venerdì 24 ottobre 2008

La fine malinconica della piazza

Manifestano gli studenti a piazza Navona, davanti al Senato, ieri giovedì. Oggi la Rai veltroniana dice che erano settemila, i grandi giornali veltroniani trentamila. Chi c’era ne ha contati alcune centinaia. Per buona metà mamme con bambini - di famiglie impegnate, certo. E la piazza era soprattutto triste, quasi sorpresa di tanta mancanza di gioia e fantasia. Nella piazza come nei tg non si sentono altre proteste che quelle manierate dei piccoli funzionari di partito – più spesso è una ragazza assorta, che pensa mentre parla: dirà una lezione imparata?
Ieri in Italia sono state occupate venti facoltà, dice ancora la Rai. La Rai è veltronianamente trionfale, ma venti facoltà sono così tante, su un migliaio?
È più utile alla sinistra dire la verità oppure montarla? C’è da preparare la manifestazione di sabato, e quindi la mobilitazione serve. Ma serve sputtanarsi coi giovani? Il rinnovamento dei quadri di partito è ottima cosa, il ringiovanimento della politica, ma a che pro costruirsi dei cloni, seppure giovani e tutti belli, che ripetono inerti il linguaggio spento di un centralismo democratico che puzza da lontano? Che solo pensano al posto e alla piccola carriera funzionariale che si stanno meritando?
Si può ritenere la grande informazione schierata con Veltroni. E questo sarebbe un segno di forza politica. Ma si può anche pensarla impegnata in proprio a cercarsi un pubblico, che ultimamente la diserta sempre più. Montando ad arte questo o quell’avvenimento. Prima il carovita e la grande povertà in Italia, poi il fallimento delle banche, ora la protesta delle mamme coi bambini. Uno spera sempre che vendano una copia in più, ma l’impressione è che si agitino nel vuoto, da pazzi innocui nel manicomio – aperto, come si deve.

Frattini non ha più sponde

Trova difficoltà il ministero degli Esteri a seguire la Francia nella sue ultime evoluzioni in Europa. Il tentativo di prolungare la presidenza francese oltre il semestre. E ora il fondo sovrano, che rompe ogni regola di mercato. C’è sorpresa e anche preoccupazione alla Farnesina, per la mancanza di alternative.
Berlusconi aveva puntato con Frattini a una politica di stretto fiancheggiamento della presidenza Sarkozy. Per sintonia personale e politica. Ma soprattutto per mancanza di alternative. Il governo tedesco non parla con nessuno. Zapatero ha scartato, coprendo le sue difficoltà con l’antitalianismo. E Gordon Brown sembra intenzionato a rilanciare il laburismo, come carta vincente elettoralmente con la crisi: per ora è una porta chiusa.
La linea della Farnesina è sempre filo-francese. È stata rilanciata e praticamente definita la partecipazione di Air France in Alitalia. Va avanti il progetto del nucleare con tecnologia francese. Ma con preoccupazione. E soprattutto con la ricerca convulsa di salvare quello che resta della Ue dopo la duplice offensiva di Sarkozy.
Si rispolvereranno le famose troike, per patrocinare il governo euroscettico della Repubblica Ceca, prossima presidente di ritorno, col governo uscente, cioè con la Francia, e con quello che subentrerà a luglio. Ma sul piano della concorrenza Frattini non ha vie d’uscita: deve incassare il rituale inutile no di Bruxelles al rifinanziamento di Alitalia, e non ha modo di bloccare l’intervento di Parigi a protezione dei suoi campioni nazionali.

L'euro come il tarì di Pirandello

Il presidente francese Sarkozy abbatte i simulacri europei. Il fondo sovrano negato all’Europa, su proposta dell’Italia, creandoselo da solo. E alla Repubblica Ceca, o altro paesucolo dell’Est che dovrebbe succedergli nella guida dell’Ue, spiegando irritato che è meglio che non ci provi e che lasci fare a lui.
Il simulacro politico è in effetti debole in Europa, la pari dignità tra i ventisette, l’unanimità, eccetera. Si sa che l’edificio europeo è una piramide, i referendum contro l’unione politica lo hanno sancito criticamente, Sarkozy non fa che riaffermarlo in positivo: chi si accontenta, chi ci ha comunque interesse, ci segua. E questa è tutta la democrazia e l’edificio costituzionale europeo.
Il simulacro economico era invece sostanziale, e la sua rottura avrà grosse implicazioni. Si rifletterà sulla gestione della concorrenza, centrale al cosiddetto mercato europeo, e sullo stesso euro. Che, già ansimante sulle politiche fiscali e di bilancio, ora non governerà più il credito e la concorrenza. Sarà un denominatore di valore, come il tarì arabo nella Sicilia di Pirandello.
Il risparmio pubblico francese verrà incanalato in un fondo che aiuterà la francesità delle grandi aziende, contro tentativi di raid. Con un ventaglio d’interventi già calcolato in 175 miliardi. È una cifra enorme. E una cosa che va contro le regole della Wto e della Ue. Ma non c’è dubbio che la Francia la realizzerà, magari con il beneplacito della stessa Bruxelles. La concorrenza europea si limiterà squallidamente a sanzionare il piccolo aiuto italiano alla sopravvivenza dell’Alitalia.
L’Europa resterà nuda dopo la crisi, questo si sapeva. Ma la presidenza Sarkozy, con l’attivismo degli ultimi giorni, è come se avesse deciso di picconarla dalle fondamenta. E nessuno tenta di impedirglielo, anzi nessuno se ne preoccupa.

