di crescenza. Gli abiti contribuiscono, se grandi, al travaglio dello spirito. Col baffetto a v nel mezzo, il baffo errollflynn. Faceva l“avventuriere” in paletot. Irsuto, ricercato, cioè egoista.
Un cavatore, esploratore, della parola. Uno che la ricerca, più che in miniera allo sprofondo o alla caccia grossa, la studia, l’assapora, la trasforma in aria fine d’altopiano. Un posatore. Uno che, avendo in uggia la vita che si è scelta le dà un tocco di romanticheria. Con sapienti fotoritratto, che richiedono pose di minuti ripetute. E passioni inesistenti, qual è quella del gioco, l’antropologia impersonata della dépense, della necessità del superfluo, come Puškin sul quale si modellava, piacere e fantasia, non costruttiva, non necessariamente, e irridere per difendersi. Un dissimulatore, sebbene attraverso sosia trasparenti, e sofferente pure nelle sue maschere.
Si dice del gioco che è pulsione indomabile. Qualcuno l'apparenta al sesso. E, forse involontariamente (per confondere il sesso con l’amore, che in effetti è nostra inestricabile costrizione mentale), ci azzecca: il sesso brucia, quando c’è, ma può non esserci. L’uomo è stato lavoratore di precisione, instancabile, poiché ha lasciato scritte alcune migliaia di pagine limatissime. Faticatore anche, avendo tradotto migliaia di pagine da lingue ostiche. Ma non si rivela, se non indirettamente alla lettura, possedendone le chiavi. Romantico, appassionato, sdolcinato perfino, sulle vecchie pietre, sul tempo perduto, lo ricorda il blagueur Montale, che soffriva della stessa ironica misantropia. Il suo più sincero estimatore ne onorò la morte con la celebre citazione di Blok, tradotto peraltro da Poggioli: “Perché al mondo che mai c’è di meglio\ Del perder gli amici migliori?”.
Fu sedicesimo premio Gabriele D'Annunzio, dopo averne con furia frantumato le radici. È dunque un uomo che è una figura, tutto e solo contorno. Non c’è carne, sotto quella silhouette, ma un vuoto che si trascina articolato. L’andatura di tre quarti lungo i muri, per timore degli spazi, e di ogni altro. Non dissimulano, queste persone. O meglio sì, ma non mistificano: fanno tutt’uno con la dissimulazione, venendo a soffrire, scrittori, la parola scritta. L’avventura è questa. L’ideale inseguendo della Morte, il poeta che di sé dice: “Nacque,\ Fu sempre solo\ Tra tanta gente.\ In molte parole\ Tacque.\ Indi,\ S’accomiatò dal sole”. Che è il modo forse migliore di godersela. Suo ideale era la Muta. Forse una donna, se non la stessa moglie, ma muta diceva, “silenzio”, la musica di Mozart, e il silenzio “armonia di tutte le armonie”. Il vuoto esiste, checché ne pensino i fisici e i politici, il nulla. Si vive ogni giorno con tutti i doveri del decoro, e magari si scrive, che di tutte le occupazioni richiede la volontà più determinata e costante, ma nulla accade. Strana figura, il nulla che accade, ma così è.
Manzoni – Il romanzo è puro Seicento, una costruzione parodistica. Non intenzionale ma al quadrato, considerato l’uso dell’italiano artificioso del pulpito. Il Seicento è nella scelta stessa della parodia, non enunciata, non scelta cioè, programmata, quasi forma naturale. Nel birignao, lingua di testa. Nella costruzione di testa dei personaggi, nessuno dei quali ha materia, neppure accidentale.
Pirandello – Innova da tradizionalista, col gusto forte perfino del folklore (lumìe, tarì, orci, bigonci…)
Scrive delle cose che sa. Ha visto, intravisto, avvertito, ascoltato, fatto, vissuto magari nell’immaginazione ma come fatto, vissuto personale. Uno di grande esperienza, è qui il fascino della sua narrazione, la novità. Non l’invenzione, tanto meno l’astrusità, neppure a suo discarico o a fondo filosofico, ma suoi personali e precisi modi di essere o momenti.
È questo che ne fa la differenza con la letteratura d’invenzione di cui pure il Novecento italiano è prolifico, anche di qualità letteraria, con Pasolini e con Calvino, in quello insistente, retorica, politica, in questo divagante, simulatrice, artificiosa. In Pirandello c’è una realtà: la durezza è il suo indicatore.
Proust – È lo scrittore eponimo della lettura obbligata, come Manzoni a scuola. Vi si deve perciò leggere l’illeggibile, oggetto di infinite esegesi.
È sintatticamente aggrovigliato per mimare i grovigli della memoria oppure rammemora per essersi perduto nella sintassi?
È meraviglioso scrittore di scritture, era la sua specialità.
Il signor P. è stato sempre solo, tutti gli altri erano avevano un titolo.
Se ne ricorda la madeleine nell’infuso perché è l’unico suo scarto. Anche nella trasgressione è di maniera, la Vinteuil, Charlus, Odette non sanno di nulla. Una ragazza innamorata? Una zia memorabile?
Provincialismo – È l’uso di temi locali in una lingua alta, durevole. O di temi cosmopoliti, di chi ha visto il mondo nella sua rande varietà, in una lingua vernacola? È la grande differenza fra il Nord, Toscana compresa, e il Sud: la durevolezza di Verga, Pirandello, Alvaro, Eduardo, lo stesso Tomasi. Non c’è nulla di più provinciale di Montanelli, anche nel giornalismo in comparazione con le corrispondenze di Alvaro.
Arbasino – Vittorini è andato all’opera la prima volta a ventiquattro anni, e ne scopri le doti a quaranta, scrivendosi la prefazione a “Garofano rosso”. Arbasino all’opera ci è cresciuto, e non riesce ad adattarsi alla realtà. La conosce, l’ha studiata, la pratica, ma non la ama – ha studiato il diritto internazionale e l’ha insegnato, ha fatto il giornalista, ha viaggiato e viaggia, ma ancora oggi ha sugli eventi e le cose uno sguardo meravigliato. Che se aiuta la percezione e l’analisi – Arbasino è pur sempre il miglior social scientist che eserciti in Italia – gliene impedisce la rappresentazione, oggi si dice l’affabulazione.
Ogni evento è per lui una sorpresa. In questo rapporto inverso col reale – quotidiano, epocale – è la sua personalissima cifra, l’instancabile invenzione verbale. E la ridondanza: la meraviglia inesausta. Nel presepe farebbe l’Incantato.
Dante - “Grandissimo reazionario se mai ve ne furono” a dire di Eco. Oggi vede impegnati in severa concorrenza due campioni della sinistra, Sermonti e Benigni. È reazionaria questa sinistra? Anche perché Dante è diventato con Benigni merce da prime time, si “vende” come Sanremo. Dove è peraltro stato, sempre con Benigni, col massimo successo, di pubblico e di spot pubbicità.
