“Panorama” ha reso pubbliche le magagne dell’università di Siena. Il “Corriere della sera” non è da meno, e rende note quelle già note dell’università di Messina. Siena ha sperperato 250 milioni di euro, a favore di amici, parenti e compagni. Ma Messina fa peggio: vuole spendere 80 mila euro per un quadro sul terremoto del 1908.
I milioni non sono migliaia, ma non fa nulla, il “Corriere” ha la penna brillante di Gian Antonio Stella, che del malaffare al Sud sa tutto, e questo basti. Non c’è solo Siena infatti: il Grande Scrittore Stella trova il modo di citare anche Salerno e Teramo, seppure per spese più veniali, quasi alla nostra portata. Tenendosi, rigoroso, sotto il muro di Ancona - Siena non ci sarà nel giornale, s‘immagina, per essere sopra il muro.
Naturalmente ci sono molti giudici a Messina, Salerno e Teramo, per indagare su questi sprechi di migliaia di euro. E anche questo è un aspetto del fatto. Mentre non ci sono giudici a Siena.
Ma non solo per il “Corriere”, anche per i giornali toscani di sinistra Siena non c’è, se non in poche righe. E questo è un altro aspetto del problema. Si aprono sedi inutili, si danno consulenze inutili, e si moltiplicano gli incarichi (130 bibliotecari, otto segretarie per il rettore, diciannove addetti alle relazioni esterne…) secondo un modello di corruzione dolce che si ritrova in ogni amministrazione in Toscana e nel Centro Italia. Applicato appunto alla cultura (la comunicazione), all’ambiente, alla sanità, ai settori trainanti delle economie mature, che sono le stelle del sottogoverno.
sabato 1 novembre 2008
Petrolio a 60, dollaro a 1,30, dopo Bush - 2
“Petrolio a 60, dollaro a 1,30, dopo Bush” titolava questo sito il 9 aprile, dopo una prima avvisaglia il 17 gennaio. Il crack delle banche ha accelerato il rientro, ma le ragioni sono sempre quelle: “La triplice confluenza sul caro-petrolio che ha caratterizzato la seconda presidenza Bush, una produzione limitata di greggio Opec, la speculazione a termine, e la rincorsa dei paesi Opec sul dollaro debole, dovrebbe cessare col 2008“. La politica degli alti prezzi dell’energia è divenuta insostenibile nel prosieguo dell’anno, e in concomitanza col crack finanziario, per l’economia americana.
Col “partito dei texani” il ritorno del mercato dell’energia a valori normali avrebbe colpito la Russia di Putin, diceva ancora questo sito, e così è. Mosca deve soccorrere i suoi grandi konzern del petrolio e del gas, così come Bush deve rifinanziare le sue banche. La rivalutazione del dollaro ha solo in parte compensato il rientro dei prezzi del greggio - + 20 per cento circa per il dollaro sull‘euro, contro il - 60 per cento del petrolio.
Indenni al rientro sono praticamente le compagnie petrolifere, e quelle del settore energia che hanno riserve di petrolio o gas. L‘artificiosità del caro-idrocarburi è certificata dalle politiche di contabilizzazione delle compagnie. Che non hanno mai rivalutato le loro riserva a 160 dollari al barile. Riserve e scorte si trovano nel patrimonio delle compagnie a 60-70 dollari al barile. Che è il valore atteso del prezzo base del petrolio per il medio periodo.
Del crack bancario si può dire che in gran parte è vittima dell'uso avventuroso dei derivati sulle materie prime, quelle energetiche in particolare. Il tracollo è iniziato con le banche di affari, qualcuna fallita, altre salvate, ma tutte fallite a mano a mano che gli impegni speculativi sono venuti al pettine. La crisi dei mutui era stato in qualche modo assorbita, la speculazione a termine sul greggio e il gas è invece stata micidiale.