La Cina, l'islam e la maestrina europea

Sembra una commedia degli equivoci. L’Europa si presenta in grande pompa a Pechino per trattare lo sviluppo del commercio internazionale - dopo trent’anni di globalizzazione - e l’uscita dalla crisi. Nell’occasione inaugura una scuola sino-europea del diritto. E nelle stesse ore il Parlamento europeo insignisce del premio Sakharov il dissidente Hu Jia, in carcere nella stessa Pechino. Non una settimana prima, non una settimana dopo, con l’intento anzi dichiarato di marcare il vertice euro-asiatico.
È il tipico gesto europeo da maestrina. Di chi insegna al mondo le virtù. Ai paesi islamici per così tanto tempo, ora alla Cina, domani magari all’India. Tralasciando la sua pochezza, la sua incapacità, e anche la sua scarsa qualificazione al ruolo, con i tanti cadaveri ancora disseppelliti in casa. Ma è un gesto sinistro in un continente in così rapida perdita di velocità in tutti i campi di confronto, l’etica politica compresa.
L’Europa non riesce a capire che la Cina è una superpotenza, che l’Asia è il centro del mondo. E anzi perpetua, seppure nella veste accattivante dei diritti di libertà, la sua vecchia battaglia di civiltà. Incapace di comprendere l’islam, pur essendosi riempita di mussulmani, e riottosa ad accettare quello che la superpotenza americana sa da vent’anni, da un po’ prima di Tien An Men, che la ricchezza si produce in Asia.

giovedì 23 ottobre 2008

L'ebraismo impossibile e le ragioni di Toaff

Toaff ricorda che nel 1971 alla Bar-Illan, la sua università, “di Shoah si parlava poco”. C’era un insegnamento facoltativo, affidato a un medico scampato al lager, una sorta di testimonianza. Dieci anni dopo se ne fece materia d’insegnamento per la sola facoltà di storia, malgrado forti riserve di molti professori. Vent’anni dopo l’insegnamento era obbligatorio per tutti gli iscritti - si allargava e s’imponeva la “tribunalizzazione della storia”. L’esito è che oggi l’ebraismo è Israele, altrove è folklore. La diaspora si è “inventato un altro ebraismo, con l’aureola della santità incorporata all’origine”. Con i compari dell’anti-antisemitismo: “Un ebraismo senza macchia, ma con molta paura. Anzi, ossessionato dalla paura, e alla continua ricerca di difensori a buon mercato o di apologeti ignoranti”. Solo in Israele la storia dell’ebraismo è libera, è storica.
Questo è vero, l’Olocausto si celebra oggi più che mai. Non dunque per una minaccia al popolo ebraico, ma in difesa di Israele. Si direbbe dunque che l’Olocausto protegge Israele, uno Stato con le sue politiche. Mentre Israele sa guardare oltre – dentro, sotto: è un paese che non ha paura, è libero e non opportunista.
La riduzione della storia ebraica all’antisemitismo e alla Shoah non è in discussione fuori di Israele, se non marginalmente. In Italia, oltre alla traduzione di Finkelstein, "L’industria dell’Olocausto", si ricordano le perplessità di Galli della Loggia, “Se la Shoah oscura l’antifascismo”, e ora le tesi di Marquard e Melloni sulla “tribunalizzazione” della storia, la storia che giudica, la storia che assolve. In Israele invece la politica laica, impersonata ultimamente in Abraham Burg, l’ex presidente della Knesset, figlio del ministro dell’Interno al tempo dell’invasione del Libano, e le università guardano a questa identificazione con aperta insofferenza.
La Shoah entra nel linguaggio comune con la miniserie tv della Nbc nel 1978. Non dunque per una minaccia al popolo ebraico. La tarda reviviscenza si può dire semmai che giochi in difesa di Israele. Che sia intesa a proteggere Israele, uno Stato con le sue politiche. E invece è un fatto della diaspora: dei luoghi dove le comunità ebraiche sono impiantate, in Europa, nel Nord America, della vigilanza in questi paesi contro l’antisemitismo, della storia dell’antisemitismo. Israele sa guardare oltre – dentro, sotto: è un paese che non ha paura, è libero e non opportunista.
Il libello di Toaff è a tratti un’invettiva, col sigillo del sarcasmo, ben livornese – nelle tradizioni della famiglia. E per questo forse rimasto esso stesso virtuale, a due mesi dall’uscita: è un libro di cui non bisogna parlare, se non per censurarlo. La vicenda clamorosa di "Pasque di sangue" ancora sanguina, se si può dire. C’è stata troppa agitazione, è una lite in famiglia. Ma Toaff è uno storico e bisogna occuparsene. È quello che vogliono del resto i suoi critici, che lo rimproverano appunto di aver scritto un libro di storia. E poi, non c’è libro sull’ebraismo incontestato, se non celebrativo o martirologico. Ma la contestazione contro Toaff va oltre, anche nel caso di questo libretto giustificativo. “Orchestrato” lo definisce Moked, il portale dell’ebraismo italiano. Sul “Riformista” Luca Mastrantonio bolla Toaff come “autonegativista”, che non vuole dire nulla, e denuncia “un’industria editoriale dell’antimemoria”. Per una autodifesa? Giulio Busi, che sul “Sole” parte imputando a Toaff il furto del titolo “Ebraismo virtuale” a Ruth Ellen Gruber, conclude: “Bei tempi quelli in cui Toaff scriveva libri importanti sulla storia degli ebrei italiani, e si accontentava di dieci appassionati lettori”. Gli umori insomma sono suscettibili, tra l’autore e i suoi critici. Ma il libro è anche appassionato - è ben vero che Toaff è raro storico ebreo di storia ebraica - contro il vezzo “di fare dell’ebraismo una mitologica selva oscura di fossili o piangenti”. Per liberare la storia ebraica – gli ebrei – dall’ipocrisia (“Renato” era spesso il convertito).
È una riserva di metodologia, necessaria all’autore, per essere stato accusato di errori di metodo, e al lettore nella produzione univoca sulla colpa e l’olocausto. Specie sul significato del pentitismo, sotto costrizione e per un beneficio. Sottile l’applicazione del “paradigma indiziario” di Carlo Ginzburg, il più aspro critico di Toaff, allo stesso “paradigma indiziario”. Quando alcune confessioni, la tortura e le spiate considera buone perché rientrano nel paradigma, e altre cattive solo perché fuori tema - "indizio" che, è bene ricordarlo, Barthes definisce uno dei componenti di ogni storia, lo scarto, nella vecchia "Introduzione all'analisi strutturale dei racconti", del 1966 (tradotta in AA.VV., "L'analisi del racconto", 1969), l'altro essendo la "funzione", o rapporto simpatetico tra i segmenti lineari del racconto.
Toaff pone un problema semplice: se è giusto riscrivere la storia ebraica alla luce dell’Olocausto. Storico non postmoderno, uno che molto caso fa alle fonti, Toaff pensa di no. E non si può dargli torto. Tra i dati di fatto c’è che gli ebrei sono stati nei secoli i nemici dei cristiani – il nemico interno, si direbbe, tanto più indisioso. E di fronte al sospetto e all’odio non si tiravano indietro. Soprattutto era virulento l’odio in ambiente tedesco, e quindi tra gli ebrei ashkenaziti. C’è un effetto di specchio nelle società composite, anche nemiche, gli uni fanno quello che fanno gli altri. L’uso del sangue, a fini farmaceutici e magici, era così comune a cristiani e ebrei, in ambiente germanico, malgrado le interdizioni bibliche. Di questo uso Toaff reitera le prove documentali utilizzate in “Pasque di sangue”, la cui interdizione ha originato questo “Ebraismo virtuale”.
Se la storia ebraica è nell’Olocausto, l’Olocausto non c’è più, anche in questo Toaff ha ragione. “Rifiuto l’idea che tutto, da una vignetta a un saggio, possa tradursi in antisemitismo, si possa trasformare in nuova “Notte dei cristalli”, aveva detto a Titti Marrone sul “Mattino” del 20 maggio, per la riedizione di “Pasque di sangue”. La difesa dall’antisemitismo ha preso il vezzo di rigirare i morti, e buttarli in faccia al mondo. Per la colpa che è di tutti, meno che di noi. La storia ebraica è demandata agli storici dell’antisemitismo, denuncia Toaff, “in genere non ebrei, o ebrei il cui bagaglio culturale è essenzialmente non ebraico”. Anche perché non conoscono l’ebraico, lingua che è oggi marginale ma è quella delle nutritissime fonti. Tra gli storici ebrei la norma è quella del neuropsichiatra-rabbino Gabriel Levi: “Nell’ebreo biblico e postbiblico la storia si chiama generazioni e l’albero genealogico di tutti gli ebrei si declina al futuro”. Commenta Toaff: “Non cercano quindi la storicità del passato, ma la sua eterna immutabile contemporaneità”.
Nella diaspora c’è anche un neo italiano. Tema incidentale della polemica è infatti la riduzione alla Shoah dello stesso multiforme ebraismo italiano. Di quello romano soprattutto. Che fino a ieri si faceva forte della distinta romanità, nell’eloquio, la poesia, la cucina, il culto. Ora questo radicato ebraismo ha rigurgiti d’intolleranza, verso i suoi esponenti forse maggiori: Alessandro Piperno è tollerato, Ariel Toaff interdetto. Mentre vota compatto Alemanno. E dunque? Di nuovo, bisogna aggiungere, c’è pure il patriottismo israeliano. Che non c’era vent’anni fa, anche quindici. Ma insorge giustamente contro kamikaze, hezbollah, qaedisti e Ahmadinejad. Ma Toaff insegna in Israele, dove le ricerche confluite in “Pasque di sangue” sono state oggetto di seminari all’università. È l’immagine di Israele che si riflette nella Shoah, non lo Stato ebraico.
La Colpa nasce dalla non accettazione della storia – nei tedeschi, negli ebrei. È una verità indigeribile, ma non per questo meno vera.
Ariel Toaff, Ebraismo virtuale, Rizzoli, pp.141, € 12