Benigni ha semplicemente dato voce a Dante. C’è una riscoperta di Dante in questo senso, l’ha aperta Jacqueline Risset vent’anni fa rendendo in francese il ritmo della “Commedia” e l’invenzione verbale ravvivando oggi come era viva allora. L’invenzione di Benigni è leggere Dante come un poeta, libero dalle ragnatele dell’esegesi. Che non è molto di più della “Licenza liceale”, il racconto di Campanile in “Manuale di conversazione”: “Tu sapevi che le anime dei beati non stanno nei vari cieli, ma stanno vicini a Dio?” Con la risposta: “Sì, scendono con una corda”, che semina il panico tra i maturandi in attesa. E la ripresa: “L’invettiva di san Pietro è nel ventottesimo canto?”.
L’esegesi ha torti e meriti. Ma il suo esito è di oscurare il soggetto. Anzi, di dare i testi per ben morti. Sui testi sacri magari è più dolce della teologia, non si vuole torturatrice, ma sempre è secca: l’interpretazione è creativa, ma per l’interprete.
Gadda – Gli riesce il miracolo di elevarsi sopra il birignao milanese, di Dossi e gli altri innumerevoli del secondo Ottocento, e di Anceschi, Manganelli, Cederna, anche Arbasino purtroppo. Su di essi Gadda si è elevato con sofferto disprezzo.
È finto misantropo, atteggiato. In realtà socialissimo, il letterato italiano con più vaste e variegate frequentazioni: innumerevoli le foto che lo immortalano coi personaggi più diversi, Contini o Calamandrei, e le mogli, andava perfino ai premi letterari, amava la conversazione, invitava e si faceva invitare ai pasti. È stato nei luoghi più diversi, numerosi gli epistolari, infinite le testimonianze – mancano solo una Céleste Albaret e i colleghi ingegneri - è da dubitare che ne avesse, in Vaticano come in Sud America? Il letterato più a suo agio tra i letterati, che per quarant'anni ha frequentato con costanza e quasi esclusivamente, promuovendo le recensioni, partecipando ai premi, e alle beghe dei premi.
Landolfi – Si ricorda in una rara apparizione in tv figura a punto interrogativo, in atto d’irridere lacanotteri e altri invertebrati della psiche, la pelle stretta alle ossa robuste, il passo ferrigno celato nelle taglie di crescenza. Gli abiti contribuiscono, se grandi, al travaglio dello spirito. Col baffetto a v nel mezzo, il baffo errollflynn. Faceva l“avventuriere” in paletot. Irsuto, ricercato, cioè egoista.
Un cavatore, esploratore, della parola. Uno che la ricerca, più che in miniera allo sprofondo o alla caccia grossa, la studia, l’assapora, la trasforma in aria fine d’altopiano. Un posatore. Uno che, avendo in uggia la vita che si è scelta le dà un tocco di romanticheria. Con sapienti fotoritratto, che richiedono pose di minuti ripetute. E passioni inesistenti, qual è quella del gioco, l’antropologia impersonata della dépense, della necessità del superfluo, come Puškin sul quale si modellava, piacere e fantasia, non costruttiva, non necessariamente, e irridere per difendersi. Un dissimulatore, sebbene attraverso sosia trasparenti, e sofferente pure nelle sue maschere.
Si dice del gioco che è pulsione indomabile. Qualcuno l'apparenta al sesso. E, forse involontariamente (per confondere il sesso con l’amore, che in effetti è nostra inestricabile costrizione mentale), ci azzecca: il sesso brucia, quando c’è, ma può non esserci. L’uomo è stato lavoratore di precisione, instancabile, poiché ha lasciato scritte alcune migliaia di pagine limatissime. Faticatore anche, avendo tradotto migliaia di pagine da lingue ostiche. Ma non si rivela, se non indirettamente alla lettura, possedendone le chiavi. Romantico, appassionato, sdolcinato perfino, sulle vecchie pietre, sul tempo perduto, lo ricorda il blagueur Montale, che soffriva della stessa ironica misantropia. Il suo più sincero estimatore ne onorò la morte con la celebre citazione di Blok, tradotto peraltro da Poggioli: “Perché al mondo che mai c’è di meglio\ Del perder gli amici migliori?”.
Fu sedicesimo premio Gabriele D'Annunzio, dopo averne con furia frantumato le radici. È dunque un uomo che è una figura, tutto e solo contorno. Non c’è carne, sotto quella silhouette, ma un vuoto che si trascina articolato. L’andatura di tre quarti lungo i muri, per timore degli spazi, e di ogni altro. Non dissimulano, queste persone. O meglio sì, ma non mistificano: fanno tutt’uno con la dissimulazione, venendo a soffrire, scrittori, la parola scritta. L’avventura è questa. L’ideale inseguendo della Morte, il poeta che di sé dice: “Nacque,\ Fu sempre solo\ Tra tanta gente.\ In molte parole\ Tacque.\ Indi,\ S’accomiatò dal sole”. Che è il modo forse migliore di godersela. Suo ideale era la Muta. Forse una donna, se non la stessa moglie, ma muta diceva, “silenzio”, la musica di Mozart, e il silenzio “armonia di tutte le armonie”. Il vuoto esiste, checché ne pensino i fisici e i politici, il nulla. Si vive ogni giorno con tutti i doveri del decoro, e magari si scrive, che di tutte le occupazioni richiede la volontà più determinata e costante, ma nulla accade. Strana figura, il nulla che accade, ma così è.
Manzoni – Il romanzo è puro Seicento, una costruzione parodistica. Non intenzionale ma al quadrato, considerato l’uso dell’italiano artificioso del pulpito. Il Seicento è nella scelta stessa della parodia, non enunciata, non scelta cioè, programmata, quasi forma naturale. Nel birignao, lingua di testa. Nella costruzione di testa dei personaggi, nessuno dei quali ha materia, neppure accidentale.
Pirandello – Innova da tradizionalista, col gusto forte perfino del folklore (lumìe, tarì, orci, bigonci…)
Scrive delle cose che sa. Ha visto, intravisto, avvertito, ascoltato, fatto, vissuto magari nell’immaginazione ma come fatto, vissuto personale. Uno di grande esperienza, è qui il fascino della sua narrazione, la novità. Non l’invenzione, tanto meno l’astrusità, neppure a suo discarico o a fondo filosofico, ma suoi personali e precisi modi di essere o momenti.
È questo che ne fa la differenza con la letteratura d’invenzione di cui pure il Novecento italiano è prolifico, anche di qualità letteraria, con Pasolini e con Calvino, in quello insistente, retorica, politica, in questo divagante, simulatrice, artificiosa. In Pirandello c’è una realtà: la durezza è il suo indicatore.