Col “partito dei texani” il ritorno del mercato dell’energia a valori normali avrebbe colpito la Russia di Putin, diceva ancora questo sito, e così è. Mosca deve soccorrere i suoi grandi konzern del petrolio e del gas, così come Bush deve rifinanziare le sue banche. La rivalutazione del dollaro ha solo in parte compensato il rientro dei prezzi del greggio - + 20 per cento circa per il dollaro sull‘euro, contro il - 60 per cento del petrolio.
Indenni al rientro sono praticamente le compagnie petrolifere, e quelle del settore energia che hanno riserve di petrolio o gas. L‘artificiosità del caro-idrocarburi è certificata dalle politiche di contabilizzazione delle compagnie. Che non hanno mai rivalutato le loro riserva a 160 dollari al barile. Riserve e scorte si trovano nel patrimonio delle compagnie a 60-70 dollari al barile. Che è il valore atteso del prezzo base del petrolio per il medio periodo.
Del crack bancario si può dire che in gran parte è vittima dell'uso avventuroso dei derivati sulle materie prime, quelle energetiche in particolare. Il tracollo è iniziato con le banche di affari, qualcuna fallita, altre salvate, ma tutte fallite a mano a mano che gli impegni speculativi sono venuti al pettine. La crisi dei mutui era stato in qualche modo assorbita, la speculazione a termine sul greggio e il gas è invece stata micidiale.
Ombre - 8
Paginate stellari giovedì 31 sull’abominevole Craxi e il dimenticato Spadolini. Che seppero evitare la guerra alla Libia nel 1986 - a differenza di chi si precipitò a bombardare la Serbia nel 1999. Senza scodinzolare alla tenda di Gheddafi, come la Seconda Repubblica farà con Andreotti, Prodi, D’Alema, Berlusconi. Alla tenda di uno la cui ambizione è di emulare Mussolini “duce del Mediterraneo“, sul cavallo bianco.
Ci costringono quasi a rimpiangere la Prima Repubblica. Ma è vero che la Seconda Repubblica resterà irrimediabile epoca di mediocrità - se ci sarà una Seconda Repubblica nella storia: ci potrebbe essere una lunga deriva, il golpe abortito di Scalfaro e Mediobanca.
È dunque guerra tra il Belgio e l’Italia sulla protezione dell’ambiente. A parte il ridicolo, c’è l’ipocrisia, che evidentemente accompagna ogni evento dell’Unione. La querelle si sa già come andrà a finire: con una moratoria degli impegni di Kyoto, al vertice di fine anno. L’Italia si è preso il ruolo del cattivo, e gli altri, che non vedono l’ora di rinviare gli impegni, quella dei Robin Hood. Ma l’ipocrisia si esercita, appunto, sulle cose buone.
La protezione dell‘ambiente è una di queste cose buone. È di tutti, non solo dei belli-e-buoni. Ma per i belli-e-buoni è anche una cornucopia, di progettini, affarucci, opere spesso a nessun fine, se non l’arricchimento. Perché, chi può contestare gli “investimenti per l’ambiente”?
Non c’è più la prima pagina sul ”Corriere della sera” per Bill Emmott, l’ex direttore dell’“Economist” che faceva le copertine contro Berlusconi. C’è solo il taglio basso nella pagina dei commenti, tra i quattro o cinque ivi ospitati. Con un “Berlusconi fa bene: l’ottimismo serve” a corpo 48 sopra un pezzullo stiracchiato che piega perché i governanti in tempo di calamità devono sorridere.
L’arcigno ex direttore nomina Berlusconi di passata, nel build up del suo osanna a Osama. E forse non sa che Bazoli, e quindi il “Corriere”, sono in tregua con Berlusconi. Ma la sua nuova carriera di opinionista dell’Italia, e il lauto assegno del “Corriere”, varranno bene l’amato calice dell’osanna al disprezzato tycoon.