Cinquecento esuberi all'Espresso - e Murdoch?

Saranno trecento gli esuberi a fine anno, forse cinquecento, al gruppo L’Espresso-la Repubblica. Due-tre volte i 150 esuberi che il comunicato ufficiale ipotizza. Il consiglio d’ieri sulla trimestrale ha preventivato un peggioramento sostanziale nel quarto trimestre, soprattutto della pubblicità, per effetto della crisi. Ma ha preso atto che la crisi è solo in parte congiunturale. Sia la pubblicità che la diffusione, a parere dello stesso editore del gruppo, Carlo De Benedetti, rifletteranno negativamente la ridefinizione in corso dei ruoli della carta stampata. In attesa che nuove formule o indirizzi consentano il rilancio, l’equilibrio del conti va raggiunto tagliando i costi. Su un totale di 3.410 dipendenti, già ridotti di una cinquantina negli ultimi sei mesi, occupati, gli esuberi previsti sono, secondo De Benedetti, un sacrificio trascurabile e sopportabile. Se fossero risolutivi: il futuro dei giornali preoccupa seriamente l’editore.
Scontata è peraltro l’opinione a “Repubblica” che De Benedetti abbia da tempo scientemente sacrificato il giornale al “Corriere della sera”. Abbia interrotto la corsa scalfariana alla leadership in edicola, accontentandosi della nicchia, in cambio della riconoscenza della Rizzoli Corriere della sera, che ne pubblica le riflessioni, e della Milano che conta.
De Benedetti ha preso anche la gestione del gruppo, in parte per sottolineare la difficoltà del momento e assumersi l’onere dei tagli, e in parte per separare le attività editoriali dal resto del gruppo di famiglia. Il progetto si sta facendo strada di un’integrazione dei giornali con altri soggetti dei media, legati alla televisione e al suo forte mercato pubblicitario. Il passo fatto con All Music, il canale tv, e Radio DeeJay, non consente l’integrazione necessaria, e da solo è un costo. Col passato governo Berlusconi, quando pareva che la Rai sarebbe stata privatizzata, De Benedetti era il candidato numero uno a Rai 1. Ora la scelta resta tra Telecom e Sky – Mediaset è fuori gara per ragioni di anti-monopolio. E cioè, considerata la condizione residuale delle attività mediatiche di Telecom, solo di Rupert Murdoch, un editore che ha sempre voglia d’imbarcarsi nei giornali.