Proust – È lo scrittore eponimo della lettura obbligata, come Manzoni a scuola. Vi si deve perciò leggere l’illeggibile, oggetto di infinite esegesi.
È sintatticamente aggrovigliato per mimare i grovigli della memoria oppure rammemora per essersi perduto nella sintassi?
È meraviglioso scrittore di scritture, era la sua specialità.
Il signor P. è stato sempre solo, tutti gli altri erano avevano un titolo.
Se ne ricorda la madeleine nell’infuso perché è l’unico suo scarto. Anche nella trasgressione è di maniera, la Vinteuil, Charlus, Odette non sanno di nulla. Una ragazza innamorata? Una zia memorabile?
Provincialismo – È l’uso di temi locali in una lingua alta, durevole. O di temi cosmopoliti, di chi ha visto il mondo nella sua rande varietà, in una lingua vernacola? È la grande differenza fra il Nord, Toscana compresa, e il Sud: la durevolezza di Verga, Pirandello, Alvaro, Eduardo, lo stesso Tomasi. Non c’è nulla di più provinciale di Montanelli, anche nel giornalismo in comparazione con le corrispondenze di Alvaro.
lunedì 13 ottobre 2008
Problemi di base - 5
Blog come palindromo di glob(alizzazione)?
Perché Dio ha creato la zanzara è problema antico – è il primo fondamento del darwinismo. Ma perché la riproduce instancabile?
Perché il Nobel per l’economia lo danno sempre agli americani (l’economia è la scienza che combina i disastri, è la risposta esatta)?
Perché gli animali non sono mai brutti, quelli non incrociati dall’uomo, e gli esseri umani spesso lo sono?
Perché, se Omero era cieco, la sua scrittura è piena di colori?
Perché gli arbitri si chiamano signori?
È vero che la scuola non funziona perchè ci sono i precari. Ma perché ci sono i precari a scuola?
E per chi è prioritaria la posta prioritaria?
Ci sono tanti avvocati in Calabria nelle zone di mafia, a Palmi e Locri, perché ci sono tanti mafiosi, o i mafiosi ci sono perché ci sono tanti avvocati?
Perché Dio ha creato la zanzara è problema antico – è il primo fondamento del darwinismo. Ma perché la riproduce instancabile?
Perché il Nobel per l’economia lo danno sempre agli americani (l’economia è la scienza che combina i disastri, è la risposta esatta)?
Perché gli animali non sono mai brutti, quelli non incrociati dall’uomo, e gli esseri umani spesso lo sono?
Perché, se Omero era cieco, la sua scrittura è piena di colori?
Perché gli arbitri si chiamano signori?
È vero che la scuola non funziona perchè ci sono i precari. Ma perché ci sono i precari a scuola?
E per chi è prioritaria la posta prioritaria?
Ci sono tanti avvocati in Calabria nelle zone di mafia, a Palmi e Locri, perché ci sono tanti mafiosi, o i mafiosi ci sono perché ci sono tanti avvocati?
Il romanzo del "Garofano" è l'appendice
È un romanzo liceale, in America rientrerebbe nel genere college. Ci sono i baci rubati, i soprannomi, lo strappo sintattico e verbale, lo psicologismo del tema in classe, il diario. Non felice, però.
Ghiotta resta invece, benché faticosa, l’avvertenza-prefazione di Vittorini alla prima edizione nel 1948 del “romanzo”, scritto “con «non piacere»”, così virgoletta, riprodotta in questo Oscar del 1970. Sul perché si scrive (e si riscrive), e come si legge. Contro, allora, “i conformisti del realismo romanzesco”. Piena di ottime citazioni. “La verità non rischia niente a passare per un periodo di abbiezione”. Il realismo psicologico, “questo era un linguaggio che sembrava obbligatorio imparare per scriver romanzi. Costituiva una tradizione di un secolo” (ma non cita Manzoni, per non dispiacere a Milano?). “Il melodramma ha la possibilità”, Vittorini è infine andato all’opera a venticinque anni, “negata al romanzo, di esprimere nel suo complesso qualche grande sentimento generale”. Oltre che dal conformismo realistico, siamo oberati dal romanzo filosofico o saggistico, “con recensioni di personaggi invece di personaggi, recensioni di sentimenti invece di sentimenti, e recensioni di realtà, recensioni di vita…”. Delizioso il calco d’esordio, inavvertito, di Kierkegaard e la sua teoria delle prefazioni.
Questo è un racconto nel racconto. Vittorini, che non ama le prefazioni, “non ho mai creduto nelle prefazioni, mai, nel tempo delle mie letture, ne ho lette”, ne scrive dunque una. A malincuore, anche perché “un libro vecchio di tredici anni è una «cosa», non più parola”. Ma ne scrive una in XXI paragrafi e una trentina abbondante di pagine. Per scoprire che le prefazioni sono libri: “Quanti libri, del resto, non sono che prefazioni dalla prima parola all’ultima? Quante ne abbiamo pur letto come se fossero opere, e in cui, come se fossero dimore, abbiamo lasciato abitare a lungo la nostra mente, non sono invece altro che una soglia?”.
Vittorini è anche un siciliano onesto. Questo non c’è negli apparati critici che lo concernono, ma è la sua caratteristica. Nell’avvertenza-prefazione al “Garofano” anche più che altrove. Ormai grande editore quando pubblica il “romanzo” nel dopoguerra, dice che avrebbe potuto continuare a pubblicarlo su “Solaria”, la rivista fiorentina, “la dirigevano i miei amici Alberto Carocci e Giansiro Ferrata, e il numero uscito nel febbraio del 1933 portò la prima puntata”. Ma dopo la prima puntata gli capitò di andare a Milano. Una scoperta “straordinaria, dopo cinque o sei anni durante i quali mi pareva di non aver avuto che da bambino rapporti spontanei con le cose materne”, e il “romanzo” fu completato a malincuore, anche per le noie della censura. Afferma che c’è nel libro “un diffuso elemento di impostura” (ma riducendola alla pretesa di aver fatto il liceo, mentre si era solo avvicinato alle scuole tecniche, e a confondersi con la borghesia, lui di famiglia povera di operai, contadini e piccolissimi impiegati…). E vuole riconoscere che il comunismo dei ragazzi fascisti nei primi anni 1930 “ricorreva di continuo nella stampa dei G.U.F. e persino in qualche settimanale di Federazione” - specie lo spartachismo (anche i feroci nazionalisti dei Freikorp tedeschi nei primi anni 1920 ne avevano nostalgia).
Qualcuno nell’apparato critico ha rimproverato a Vittorini la scena con la prostituta Zobeide, e Vittorini concorda: “Il lettore… molto troverà, leggendo, che gli sembrerà falso: ad esempio, i rapporti tra il ragazzo protagonista e la donna di malaffare (ma non esattamente prostituta) della casa di malaffare”. Ma è il solo rapporto vivo del “romanzo” - anche se la “casa di malaffare” è propriamente un bordello, a minutaggio, la “donna di malaffare non esattamente prostituta” una puttana, del giro delle quindicine.