E tuttavia fa sempre impressione vedere sul maggiore giornale nazionale, anche se in taglio basso, in veste di salomone un ex direttore del settimanale così strettamente legato alle banche di affari e agli istituti di rating, le maggiori bande di ladri della storia, che il mondo stanno portando al lastrico.
L‘Expo a Milano e la ricapitalizzazione “a gratis” delle banche hanno fatto di Berlusconi il re di Milano, è a questo che il realista Bazoli si è piegato - l’Expo vale bene quindici miliardi di affari immobiliari. Ma è singolare come il puro e duro “Corriere” di Fiengo & co. ha subito fiutato l’ottimismo di Emmott-Berlusconi, malgrado le tante pagine che il giornale giustamente dedica alla crisi, “peggiore che nel 1929“. Il suo magazine di vita “Style” è andato subito a cercare gli eletti che, tra Milano e Napoli, le due città sono sempre più in simbiosi, fanno le giacche da uomo “a partire da” 2.000 euro.
“Una manifestazione oceanica che esonda da piazza Esedra e piazza del Popolo”, titola “il Manifesto”, “È arrivata l’alta marea”.
La “forza tranquilla” e il “paese normale” cedono il posto al cipiglio stentoreo noto, appena modernizzato dall’“esonda” dei vigili del fuoco. Per essere benevolenti, questa è la sinistra a cui piace vociare, per assolversi. Per mettersi l’animo in pace, come ogni buona zitella abitudinaria. Un po' ignorante, perché si confonde a ogni starnuto col Sessantotto. Ma bisogna anche sapere che questi si mettono in marcia, a milioni, per andare a Roma ad ascoltare il capo. Perfino per Cofferati si sono mossi, a milioni, che vuol'essere un mediocre.
Tra gli sprechi dell’università di Siena, che ha accumulato un buco di 250 milioni di euro, ci sono 1350 impiegati - per mille insegnanti: più di quelli del Monte dei Paschi, tradizionale feudatario di Siena. Ci sono costose e inutilizzate sedi distaccate a Arezzo, San Giovanni Valdarno (cioè Arezzo), Colle al d’Elsa (cioè Siena) e Follonica. Con iscritti in calo del 20 per cento. Ma soprattutto splende Pontignano: nell’ex certosa “lavorano” 41 dipendenti, con premio di produzione, in attesa che torni a conclave l’Ulivo di Prodi, per il quale le porte sono state aperte un paio di volte dopo il costosissimo restauro. Forse non sanno che l’Ulivo non c’è più.
Il progresso e la cultura sono a Milano “La vedova allegra” alla Scala, che commuove i migliori critici. Con spolvero di Mitteleuropa e Belle Epoque. E Beckham al Milan. Che Londra rifiuta, non vi è più buono nemmeno per il gossip. L’Italia sarà pure un outlet, e un emporio di roba usata. Ma sempre Milano ci rivende merce scaduta.
Una corrispondenza da New York del “Manifesto” informa il 31 ottobre che Alexander Stille ha pubblicato sul settimanale “New Yorker” un ritratto di Berlusconi. Intitolato “Girls! Girls! Girls!”. Il ritratto, spiega la corrispondenza, spiega che Berlusconi non è l’”instancabile Don Juan” dipinto dai suoi sostenitori, “capace di soddisfare due o tre donne in una volta”, no, è solo un “drogato di pompini e misteriose iniezioni”. Insomma, lui vorrebbe essere Don Giovanni, e invece è un piccolo Clinton.
Alexander Stille, informa la corrispondenza, è professore alla scuola di giornalismo della Columbia University of New York. Ma è anche figlio di Ugo Stille, il corrispondente da New York del “Corriere della sera”, di cui poi è stato direttore. Figlio doppio in un certo senso, perché Stille era un non de plume del padre e il figlio ha adottato anche quello. E questo, che da noi è una nobile genealogia, non baronaggio, non va bene in America.