Ombre - 7

Palermo assolve Calogero Mannino ripetutamente, dopo averlo perseguito per un quindicennio per mafia. “Tanti pentiti e nessuna prova”, dice lo stesso Mannino. È così: i pentiti nell’intreccio mafia-politica hanno sempre fallito. Con Andreotti e con Mancini prima, e ora si aspetta Dell’Utri.
Efficaci e a volte risolutivi contro altri mafiosi, i pentiti di mafia sono inefficaci contro i politici. Pur essendo a ogni processo sempre numerosi, venti-trenta. L’altra singolarità è che, pur essendo tanti, i pentiti conoscono nei casi dei politici sempre una o due cose, le stesse, tutti quanti. Come di un sentito dire.

Antonio Gnoli vuol fare dire a Cabibbo, “Repubblica” di giovedì 23, che la scienza è incompatibile con la fede. Antonio ha gli strumenti per sapere che la cosa è compatibile – malgrado questo o quel papa, e magari la chiesa tutta. Ma il lettore di “Repubblica” evidentemente no. Gnoli deve perfino piegarsi a fare dell’eutanasia una scienza, un progresso.

Giovedì sono morte una diecina di persone nel cagliaritano per un temporale, e le Borse sono crollate. Ma “Repubblica” spara dieci pagine sulla protesta degli studenti, con la polizia a scuola eccetera, e tutti i giornali radio e i telegiornali, per tutta la giornata, compreso il Tg 4, non trovano altro argomento.
“Repubblica” si conferma la regina del giornalismo, anzi l’imperatrice: non c’è altro giornalismo che il suo. Non solo gli argomenti, anche gli orientamenti (il “taglio”) “Repubblica” impone – gli orientamenti discendono dall’ottica come gli eventi sono presentati, dal “taglio”. Anche ai giornali di orientamento avverso.

Veltroni divorzia da Di Pietro. Titolo su tre colonne in pagina interna, pari – le pagine pari si vedono meno. Casini accusa Berlusconi. Due colonne, ma in prima pagina, di spalla.
C’è il regime in Italia? In un certo senso sì, se una delle forme del regime è la propaganda: c’è nei giornali della sinistra, che appartengono ai maggiori capitalisti del paese, concorrenti di Berlusconi, nei confronti dei simpatizzanti di sinistra, ai quali fanno credere l’incredibile.

Il presidente Napolitano venerdì 17 si spende per la riforma della scuola. E per la moratoria sull’ambiente, beninteso solo fino al superamento della crisi economica. Insomma, cauziona il governo.
Il Tg 3 apre sull’ambiente, affermando che Napolitano rimprovera il governo. E fa seguire una lunga pappardella da Bruxelles, con dichiarazioni di questo e di quello, che “condannano” l’Italia: per l’ambiente, per la scuola, e anche per le classi differenziate d’italiano, che gli immigrati invece tanto apprezzano. È masochismo? È incapacità? È follia.
Venerdì 17 le scuole hanno manifestato a Roma contro il governo. Gli insegnanti del liceo romano Mariani si sono esibiti in corteo con una stella gialla sul petto. Per “vantare” irridenti una minaccia di sterminio.
Scarsa sensibilità? Questa è proprio stupidità. Ma sono i professori del miglior liceo romano.

Andrea Tarquini, nella corrispondenza per “Repubblica” sul caso di Kundera, se è stato o no una spia comunista, rievoca martedì 14 “gli anni tragici ed eroici della nascita del regime a Praga”. Un regime che nasce eroicamente? Forse Tarquini intendeva dire l’eroismo degli oppositori del regime? No, dice che il partito Comunista aveva le sue buone ragioni, dopo la vittoria nelle “libere elezioni”. Elezioni libere con un regime, che aveva fatto un colpo di Stato?
Andrea è persona colta, difficile che si sia imbrogliato nella fretta di scrivere la corrispondenza, le cose note emergono d’istinto. È però, è stato, un socialista, proviene dall’“Avanti!”, e a “Repubblica” per farsi perdonare questa tara molti atti di contrizione sono necessari.

Romano Prodi non trova di meglio, domenica 12, che recarsi in visita da Ahmadinejad a Teheran. Siccome dirige una task force dell’Onu per l’Africa, avrà pensato che Teheran è sulla strada per il continente nero? Succede, la geografia è dopo Berlinguer materia suppletiva. O non ha voluto coraggiosamente negarsi ogni possibilità di tornare in politica, sia pure al Quirinale? Sarebbe in linea con la famosa scelta di sabbatico a tempo indefinito, nonostante l’Onu. Quello all’Onu è infatti un incarico che gi è piovuto addosso per caso, lui non l’ha brigato, anzi nemmeno si è candidato.

Venerdì 10 le scuole manifestano contro il governo. A Roma davanti al ministero occupano la strada alcune centinaia di studenti. Occupano la carreggiata del tram n. 8, lasciando libera quella delle automobili, e degli autobus. Gli interventi, scanditi per circa un’ora e mezza, fino alle 11,30, sono “professionali”, da praticanti politici.
Le cronache diranno che i partecipanti a Roma erano quarantamila, “per gli organizzatori”. Un giornale non ha il dovere di esercitare un minimo, facile, semplice, controllo? Oppure l’ha esercitato, ma si allinea – c’è ancora la “linea”.