Elio Vittorini, Il garofano rosso
Ghiotta resta invece, benché faticosa, l’avvertenza-prefazione di Vittorini alla prima edizione nel 1948 del “romanzo”, scritto “con «non piacere»”, così virgoletta, riprodotta in questo Oscar del 1970. Sul perché si scrive (e si riscrive), e come si legge. Contro, allora, “i conformisti del realismo romanzesco”. Piena di ottime citazioni. “La verità non rischia niente a passare per un periodo di abbiezione”. Il realismo psicologico, “questo era un linguaggio che sembrava obbligatorio imparare per scriver romanzi. Costituiva una tradizione di un secolo” (ma non cita Manzoni, per non dispiacere a Milano?). “Il melodramma ha la possibilità”, Vittorini è infine andato all’opera a venticinque anni, “negata al romanzo, di esprimere nel suo complesso qualche grande sentimento generale”. Oltre che dal conformismo realistico, siamo oberati dal romanzo filosofico o saggistico, “con recensioni di personaggi invece di personaggi, recensioni di sentimenti invece di sentimenti, e recensioni di realtà, recensioni di vita…”. Delizioso il calco d’esordio, inavvertito, di Kierkegaard e la sua teoria delle prefazioni.
Questo è un racconto nel racconto. Vittorini, che non ama le prefazioni, “non ho mai creduto nelle prefazioni, mai, nel tempo delle mie letture, ne ho lette”, ne scrive dunque una. A malincuore, anche perché “un libro vecchio di tredici anni è una «cosa», non più parola”. Ma ne scrive una in XXI paragrafi e una trentina abbondante di pagine. Per scoprire che le prefazioni sono libri: “Quanti libri, del resto, non sono che prefazioni dalla prima parola all’ultima? Quante ne abbiamo pur letto come se fossero opere, e in cui, come se fossero dimore, abbiamo lasciato abitare a lungo la nostra mente, non sono invece altro che una soglia?”.
Vittorini è anche un siciliano onesto. Questo non c’è negli apparati critici che lo concernono, ma è la sua caratteristica. Nell’avvertenza-prefazione al “Garofano” anche più che altrove. Ormai grande editore quando pubblica il “romanzo” nel dopoguerra, dice che avrebbe potuto continuare a pubblicarlo su “Solaria”, la rivista fiorentina, “la dirigevano i miei amici Alberto Carocci e Giansiro Ferrata, e il numero uscito nel febbraio del 1933 portò la prima puntata”. Ma dopo la prima puntata gli capitò di andare a Milano. Una scoperta “straordinaria, dopo cinque o sei anni durante i quali mi pareva di non aver avuto che da bambino rapporti spontanei con le cose materne”, e il “romanzo” fu completato a malincuore, anche per le noie della censura. Afferma che c’è nel libro “un diffuso elemento di impostura” (ma riducendola alla pretesa di aver fatto il liceo, mentre si era solo avvicinato alle scuole tecniche, e a confondersi con la borghesia, lui di famiglia povera di operai, contadini e piccolissimi impiegati…). E vuole riconoscere che il comunismo dei ragazzi fascisti nei primi anni 1930 “ricorreva di continuo nella stampa dei G.U.F. e persino in qualche settimanale di Federazione” - specie lo spartachismo (anche i feroci nazionalisti dei Freikorp tedeschi nei primi anni 1920 ne avevano nostalgia).
Qualcuno nell’apparato critico ha rimproverato a Vittorini la scena con la prostituta Zobeide, e Vittorini concorda: “Il lettore… molto troverà, leggendo, che gli sembrerà falso: ad esempio, i rapporti tra il ragazzo protagonista e la donna di malaffare (ma non esattamente prostituta) della casa di malaffare”. Ma è il solo rapporto vivo del “romanzo” - anche se la “casa di malaffare” è propriamente un bordello, a minutaggio, la “donna di malaffare non esattamente prostituta” una puttana, del giro delle quindicine.
Elio Vittorini, Il garofano rosso
Quando la Versilia non aveva il mare
Si discute di fare meglio l’olio dell’infinito uliveto che da Massarosa va alla Spezia, di individuare e debellare le cause specifiche della “mal’aria” lungo il mare, di migliorare gli accessi e gli sbocchi della tante cave, non solo di marmo, di assestare i terreni in pendio, del miglior uso della manomorta e dei tesori della chiesa. Non senza interesse per il lettore di oggi, anzi con taglio sempre contemporaneo. Effetto forse della letteratura economica, quando si lega alla storia e ai caratteri, della natura e delle popolazioni.Nel 1845, anno della pubblicazione di questa ristampa, la Versilia era solo un pontile malfermo per i carichi di marmo. Non c’era l’industria del mare. E il Forte, che ora vende il metro quadrato al prezzo più alto in Italia, era il forte, uno dei tanti disseminati dai granduchi lungo la costa. Ancora in questo dopoguerra, peraltro, vaste zone della Versilia si segnalavano per la povertà – mentre Manduria in provincia di Taranto guidava la classifica dei posti dove si viveva meglio, per la "naturale" abbondanza di ulivi, anche se trascurata. Ma la Versilia già allora si curava.