Forse per questo il settimanale indica l‘articolo come “Una lettera da Roma“. E non consente che si legga sul suo sito, unico del ricco indice, nel numero del 3 novembre.
A trenta giorni dallo storico articolo di Asor Rosa sul “Ventennio di Berlusconi”, l’1 ottobre, c’è posto sul “Manifesto” per l’intervento a sostegno di Piero Bevilacqua. Il quale giustamente attacca Berlusconi, che ha corrotto la società civile. E conclude: “Io sento di assumermi, come storico, la responsabilità di affermare che neppure sotto la dittatura fascista il lavoro umano in Italia ha conosciuto le forme di degradazione, precarietà, umiliazione patite nell’ultimo ventennio nella cornice di uno stato formalmente democratico”. E informalmente?
Autore di una benemerita "Storia della Calabria" per le scuole, Bevilacqua è approdato alla Sapienza a Lettere al tempo di Asor Rosa. Che molti nell'ateneo romano dicono ancora "fascista", benché da tempo a riposo. E dunque il giudizio dello storico è giusto: si dà del fascista a tutti, perché non a Berlusconi?
Gianfranco Fini si è immerso nelle acque di Giannutri ad agosto. Bagno proibito, e multa - la storia è nota. Ma a novembre l‘indignazione resta grande a Livorno e Viareggio, e “Il Tirreno“ ospita un forum periodico sull‘argomento. Nell‘ultima ondata di proteste la multa è giudicata irrisoria, 206 euro.
Gli italiani sono mediamente i più longevi al mondo, dopo i giapponesi. Ogni anno si sa, si dice, da più anni. E ogni anno si pubblicano paginate sul perché i giapponesi sono longevi: sono pagine pronte?
Ci costringono quasi a rimpiangere la Prima Repubblica. Ma è vero che la Seconda Repubblica resterà irrimediabile epoca di mediocrità - se ci sarà una Seconda Repubblica nella storia: ci potrebbe essere una lunga deriva, il golpe abortito di Scalfaro e Mediobanca.
È dunque guerra tra il Belgio e l’Italia sulla protezione dell’ambiente. A parte il ridicolo, c’è l’ipocrisia, che evidentemente accompagna ogni evento dell’Unione. La querelle si sa già come andrà a finire: con una moratoria degli impegni di Kyoto, al vertice di fine anno. L’Italia si è preso il ruolo del cattivo, e gli altri, che non vedono l’ora di rinviare gli impegni, quella dei Robin Hood. Ma l’ipocrisia si esercita, appunto, sulle cose buone.
La protezione dell‘ambiente è una di queste cose buone. È di tutti, non solo dei belli-e-buoni. Ma per i belli-e-buoni è anche una cornucopia, di progettini, affarucci, opere spesso a nessun fine, se non l’arricchimento. Perché, chi può contestare gli “investimenti per l’ambiente”?
Non c’è più la prima pagina sul ”Corriere della sera” per Bill Emmott, l’ex direttore dell’“Economist” che faceva le copertine contro Berlusconi. C’è solo il taglio basso nella pagina dei commenti, tra i quattro o cinque ivi ospitati. Con un “Berlusconi fa bene: l’ottimismo serve” a corpo 48 sopra un pezzullo stiracchiato che piega perché i governanti in tempo di calamità devono sorridere.
L’arcigno ex direttore nomina Berlusconi di passata, nel build up del suo osanna a Osama. E forse non sa che Bazoli, e quindi il “Corriere”, sono in tregua con Berlusconi. Ma la sua nuova carriera di opinionista dell’Italia, e il lauto assegno del “Corriere”, varranno bene l’amato calice dell’osanna al disprezzato tycoon.
E tuttavia fa sempre impressione vedere sul maggiore giornale nazionale, anche se in taglio basso, in veste di salomone un ex direttore del settimanale così strettamente legato alle banche di affari e agli istituti di rating, le maggiori bande di ladri della storia, che il mondo stanno portando al lastrico.