La figlia dell’operaio e sindacalista Guido Rossa, comunista, è sola, anche se non rancorosa, a criticare la grazia di Sarkozy alla terrorista non pentita Petrella che ha assassinato suo padre, nelle due pagine che il “Corriere della sera” dedica all’evento. La storia è della Petrella giovane, in fotoritratti accattivanti, e delle sorelle italo-francesi Bruni Tedeschi, l’attrice che la Petrella impersonò in un film torinese sulle Br, e la cantante che ha sposato il presidente francese, che hanno passato l’estate a consolare la terrorista, e il suo dossier hanno fatto riconsiderare a Sarkozy, il capofila della destra francese.
Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Può darsi che la Petrella sia ammalata, e la storia finisce qui. Del resto, le Bruni Tedeschi hanno confortato la Petrella con la grazia – la mancata estradizione equivale alla grazia – e col rosario.

martedì 21 ottobre 2008

Veltroni in piazza contro i suoi

Per Veltroni è una sfida, ma non a Berlusconi: vuole contare i suoi, dimostrare che è sempre il leader del Pd. È questo il significato della manifestazione romana, che viene confermata malgrado i tanti mal di pancia. La manifestazione raccoglierà certamente i milioni, la Rai e i giornali padronali sono mobilitati, e la scuolla offre un comodo approdo a una manfestazione che non lo aveva. Veltroni ha peraltro con sé, oltre ai media, gli ex stati maggiori diessini, da lui rinnovati, e in questa componente del Pd il concetto di manifestazione è sempre legato alla folla “oceanica”. Ma gli resta difficile impressionate tutti gli altri.
La mobilitazione a sinistra è fiacca. E all’interno del Pd tutte le varie fronde, di D’Alema, Marini, Parisi e Sircana (Prodi), stanno lavorando contro. Cioè non stanno lavorando affatto. Solo i dalemiani si mobilitano, ma con l’intento di essere sempre presenti, per potere eventualmente raccogliere le spoglie. I cattolici sono tiepidi: nessuna organizzazione di base si è mobilitata, e gli stessi leader sono perplessi sul patrocinio da continuare a dare a Veltroni. I grandi giornali fiancheggiatori sono tiepidi.
La manifestazione apre nei fatti il congresso del Pd. Per il quale Veltroni vuole una partenza a razzo. È un decisionista, non un uomo di compromessi, e non intende negoziare con le correnti e i capi corrente. Ma il rischio boomerang è elevato - anche per la mobilitazione oceanica in corso. Non da parte di D'Alema, che non ha commosso gli ex diessini con i sarcasmi del Berlusconi "faccio di tolla" e di Brunetta "energumeno tascabile". Ma per gli ex popolari questo Pd è, specie in Lombardia, in Emilia e nella Toscana, un'esperienza già fallita.