La cura dell’ulivo è perfino commovente, una coltura che tanto è ricca potenzialmente quanto è abbandonata in Italia al traffico dei marchi e all’insensata politica agricola europea. Il “tenue lavoro storico-patrio” del Barbacciani-Fedeli, “socio di rispettabili accademie italiane”, documenta un paio di dozzine di tipologie di olivi, quercetano o minutaio, stringaio, grossinaio, moraiolo, frantoiano o morcaio, mortellino o allorino, pallottolaio, cornetto, peppolaio, laurino, colombino o razzarolo, cucco, grendinone, bastardo, selvatico, tiburtino… Ricca è anche la “gioponica olearia”: la luce tra le ceppaie, e tra i grandi e piccoli rami, la potatura dall’alto, eccetera. E la tecnica di lavorazione: lo “spolpa olive” del signor Stancovich, il “torchio oleario domestico portatile” dello stesso, il procedimento Bonard, parroco di Vandarques in Francia, “per ricavare dall’ulive una maggiore quantità di olio… (mediante) una semplicissima aspersione dell’ulive nell’aceto”… Era come avere il mare oggi, l’industria che ha reso superflua la fatica e moltiplica il reddito.Ranieri Barbacciani-Fedeli, Saggio storico dell’antica e moderna Versilia, Libreria Giannelli, Forte dei Marmi, pp.321 + XC, € 10
La cura dell’ulivo è perfino commovente, una coltura che tanto è ricca potenzialmente quanto è abbandonata in Italia al traffico dei marchi e all’insensata politica agricola europea. Il “tenue lavoro storico-patrio” del Barbacciani-Fedeli, “socio di rispettabili accademie italiane”, documenta un paio di dozzine di tipologie di olivi, quercetano o minutaio, stringaio, grossinaio, moraiolo, frantoiano o morcaio, mortellino o allorino, pallottolaio, cornetto, peppolaio, laurino, colombino o razzarolo, cucco, grendinone, bastardo, selvatico, tiburtino… Ricca è anche la “gioponica olearia”: la luce tra le ceppaie, e tra i grandi e piccoli rami, la potatura dall’alto, eccetera. E la tecnica di lavorazione: lo “spolpa olive” del signor Stancovich, il “torchio oleario domestico portatile” dello stesso, il procedimento Bonard, parroco di Vandarques in Francia, “per ricavare dall’ulive una maggiore quantità di olio… (mediante) una semplicissima aspersione dell’ulive nell’aceto”… Era come avere il mare oggi, l’industria che ha reso superflua la fatica e moltiplica il reddito.Ranieri Barbacciani-Fedeli, Saggio storico dell’antica e moderna Versilia, Libreria Giannelli, Forte dei Marmi, pp.321 + XC, € 10
domenica 12 ottobre 2008
La globalizzazione evita il '29
Il crack finanziario c’è stato, anche più grave, reiterato, che nel 1929, ma la vita non s’è fermata. Il crack non è lo stesso perché non c’è e non ci sarà la depressione – l’anticipazione della depressione (Federal Reserve, Fmi, Bce) serve a evitarla. Malgrado tutto.
Malgrado cioè lo sgonfiamento del pil di uno e forse due punti negli Usa, e anche in Gran Bretagna, col prosciugamento dei derivati, crediti virtuali. Malgrado il veleno interbancario, che circola nei viluppi tra le banche di tutto il mondo. Malgrado il passaggio di tanto debito privato a debito pubblico, in Usa, Gran Bretagna e Germania. Malgrado il crollo della liquidità al consumo, per l’inesigibilità degli investimenti, in titoli e in fondi, d’investimento, perequativi, pensionistici, polizze vita. Non vendere è la posizione giusta per non perdere. Ma sterilizza la liquidità. È come aver messo i soldi sotto il materasso. Questa finta stabilità inoltre aiuta le banche a non sradicare le pratiche innominabili. Malgrado infine la perdita del centro. Da troppo tempo la predizione della fine dell’America, che peraltro sarebbe anche la fine dell’Europa, si susseguono senza esito, sapendo più che altro di scongiuro, se non di masochismo. Ma le banche centrali e i fondi sovrani asiatici acquisteranno più peso nella finanza e gli affari mondiali. Il futuro sarà sempre più transpacifico, con una ulteriore spinta dopo quella che, trent’anni fa, portò il Giappone al proscenio – prima del quasi fallimento del Sol Levante.
Non ci sarà però il 1929 perché i fondamentali dell’economia sono ancora saldi: si consuma e si produce, la capacità di spesa globale è più o meno intonsa, in questa fase della crisi. Che lo sgonfiamento della speculazione anzi rafforza, in questo provvidenziale, nel ritorno del petrolio e le materie prime ai valori di mercato. Ma appunto – e ci sarà da pensarci – l’economia rimane salda grazie alla globalizzazione. Fosse rimasta transatlantica sarebbe già ferma.
Malgrado cioè lo sgonfiamento del pil di uno e forse due punti negli Usa, e anche in Gran Bretagna, col prosciugamento dei derivati, crediti virtuali. Malgrado il veleno interbancario, che circola nei viluppi tra le banche di tutto il mondo. Malgrado il passaggio di tanto debito privato a debito pubblico, in Usa, Gran Bretagna e Germania. Malgrado il crollo della liquidità al consumo, per l’inesigibilità degli investimenti, in titoli e in fondi, d’investimento, perequativi, pensionistici, polizze vita. Non vendere è la posizione giusta per non perdere. Ma sterilizza la liquidità. È come aver messo i soldi sotto il materasso. Questa finta stabilità inoltre aiuta le banche a non sradicare le pratiche innominabili. Malgrado infine la perdita del centro. Da troppo tempo la predizione della fine dell’America, che peraltro sarebbe anche la fine dell’Europa, si susseguono senza esito, sapendo più che altro di scongiuro, se non di masochismo. Ma le banche centrali e i fondi sovrani asiatici acquisteranno più peso nella finanza e gli affari mondiali. Il futuro sarà sempre più transpacifico, con una ulteriore spinta dopo quella che, trent’anni fa, portò il Giappone al proscenio – prima del quasi fallimento del Sol Levante.
Non ci sarà però il 1929 perché i fondamentali dell’economia sono ancora saldi: si consuma e si produce, la capacità di spesa globale è più o meno intonsa, in questa fase della crisi. Che lo sgonfiamento della speculazione anzi rafforza, in questo provvidenziale, nel ritorno del petrolio e le materie prime ai valori di mercato. Ma appunto – e ci sarà da pensarci – l’economia rimane salda grazie alla globalizzazione. Fosse rimasta transatlantica sarebbe già ferma.
L'esercito scuote la burocrazia
Si arrestano i camorristi a centinaia con l’arrivo della Folgore, tra Castelvolturno e Casaldiprincipe. Non erano dunque tanto “latitanti”. È che la sfida dell’esercito ha scosso le intette polizie, locali nazionali. C’è questo fattore burocratico nelle politiche della repressione, nella loro inettitudine come nei loro successi.
È un aspetto non analizzato, e imprevedibile, dell’uso dell’esercito contro la delinquenza. È come chiamare gli arbitri stranieri, minacciare di chiamarli, che non sono migliori ma sono una sfida alle cattive abitudini (parzialità, sufficienza). L’esercito non ha nessuno degli strumenti che hanno i CC e la Polizia: informazioni, logistica, conoscenza delle leggi e le procedure. E tuttavia ogni volta che il governo ne ha deciso l’impiego in questi ultimi quindici anni a fini dissuasivi e repressivi, in Aspromonte contro i rapimenti, in Sicilia dopo gli eccidi di mafia, e ora nel casertano, i risultati sono stati immediati e perfino radicali – sui rapimenti, e sulla potenza militare della mafia.
Razionalizzando, con la trita logica della pubblicistica che si vuole impegnata, l’impegno dell’esercito conferma alle forse della repressione la volontà dello Stato di perseguire quella specifica forma di delinquenza. Ma lo Stato è le forze della repressione. No, in ballo è la burocrazia, la sfida portata sul terreno della burocrazia, l’unico linguaggio parlato dalle forze dell’ordine, che le muove. Allo stesso modo che nelle mafie – questi fenomeni sono speculari. Che si mostrano, emergono, si denunciano, attaccano, quando sono sfidate da altre mafie.