Non c'è guerra giusta contro il terrorismo

L’ex direttrice, fino al 1996, dei servizi segreti inglesi dice “sproporzionata” in una intervista al Guardian il 18 ottobre la risposta americana e occidentale al terrorismo islamico. E afferma che i servizi segreti occidentali erano contrari alla guerra in Iraq e alla reazione seguita agli attentati. Singolare posizione, e anzi sciocca, se non fosse che fa sempre piacere uscire in pensione dall’anonimato, e devi criticare l’America se vuoi uscire sul Guardian – che la pensionata immortala in fotografia come Eva nel paradiso terreste. Ma l’intervista riflette una posizione per l’appunto condivisa, non dal solo Guardian, e una posizione che si vuole di saggezza. Anche se non tiene conto di alcuni assunti ormai scontati per tutti. Inoltre, impegna a definire il terrorismo e, di nuovo, la guerra giusta.
I servizi al governo
In un giornale che non fosse il Guardian e in un paese che non fosse la Gran Bretagna, con un solido impianto democratico, l’impudenza di Stella Rimington sarebbe pure golpista. In una con i servizi russi, che hanno preso stabilmente la guida del paese, e col Mossad, che ora ci prova con la Livni, anche i servizi segreti inglesi cercano di piazzarsi stabilmente sul terreno della politica.
Contro la riservatezza d’obbligo, e invece di cercare informazioni e prevenire il terrorismo, e semmai chiedere scusa e mettersi a tacere, Stella Rimington e la sua successora Eliza Manningham-Buller, che la regina ha nobilitato, in pensione dall’anno scorso, si occupano di criticare il governo. Fustigatrici della “retorica della guerra al terrorismo”. Senza dire come il terrorismo, che loro non hanno combattuto, va fronteggiato.
Il giudizio politico della Rimington è testimoniato d’acchito dalla sua posizione sull’11 settembre: “Un incidente terroristico come un altro”. E il terrorismo a Londra? È stato causato dalla guerra in Iraq: se si guarda “a ciò che gli arrestati o i video dei suicidi dicono sulle loro motivazioni”. Roba da non credere. Ma il fatto è da segnalare perché l’invasione di campo sicuramente farà tendenza.
Il terrorismo
L’evidenza, nel caso del terrorismo islamico, come di quello arabo-palestinese, e di quello brigatista, ha alcuni punti fermi:
1) Il terrorismo è un nemico ninja, sconosciuto e segreto. Fa anzi della segretezza la sua arma principale.
2) Il terrorismo è ultimamente sconosciuto soprattutto ai servizi segreti, di cui pure è l’interfaccia, più che il nemico. A New York, a Londra, a Madrid la colpa delle stragi è dei servizi segreti - in Italia e in Germania invece i servizi (forse) sono stati più attivi o capaci. Si può anche dire – finalmente riconoscere – che i servizi dicono e fanno l’ovvio: quello che l’opinione pubblica dice, la politica diffusa. Esemplare il caso della Cia: aperta e quasi rivoluzionaria alla fondazione, contro il fascismo e il comunismo, poi violentemente di destra, e infine, messa per questo sotto accusa al Congresso, irenica, sempre più “di sinistra”.
3) Il terrorismo islamico opera ovunque, non solo in Europa e negli Usa: Sudan, Kenya, Egitto, perfino la mite Tunisia, l’Arabia Saudita (ma non gli Emirati, che pure non hanno polizia: gli emiri pagano?), il Pakistan, l’Indonesia.
4) Il terrorismo è un nemico interno. Quello islamico lo è anche in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna, per le comunità islamiche che vi sono ampie, dai due milioni in su.
5) Il terrorismo è per definizione estremista e impolitico. Non negozia, a nessuna condizione. Fu il caso anche del sequestro di Aldo Moro, la cosiddetta trattativa fu in realtà una non trattativa.
6) Il terrorismo non vuole una cosa, vuol’essere noi. Nella prospettiva rivoluzionaria, di rovesciare un ordinamento o un assetto che ritiene nemico.
7) Il terrorismo a carattere bellico, con capacità di distruzione cioè analogo alla guerra, sia delle persone che delle strutture, e dell’ambiente, ribalta i diritti umani. Si propone esso stesso come strumento dei diritti umani. E non può essere contrastato se non con mezzi limitati, al riparo dei diritti umani.
La guerra giusta
Ma per questo stesso motivo la risposta al terrorismo non può che essere massiccia. Gli Stati non possono combattere il terrorismo con le armi del terrorismo, segretezza e violenza indiscriminata, sarebbe illegale e non è etico. La reazione britannica al terrorismo irlandese – era probabilmente l’epoca di Stella Rimington a capo dell’MI 5 – è stata quasi sempre illegale, anche se nessun tribunale se n’è mai occupato.
La guerra limitata del resto non esiste, commisurata all’effetto che si vuole raggiungere senza le “vittime innocenti” - tutte le vittime di una guerra sono innocenti. La guerra è un’azione cieca, con l’obiettivo di mettere in campo sempre un po’ più di violenza del nemico, e la guerra migliore è quella che mette in campo il potenziale massimo.
Non c’è guerra che non si pretenda giusta. Ma bisogna intendersi sulle cose. Ultimamente la fanno le tribù, in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani. E gli Usa nel nome dei diritti umani. La facevano le repubbliche, i principati, gli imperi, le classi sociali, le idee, per un interesse. Carl Schmitt nel “Nomos della terra”, rifacendosi a Erasmo, e ai posteriori Bodin e Alberico Gentile, che a loro volta facevano tesoro delle guerre di religione, la riduce a una sorta di “guerra lecita”. Insomma, regolata dal diritto internazionale, quanto al riconoscimento dei belligeranti, o alla “aequalitas tra justi hostes”. Niente a che vedere con la sistemazione di san Tommaso, della guerra che è giusta quando è sostenuta da un’autorità che è riconosciuta ed è combattuta per una giusta causa e con una giusta intenzione. L’ultima guerra giusta in Europa, prima di quella alla Serbia nel 1998, era stata la Dottrina Breznev.
Bobbio ha avuto problemi, pur difendendo la guerra alla Serbia, a caratterizzare la guerra giusta. I conservatori in Germania, Carl Schmitt, Ernst Jünger, pur bellicisti, escludevano la categoria. La guerra della Società delle Nazioni non è più guerra, c’è un “daltonismo umanitario”, rilevava già nel 1932 Jünger nell’“Arbeiter”. Sotto l’ombrello internazionale è possibile fare guerre giuste, a buon diritto, e derubricarle a penetrazione pacifica, azione di polizia, e ora difesa dei diritti umani. Ma già negli anni Trenta i Diritti Umani campeggiavano nella retorica: i manifesti di Mussolini lo proclamavano Ambasciatore di Pace e Difensore dei Diritti Umani.
In Serbia i bombardamenti hanno ucciso alcune migliaia di civili, per liberare la Serbia dal suo presidente Milosevic, poi dichiarato criminale di guerra, e per liberare i kossovari che non volevano essere liberati (meglio la Serbia che l’Albania), e non l’avevano richiesto, con l’eccezione di un fronte di liberazione creato da un mafioso.
Il diritto di (non) intervento è stato rimodulato nell’“unificazione” del mondo conseguente alla caduta del comunismo, sulla base dei diritti umani, che sono ora il fondamento etico di ogni politica. Il papa Giovanni Paolo II, che ha abbattuto il comunismo, ha teorizzato l’“ingerenza umanitaria” come “diritto d’intervento” ai diplomatici il 16 gennaio 1993. Ma non c’è criterio per far passare i diritti umani come criterio di giustizia. Oggi Roma direbbe che Cartagine è da distruggere perché immola i bambini, e questa sarebbe la sola novità.
I mezzi giusti
Ogni guerra pone, in diritto oltre che di fatto, il problema dei mezzi. L'interesse impone il principio economico, del minimo costo per il massimo effetto. Il diritto pone quello dei “mezzi giusti”, proporzionati cioè allo scontro. È un aspetto del più generale concetto di guerra giusta, che propriamente indaga le cause della guerra, e quindi i fini.
In questi termini, di cause e fini, la guerra giusta – assente dalla guerra dell’Europa e degli Usa alla Serbia nel 1999 – è stata animatamente discussa nel 1990-91, nel conflitto del Golfo. Concetto cristiano e non romano, abbozzato da sant'Agostino e poi approfondito filosoficamente da una lunga tradizione, da San Tommaso a Grozio, a Kant e a Bobbio, è fondamentalmente quella sostenuta per una giusta causa con giusta intenzione. Ma la causa è fortemente variata nei secoli. Fino alle concezioni belliciste del romanticismo, quello tedesco sopratutto: la guerra fatto estetico universale (Novalis), sviluppo morale dell'umanità (Fichte), materializzazione dello Spirito del mondo nei diversi spiriti dei popoli che si avvicendano (Hegel). ricetta per popoli infiacchiti (Nietzsche). Per arrivare alla guerra preventiva per fini umanitari, quali sono quelle degli Stati Uniti e dei “volenterosi” in Irak, e quella della Nato in Afghanistan, per conto dell’Onu. Entrambe azionate dalla lotta al terrorismo che la funzionaria britannica critica.
L’Onu e la Nato proclamano oggi il diritto d'intervento contro quello che era un cardine del diritto, il non intervento negli affari interni di uno Stato. Fra i due ambiti giuridici opposti della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che protegge gli individui contro gli Stati oppressori, e della Carta dell'Onu che invece previene e proibisce la guerra, comprese evidentemente le guerre preventive - documenti entrambi dello spirito del tempo.
Sull’ammissibilità della guerra umanitaria i pareri sono fortemente divisi. “Gli argomenti addotti per legittimare l’uso umanitario della forza sono poco convincenti e pericolosi”, fu la posizione in America, quando Clinton volle la guerra alla Serbia, di un ex decano di diritto internazionale della Columbia University, Louis Henkin. Mentre Jack Goldsmith, sempre in America, della Chicago Law School, pur concordando che i critici dell'intervento umanitario “dispongono certo di forti argomenti giuridici”, ritenne che “esiste un'eccezione sul piano consuetudinario e pratico”. Certamente nel caso del terrorismo, quando ha santuari degli Stati.
In questa incertezza assume rilievo il tema intermedio dei mezzi, anche per gli effetti devastanti che i nuovi armamenti possono avere. Il tribunale di Norimberga e quello dell'Aja hanno istituzionalizzato il problema dei mezzi. Per adeguati s'intende coerenti e diretti con l’obiettivo della guerra. Chi volesse fare guerra alla Macedonia, per ipotesi, invadendo l'Albania o la Bulgaria, uscirebbe evidentemente dal diritto. Gli Stati Uniti sono stati molto criticati su questo aspetto per aver combattuto il comunismo sovietico intervenendo direttamente in Guatemala, Grenada e Nicaragua, e indirettamente in Brasile e Cile. Il concetto di proporzionato o conguo è più semplice: non si può usare l'atomica per conquistare un fortino abbandonato.
Adeguatezza e congruità dei mezzi rimandano ai fini più che alle cause della guerra - alle intenzioni buone. Fine della guerra è ovviamente la vittoria. Ma sul concetto di vittoria gli Stati Uniti, che a lungo si erano tenuti volutamente fuori degli affari internazionali, in base al precetto di addio di George Washington nel 1796 (“la regola aurea dei nostri rapporti con le nazioni straniere sia di avere con loro i minimi rapporti politici”), hanno introdotto nella storia e nel diritto un concetto nuovo. Fortemente differenziato da quello tradizionale, a cui i governi e l’opinione europea si attengono, che è quello della cancellazione dell'offesa. Gli Stati Uniti hanno introdotto la “resa incondizionata”, o totale.
Fu il presidente Roosevelt a incardinare negli affari internazionali questa categoria. Alla conferenza di Casablanca, nel gennaio 1943, impose la “resa incondizionata” quale unica via d'uscita dalla guerra con la Germania e il Giappone, a un Churchill recalcitrante, per il quale la sconfitta tedesca era nei fatti e la guerra si poteva chiudere più rapidamente con meno danni. Compreso, tra questi, l’arrivo di Stalin a Berlino. L’annuncio di Rooesevelt a Casablanca offrirà materia alla storia revisionista: se non sarebbe stato possibile altrimenti evitare il sacrificio di altri 4-5 milioni di uomini, tra lager e fronte, la distruzione della Germania (con l'arrivo di Stalin a Berlino), i 13 milioni di tedeschi profughi dall'Est, le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Ma la vittoria fino all’annientamento dell’avversario è, sotto la leadership americana, principio dominante. Il Nemico è la Forza del male. E ogni discorso sui mezzi adeguati e proporzionati diventa superfluo.
C’è dunque – c’era - fra Europa e Stati Uniti una diversa percezione del diritto. Fraintesa per un difetto di ottica: l'Europa continua a guardare gli Stati Uniti come a una sua proiezione, mentre gli Usa guardano all’Europa come a uno dei quattro o cinque scacchieri mondiali nei quali impegnano la loro leadership, a oriente e a occidente della dorsale americana. Si può anche dire degli Usa quello che Junius (Luigi Einaudi), nel tentativo di spiegarsi “il mistero dell'intervento americano in Europa”, diceva sul “Corriere della sera” della Germania nel 1918: “È una terribile creatrice di guerre, l’idea della libertà illimitata”. Tuttavia, se il discorso delle cause giuste - e dei fini - rimane vago, quello dei mezzi è sostanziale e univoco.
È il caso della guerra al terrorismo, che presenta cause legittime. È guerra di reazione, difensiva. Ma in questo quadro anche preventiva e cieca, essendo il nemico segreto, sfuggente, invisibile – agli stessi servizi segreti. Il problema che si può porre è: sono i bombardamenti espedienti e congrui alla guerra al terrorismo – lo furono nell’ultima guerra dell’Europa in Europa, contro i cittadini di Belgrado per liberarli da Milosevic? Specie quelli americani, che per regolamento, per il principio della minima perdita di mezzi impone di sganciare le bombe da cinquemila metri di altezza. L’aviazione peraltro non ha mai vinto una guerra – può solo prepararla, o completarla con l’annientamento.
La guerra e la pace sono - dovrebbero essere - decisioni diplomatice, prese cioè nella pancia più fredda della pubblica amministrazione, e seguire regole precise, scacchistiche. Solo in queste senso la guerra può essere giusta, se ha uno scopo definito e accettabile, e ad esso indirizza impegni congrui, non necessariamente distruttivi.
I diritti umanitari si vogliono sostituire a quelli naturali. Alla teodicea, si sarebbe detto un tempo, che il terrorismo islamico tenta di restaurare. Il diritto alla liberazione dei popoli come i diritti individuali, all’aborto, l’eutanasia, la procreazione artificiale, la clonazione, l’adozione libera. A quelli naturali mancano le tre virtù virtù teologali: la carità o compassione, la speranza, la fede. La volontà di alleviare le sofferenze di tutti, o di migliorare il mondo. Non si possono opporre ai diritti umanitari, né questi da considerare da meno dei diritti naturali – la medicina c’è anche in natura. È però vero che i diritti umani tendono all’annullamento (suicidio): a infrangere cioè la loro stessa natura vincolistica, di paletti e miglioramenti da introdurre nella natura bruta. Compresa quella che si ammanta di religione.