È un aspetto non analizzato, e imprevedibile, dell’uso dell’esercito contro la delinquenza. È come chiamare gli arbitri stranieri, minacciare di chiamarli, che non sono migliori ma sono una sfida alle cattive abitudini (parzialità, sufficienza). L’esercito non ha nessuno degli strumenti che hanno i CC e la Polizia: informazioni, logistica, conoscenza delle leggi e le procedure. E tuttavia ogni volta che il governo ne ha deciso l’impiego in questi ultimi quindici anni a fini dissuasivi e repressivi, in Aspromonte contro i rapimenti, in Sicilia dopo gli eccidi di mafia, e ora nel casertano, i risultati sono stati immediati e perfino radicali – sui rapimenti, e sulla potenza militare della mafia.
Razionalizzando, con la trita logica della pubblicistica che si vuole impegnata, l’impegno dell’esercito conferma alle forse della repressione la volontà dello Stato di perseguire quella specifica forma di delinquenza. Ma lo Stato è le forze della repressione. No, in ballo è la burocrazia, la sfida portata sul terreno della burocrazia, l’unico linguaggio parlato dalle forze dell’ordine, che le muove. Allo stesso modo che nelle mafie – questi fenomeni sono speculari. Che si mostrano, emergono, si denunciano, attaccano, quando sono sfidate da altre mafie.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (24)
Giuseppe Leuzzi
Tutte parlate del Nord alla radio e nelle televisioni per spiegare il crack. Tutti in qualche modo più o meno artefici del crack stesso, banchieri, assicuratori, accademici consulenti. Che naturalmente censurano con asprezza.
I pentiti sono criminali anche nella confessione. Selettivi, vendicativi. Per tali sono del resto utilizzati dagli inquirenti. Sono cioè criminogeni.
Impersonano a loro modo la legge individuale che il filosofo Simmel pone a fondamento della morale, della vita reale cioè, in contrapposto alla legge ideale di Kant che si contrappone alla vita. A loro modo, cioè al contrario. Il dover essere di Simmel non è un dovere morale, bensì un modo di vita, “in cui possono rientrare i contenuti più diversi: speranze e stimoli, esperienze eudemonistiche ed estetiche, ideali religiosi, capricci, brame immorali”. Ecco come si aprono le voragini.
Si pubblicano in volume, e se ne fa la critica, i pizzini di Provenzano, le “pensate” e gli ordini del capo della mafia siciliana. È una furbata non soltanto editoriale. Si magnifica infatti l’aspetto meno magnificabile della mafia, l’inarticolazione verbale, per analfabetismo o incapacità di argomentare Il mafioso ha un cervello molto semplificato: la rozzezza, di cervello e sentimenti, è il suo tratto distintivo. Ora se ne fa la semiotica, come di linguaggio superiore, e perfino la letteratura.
Alda Merini, “Ipotenusa d’amore”, “Per Giovanni Falcone”
“…la mafia accusa\ i suoi morti.\\ La mafia li commemora\ con ciclopici funerali:\ così è stato per te, Giovanni,\ trasportato a braccia da quelli\ che ti avevano ucciso”.
Dumas spiega nel racconto “Murat” che il suo protagonista viene fatto decapitare da re Ferdinando perché “giustiziato in un posto remoto”: qualsiasi avventuriero avrebbero potuto altrimenti un giorno proclamarsi Murat. Pizzo, Monteleone (Vibo Valentia) e Santa Tropea erano per Napoli fuori dal mondo. Il re Borbone terrà la testa di Murat in un armadio segreto nella sua camera da letto, nella formalina.
I mafiosi non discutono. Con i giudici sì, e con l’avvocato, perché sono tragediatori, con i carabinieri di più, perché li temono, ma non fra di loro. Si fiutano, e si regolano di conseguenza, ma non negoziano. Se non nella letteratura, specie quella siciliana dopo “Il Padrino”.
Per questo le cronache dei vertici, delle conferenze, degli aeropaghi e le cupole, dove si discute e si vota suonano ridicole oltre che stonate.
In America discutono perché il paese è grande, le leggi sono diverse tra gli stati, le mafie sono da sempre di varia nazionalità e numerose nello stesso territorio. Le mafie di New York sono all’estero a Miami, e viceversa.
Moratti è salito per la prima volta sul Duomo di Milano perché ce l’ha portato Zanetti, per la sua festa all’Inter. Altri milanesi famosi non hanno mai visto Brera, o il Cenacolo. Io sul Duomo, a Brera, al Cenacolo ci sono andato a dieci anni, o undici, al primo viaggio estivo con la scuola. Mentre a Reggio, a un’ora di macchina, sono andato per la prima volta a diciott’anni, giusto per la patente. È questa la forza, o la debolezza, del provincialismo, che sappiamo tutto degli altri, quelli importanti, più degli altri, a nessun fine - una vita vicaria, saprofitica.
“Striscia la notizia” , la trasmissione tv più vista, ha due buoni corrispondenti in Puglia, Fabio e Mingo. La Puglia diventa così a sere alterne un concentrato della beceraggine nazionale, frode, speculazione, corruzione, nepotismo, sfruttamento, inefficienza, sporcizia nella tv che ha più otto o dieci milioni di spettatori.
Il provincialismo è l’uso di temi locali in una lingua alta, durevole. O di temi cosmopoliti, di chi ha frequentato il mondo, nella sua grande varietà, in una lingua vernacola? È la grande differenza fra il Nord, Toscana compresa, e il Sud: la durevolezza di Verga, Pirandello, Alvaro, Eduardo, lo stesso Tomasi. Non c’è nulla di più provinciale di Montanelli, anche nel giornalismo in comparazione con le corrispondenze di Alvaro.
Aspromonte
La donna guerriera, dolce e forte, riappare nelle chansons de geste del Sud, specie quelle dell’Aspromonte, nel Quattrocento. All’insegna della religiosità, è vero..
Nella “Canzone d’Aspromonte” del Quattrocento, riedita da Carmelina Sicari, l’eroe locale si confronta con Namo di Baviera, l’uomo della forza e della generosità, il tedesco di Carlo Magno. Nell’Ottocento è subentrato Garibaldi, che non ne ha la statura. Non tutti i percorsi sono prestabiliti, e la geografia è spesso solo un nome.
La realtà è qui sempre immaginata, non soltanto dai calabresi. Narra Antonio Delfino, lo scrittore dell’Aspromonte mancato con rimpianto di molti un mese fa, nell’ormai classico “La nave della ‘ndrangheta”, lo sbarco degli Alleati sul continente europeo il 3 settembre 1943. Lo sbarco si fece tra le fiumare di Gallico e Annunziata, alla periferia di Reggio Calabria: dal ventre di centinaia di mezzi anfibi Ducks la testa di ponte fu stabilita da due divisioni di quella che sarà la famosissima Ottava armata, la prima, di fanti canadesi, per il controllo dell’Aspromonte e della fascia jonica, e la quinta, di fanti britannici, per il controllo della piana di Gioia Tauro: “Un maglio, si disse, per schiacciare una noce: l’Aspromonte fu conquistato al suono delle cornamuse”. Vi si esercitavano a Gambarie i canadesi, “in attesa delle battaglie”, che poi “conquistarono Delianuova, in bicicletta”.
Per la trasformazione dell’onorata società in mafia c’è una data di nascita, narra Delfino, l’agosto 1955. Un tentativo di estorsione da parte di balordi nei presi di Gambarie coinvolse la moglie dell’onorevole Antonio Capua, che si trovava a passare in macchina dal luogo del concordato pagamento. Non ci furono feriti, ma il ministro dell’Interno Ferdinando Tambroni rimosse il prefetto di Reggio e mandò nella città, come questore con pieni poteri civili, Carmelo Marzano. Il superquestore esordì arrestando il capo riconosciuto dell’onorata società, Antonio Macrì, e rispolverando il confino di polizia, vecchia pratica del fascismo per i casi in cui non ci sono elementi per portare un sospettato in tribunale. Arrestò Macrì il 2 settembre, data simbolica, poiché è il giorno della Madonna della Montagna o di Polsi, che l’onorata società vuole sua padrona, e malgrado i buoni uffici del Vaticano lo mandò al confino a Ustica per cinque anni. Il Vaticano se ne interessò perché il Macrì aveva risolto il caso di alcuni preti che, avendo il vescovo di Locri Perantoni scoperto la loro corruzione nella gestione della Pontificia Opera di Assistenza, progettavano di uccidente il vescovo stesso. Soggiornando il Macrì a Ustica già si aprivano le fiumare calabresi allo sbarco delle sigarette di contrabbando, primo passo della ‘ndrangheta imprenditrice al soldo di Cosa Nostra, o mafia.
Tutte parlate del Nord alla radio e nelle televisioni per spiegare il crack. Tutti in qualche modo più o meno artefici del crack stesso, banchieri, assicuratori, accademici consulenti. Che naturalmente censurano con asprezza.
I pentiti sono criminali anche nella confessione. Selettivi, vendicativi. Per tali sono del resto utilizzati dagli inquirenti. Sono cioè criminogeni.
Impersonano a loro modo la legge individuale che il filosofo Simmel pone a fondamento della morale, della vita reale cioè, in contrapposto alla legge ideale di Kant che si contrappone alla vita. A loro modo, cioè al contrario. Il dover essere di Simmel non è un dovere morale, bensì un modo di vita, “in cui possono rientrare i contenuti più diversi: speranze e stimoli, esperienze eudemonistiche ed estetiche, ideali religiosi, capricci, brame immorali”. Ecco come si aprono le voragini.
Si pubblicano in volume, e se ne fa la critica, i pizzini di Provenzano, le “pensate” e gli ordini del capo della mafia siciliana. È una furbata non soltanto editoriale. Si magnifica infatti l’aspetto meno magnificabile della mafia, l’inarticolazione verbale, per analfabetismo o incapacità di argomentare Il mafioso ha un cervello molto semplificato: la rozzezza, di cervello e sentimenti, è il suo tratto distintivo. Ora se ne fa la semiotica, come di linguaggio superiore, e perfino la letteratura.
Alda Merini, “Ipotenusa d’amore”, “Per Giovanni Falcone”
“…la mafia accusa\ i suoi morti.\\ La mafia li commemora\ con ciclopici funerali:\ così è stato per te, Giovanni,\ trasportato a braccia da quelli\ che ti avevano ucciso”.
Dumas spiega nel racconto “Murat” che il suo protagonista viene fatto decapitare da re Ferdinando perché “giustiziato in un posto remoto”: qualsiasi avventuriero avrebbero potuto altrimenti un giorno proclamarsi Murat. Pizzo, Monteleone (Vibo Valentia) e Santa Tropea erano per Napoli fuori dal mondo. Il re Borbone terrà la testa di Murat in un armadio segreto nella sua camera da letto, nella formalina.
I mafiosi non discutono. Con i giudici sì, e con l’avvocato, perché sono tragediatori, con i carabinieri di più, perché li temono, ma non fra di loro. Si fiutano, e si regolano di conseguenza, ma non negoziano. Se non nella letteratura, specie quella siciliana dopo “Il Padrino”.
Per questo le cronache dei vertici, delle conferenze, degli aeropaghi e le cupole, dove si discute e si vota suonano ridicole oltre che stonate.
In America discutono perché il paese è grande, le leggi sono diverse tra gli stati, le mafie sono da sempre di varia nazionalità e numerose nello stesso territorio. Le mafie di New York sono all’estero a Miami, e viceversa.
Moratti è salito per la prima volta sul Duomo di Milano perché ce l’ha portato Zanetti, per la sua festa all’Inter. Altri milanesi famosi non hanno mai visto Brera, o il Cenacolo. Io sul Duomo, a Brera, al Cenacolo ci sono andato a dieci anni, o undici, al primo viaggio estivo con la scuola. Mentre a Reggio, a un’ora di macchina, sono andato per la prima volta a diciott’anni, giusto per la patente. È questa la forza, o la debolezza, del provincialismo, che sappiamo tutto degli altri, quelli importanti, più degli altri, a nessun fine - una vita vicaria, saprofitica.
“Striscia la notizia” , la trasmissione tv più vista, ha due buoni corrispondenti in Puglia, Fabio e Mingo. La Puglia diventa così a sere alterne un concentrato della beceraggine nazionale, frode, speculazione, corruzione, nepotismo, sfruttamento, inefficienza, sporcizia nella tv che ha più otto o dieci milioni di spettatori.
Il provincialismo è l’uso di temi locali in una lingua alta, durevole. O di temi cosmopoliti, di chi ha frequentato il mondo, nella sua grande varietà, in una lingua vernacola? È la grande differenza fra il Nord, Toscana compresa, e il Sud: la durevolezza di Verga, Pirandello, Alvaro, Eduardo, lo stesso Tomasi. Non c’è nulla di più provinciale di Montanelli, anche nel giornalismo in comparazione con le corrispondenze di Alvaro.
Aspromonte
La donna guerriera, dolce e forte, riappare nelle chansons de geste del Sud, specie quelle dell’Aspromonte, nel Quattrocento. All’insegna della religiosità, è vero..
Nella “Canzone d’Aspromonte” del Quattrocento, riedita da Carmelina Sicari, l’eroe locale si confronta con Namo di Baviera, l’uomo della forza e della generosità, il tedesco di Carlo Magno. Nell’Ottocento è subentrato Garibaldi, che non ne ha la statura. Non tutti i percorsi sono prestabiliti, e la geografia è spesso solo un nome.