lunedì 20 ottobre 2008

Voglia di razzismo

Come sempre ci vuole la Lega per dire l’ovvio – l’ovvio ha fatto la fortuna politica di Bossi. Che i ragazzi figli d’immigrati per integrarsi devono sapere l’italiano. Che quindi faranno meglio con un supplemento speciale d’italiano, scritto e parlato, per un semestre o un anno.
Della Lega bisogna diffidare, poiché l’istinto razzista è sempre forte nei suoi elettori. Ma il buon uso dell’italiano è ciò che gli immigrati più apprezzano per il futuro dei loro figli. Succede infatti ora che i ragazzi fino ai quindici anni vanno comunque avanti a scuola. Ma il figlio degli immigrati raramente è alla pari degli altri. E quando non succede, nella stragrande maggioranza dei casi, matura una condizione e un complesso d’inferiorità che gli precludono le migliori carriere. Il fatto è noto: abbiamo immigrati di terza generazione, ma le posizioni di eccellenza da essi raggiunte sono poche, e solo nella politica.
Il razzismo in Italia c’è. Ma è limitato. A poche persone della Lombardia e del Veneto. E alle anziane benestanti di città. È passivo. I casi di aggressione finora censiti sono di teppismo. E ovunque è un disvalore: vigila la chiesa, vigila lo Stato con leggi dure, vigilano malgrado tutto le forze dell’ordine, e gli stessi razzisti si negano. C’è però distinta, da una ventina d’anni, specie nei media che più si oppongono al razzismo, una voglia di razzismo.
È successo con Azouz, che ci mette tanto di suo. Per la scuola araba di Milano, che invece voleva essere chiusa per potersi rinnovare nelle strutture. Per i rom, con profluvi di dichiarazioni da Bruxelles e fino a Madrid – dove invece gli indesiderabili il governo socialista li espelle senza processo, ogni giorno un aereo pieno. Per il giovane cinese a Roma.
Si enfatizzano le intolleranze, si reagisce in forme spropositate dove un profumo di razzismo c’è, si creano dei casi, si sollecitano e si propagandano condanne all’Italia dalle fonti più disparate. Con lezioni di buona condotta, dai funzionari di Bruxelles al sociologo americano di provincia, e perfino dalla Cina. Senza alcun interesse peraltro, neppure politico o comunque di parte: giusto perché non si concepisce il giornalismo senza scandalo.

Perché i giudici milanesi temono la Procura

Berlusconi viene assolto dai giudici stranieri cui la Procura di Milano fa ricorso, in Spagna ora, dopo l’Inghilterra e la Germania. In Italia i giudici lo condannano prima del processo. Non c’è solo la giudice del processo Mills (il più ridicolo di tutti, nella corruzione che imperversa a Milano), la ex giovane sessantottina, tutti i giudici di Berlusconi ci hanno tenuto a dichiararsi colpevolisti in privato e in pubblico. Perché?
Si dice per impegno politico. Ma alcuni giudici di Berlusconi sono a Milano notoriamente di destra. In più di un'occasione giudici emeriti hanno proposto in conversazione di riprendersi il borrelliano "resistere, resistere, resistere!", che come si sa era "la linea del Piave", l'appello di Vittorio Emanuele Orlando dopo Caporetto. E anche l’ex Pci da tempo prende le distanze dalla giustizia politica, con Violante e con lo stesso Veltroni.
Si dice per reazione preventiva ai progetti ormai quindicennali di Berlusconi di rifare le istituzioni giudiziarie. Nel senso di limare i poteri che l’ordine giudiziario, unificato nelle Procure, esercita illimitatamente – la magistratura giudicante unita a quella inquirente ne assume l’irresponsabilità. Ma condannare Berlusconi sui giornali non può che rafforzarne la voglia punitiva.
Si dice per solidarietà di casta. Questo può essere. La Procura tra l’altro assicura periodicamente una delle cariche più ambite con cui terminare la carriera. Manlio Minale è stato a lungo giudice. Anche Borrelli lo era stato. Ma non c’è un buon feeling al palazzo di Giustizia milanese verso la Procura. Per tre motivi. Per un fatto di leghismo, forse irriflesso: in tutti i piani si sente criticare la “Procura dei napoletani” (anche se ne sono esponenti eminenti pure i siciliani Spataro, De Pasquale, mentre il Procuratore Capo Minale, tripolino di nascita, è di ascendenza calabrese). Per una questione di rappresentanza. Questa risalente al lontano 1995, quando Borrelli pretese tutto un piano per poter ricevere i giornalisti al riparo della curiosità degli avvocati. Con susseguenti litigi sulle dimensioni degli uffici, con o senza il bagno privato, e sulle dimensioni degli stessi spazi igienici. Ma soprattutto per una questione di risorse. Che la Procura spende munifica, in consulenze, rogatorie, viaggi, personale esecutivo, e atti di diecine di migliaia di pagine.
Bisognerà trovare un altro motivo per cui i giudici a Milano restano, malgrado tutto, così rispettosi della Procura.
P.S. Minale meriterebbe un’apposita trattazione. È il giudice che impiantò la condanna contro Sofri: a più riprese corresse e ammonì i testimoni, per sancire la verità della Procura di Milano. Essendo già stato designato alla carica di vice capo della stessa Procura, quindi a futuro collega e superiore degli accusatori al processo. La sua nomina a capo della Procura nel 2003 ebbe il plauso dei Ds e di An, i partiti degli accusatori, di Sofri e poi di Mani Pulite. Il candidato con più titoli si era ritirato per favorirne la nomina.
Anche il procuratore del processo Mills, Fabio De Pasquale, s’è illustrato. Nel 1993 interrogò infine Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni, dopo averlo tenuto in carcere per quattro mesi e mezzo. Si dichiarò sconfitto e promise a Cagliari la scarcerazione. “Lei me l’ha messa in culo, la devo liberare”, gli disse secondo testimoni attendibili, e il linguaggio corrisponde, il giudice si vuole sanguigno. Ma dopo una settimana se ne andò in vacanza per due mesi, durante i quali Cagliari decise che era meglio suicidarsi che aspettarlo. Ci fu un’ispezione, e gli ispettori ne sanzionarono, oltre che il linguaggio “non consono”, la mancanza di “prudenza, misura e serietà”. Ma Milano lo rispetta più che mai.