La realtà è qui sempre immaginata, non soltanto dai calabresi. Narra Antonio Delfino, lo scrittore dell’Aspromonte mancato con rimpianto di molti un mese fa, nell’ormai classico “La nave della ‘ndrangheta”, lo sbarco degli Alleati sul continente europeo il 3 settembre 1943. Lo sbarco si fece tra le fiumare di Gallico e Annunziata, alla periferia di Reggio Calabria: dal ventre di centinaia di mezzi anfibi Ducks la testa di ponte fu stabilita da due divisioni di quella che sarà la famosissima Ottava armata, la prima, di fanti canadesi, per il controllo dell’Aspromonte e della fascia jonica, e la quinta, di fanti britannici, per il controllo della piana di Gioia Tauro: “Un maglio, si disse, per schiacciare una noce: l’Aspromonte fu conquistato al suono delle cornamuse”. Vi si esercitavano a Gambarie i canadesi, “in attesa delle battaglie”, che poi “conquistarono Delianuova, in bicicletta”.
Per la trasformazione dell’onorata società in mafia c’è una data di nascita, narra Delfino, l’agosto 1955. Un tentativo di estorsione da parte di balordi nei presi di Gambarie coinvolse la moglie dell’onorevole Antonio Capua, che si trovava a passare in macchina dal luogo del concordato pagamento. Non ci furono feriti, ma il ministro dell’Interno Ferdinando Tambroni rimosse il prefetto di Reggio e mandò nella città, come questore con pieni poteri civili, Carmelo Marzano. Il superquestore esordì arrestando il capo riconosciuto dell’onorata società, Antonio Macrì, e rispolverando il confino di polizia, vecchia pratica del fascismo per i casi in cui non ci sono elementi per portare un sospettato in tribunale. Arrestò Macrì il 2 settembre, data simbolica, poiché è il giorno della Madonna della Montagna o di Polsi, che l’onorata società vuole sua padrona, e malgrado i buoni uffici del Vaticano lo mandò al confino a Ustica per cinque anni. Il Vaticano se ne interessò perché il Macrì aveva risolto il caso di alcuni preti che, avendo il vescovo di Locri Perantoni scoperto la loro corruzione nella gestione della Pontificia Opera di Assistenza, progettavano di uccidente il vescovo stesso. Soggiornando il Macrì a Ustica già si aprivano le fiumare calabresi allo sbarco delle sigarette di contrabbando, primo passo della ‘ndrangheta imprenditrice al soldo di Cosa Nostra, o mafia.
L'Europa inetta - fatto grave
Ci voleva poco per chiudere la crisi e rilanciare la finanza e il credito, se non l’intera economia mondiale: bastava che l’Europa si mettesse d’accordo, e d’accordo decidesse quello che ciascun paese nel suo piccolo e micragnoso mercato interno aveva disposto, sempre con la gioia maligna di vedere qualcun altro in condizioni peggiori, il vecchio mercantilismo. Dov’era la Bce, ci si chiederà appena fuori dal crack, dove l’ambizioso esecutivo di Bruxelles, che si picca a ogni puntura di zanzara di fare l’agenda politica italiana, dove il vertice europeo?
La Merkel ha rifiutato dieci giorni fa di fare quello che l’Europa fa finalmente oggi, di lanciare un impegno comune a stabilizzare le banche. Forse perché l’aveva proposto Berlusconi, o per chissà quale altro pregiudizio. Ha resistito, la Merkel, anche alle pressioni britanniche. E dopo che Gordon Brown ha agito unilateralmente, e il mercato ha risposto con successo, ecco che tutti insieme, Merkel compresa, vanno in gregge a Parigi a prendere analogo impegno. Forse troppo tardi. Dopo comunque aver bruciato qualche migliaio di miliardi, e rischiato il panico, che è la vera sostanza dei crack, s’impadronisse dei mercati.
Brown ha fatto da solo, dopo aver sollecitato Sarkozy per conto dell’Ue, e direttamente la Merkel. Giganteggiando, lui che era in piena crisi di credibilità, tra tutti i giganti europei. Può darsi che sia una questione di nanaggine politica. Berlusconi è perfino simpatico, sembra un giapponese perduto in Birmania, quando si agita tra i suoi tanti “amici” europei, per rimestare le chiacchiere. Ma l’assenza dell’Europa non è una curiosità o un pettegolezzo, è un fatto politico fondamentale. Anche quando domani la crisi delle banche e delle Borse si sarà finalmente esaurita.
Non comunque in Europa: il futuro per le banche europee sarà di nuovo difficile. L'entrata dei goveni nelk capitale delle banche, seppure senza diritto di voto, ristabilirà, né più né meno, l'influenza politica sulle banche stesse che hanno rimpicciolito e marginalizzato l'Europa negli ultimi trent'anni, l'Italia più di tutti. La ricetta di Brown risponde alla logica laburista, in un paese dove peraltro il potere non soffoca la società. In Italia, Germania e Francia sarà molto diverso, e molto peggio.
La Merkel ha rifiutato dieci giorni fa di fare quello che l’Europa fa finalmente oggi, di lanciare un impegno comune a stabilizzare le banche. Forse perché l’aveva proposto Berlusconi, o per chissà quale altro pregiudizio. Ha resistito, la Merkel, anche alle pressioni britanniche. E dopo che Gordon Brown ha agito unilateralmente, e il mercato ha risposto con successo, ecco che tutti insieme, Merkel compresa, vanno in gregge a Parigi a prendere analogo impegno. Forse troppo tardi. Dopo comunque aver bruciato qualche migliaio di miliardi, e rischiato il panico, che è la vera sostanza dei crack, s’impadronisse dei mercati.
Brown ha fatto da solo, dopo aver sollecitato Sarkozy per conto dell’Ue, e direttamente la Merkel. Giganteggiando, lui che era in piena crisi di credibilità, tra tutti i giganti europei. Può darsi che sia una questione di nanaggine politica. Berlusconi è perfino simpatico, sembra un giapponese perduto in Birmania, quando si agita tra i suoi tanti “amici” europei, per rimestare le chiacchiere. Ma l’assenza dell’Europa non è una curiosità o un pettegolezzo, è un fatto politico fondamentale. Anche quando domani la crisi delle banche e delle Borse si sarà finalmente esaurita.
Non comunque in Europa: il futuro per le banche europee sarà di nuovo difficile. L'entrata dei goveni nelk capitale delle banche, seppure senza diritto di voto, ristabilirà, né più né meno, l'influenza politica sulle banche stesse che hanno rimpicciolito e marginalizzato l'Europa negli ultimi trent'anni, l'Italia più di tutti. La ricetta di Brown risponde alla logica laburista, in un paese dove peraltro il potere non soffoca la società. In Italia, Germania e Francia sarà molto diverso, e molto peggio.