L‘Expo a Milano e la ricapitalizzazione “a gratis” delle banche hanno fatto di Berlusconi il re di Milano, è a questo che il realista Bazoli si è piegato - l’Expo vale bene quindici miliardi di affari immobiliari. Ma è singolare come il puro e duro “Corriere” di Fiengo & co. ha subito fiutato l’ottimismo di Emmott-Berlusconi, malgrado le tante pagine che il giornale giustamente dedica alla crisi, “peggiore che nel 1929“. Il suo magazine di vita “Style” è andato subito a cercare gli eletti che, tra Milano e Napoli, le due città sono sempre più in simbiosi, fanno le giacche da uomo “a partire da” 2.000 euro.
“Una manifestazione oceanica che esonda da piazza Esedra e piazza del Popolo”, titola “il Manifesto”, “È arrivata l’alta marea”.
La “forza tranquilla” e il “paese normale” cedono il posto al cipiglio stentoreo noto, appena modernizzato dall’“esonda” dei vigili del fuoco. Per essere benevolenti, questa è la sinistra a cui piace vociare, per assolversi. Per mettersi l’animo in pace, come ogni buona zitella abitudinaria. Un po' ignorante, perché si confonde a ogni starnuto col Sessantotto. Ma bisogna anche sapere che questi si mettono in marcia, a milioni, per andare a Roma ad ascoltare il capo. Perfino per Cofferati si sono mossi, a milioni, che vuol'essere un mediocre.
Tra gli sprechi dell’università di Siena, che ha accumulato un buco di 250 milioni di euro, ci sono 1350 impiegati - per mille insegnanti: più di quelli del Monte dei Paschi, tradizionale feudatario di Siena. Ci sono costose e inutilizzate sedi distaccate a Arezzo, San Giovanni Valdarno (cioè Arezzo), Colle al d’Elsa (cioè Siena) e Follonica. Con iscritti in calo del 20 per cento. Ma soprattutto splende Pontignano: nell’ex certosa “lavorano” 41 dipendenti, con premio di produzione, in attesa che torni a conclave l’Ulivo di Prodi, per il quale le porte sono state aperte un paio di volte dopo il costosissimo restauro. Forse non sanno che l’Ulivo non c’è più.
Il progresso e la cultura sono a Milano “La vedova allegra” alla Scala, che commuove i migliori critici. Con spolvero di Mitteleuropa e Belle Epoque. E Beckham al Milan. Che Londra rifiuta, non vi è più buono nemmeno per il gossip. L’Italia sarà pure un outlet, e un emporio di roba usata. Ma sempre Milano ci rivende merce scaduta.
Una corrispondenza da New York del “Manifesto” informa il 31 ottobre che Alexander Stille ha pubblicato sul settimanale “New Yorker” un ritratto di Berlusconi. Intitolato “Girls! Girls! Girls!”. Il ritratto, spiega la corrispondenza, spiega che Berlusconi non è l’”instancabile Don Juan” dipinto dai suoi sostenitori, “capace di soddisfare due o tre donne in una volta”, no, è solo un “drogato di pompini e misteriose iniezioni”. Insomma, lui vorrebbe essere Don Giovanni, e invece è un piccolo Clinton.
Alexander Stille, informa la corrispondenza, è professore alla scuola di giornalismo della Columbia University of New York. Ma è anche figlio di Ugo Stille, il corrispondente da New York del “Corriere della sera”, di cui poi è stato direttore. Figlio doppio in un certo senso, perché Stille era un non de plume del padre e il figlio ha adottato anche quello. E questo, che da noi è una nobile genealogia, non baronaggio, non va bene in America.
Forse per questo il settimanale indica l‘articolo come “Una lettera da Roma“. E non consente che si legga sul suo sito, unico del ricco indice, nel numero del 3 novembre.
A trenta giorni dallo storico articolo di Asor Rosa sul “Ventennio di Berlusconi”, l’1 ottobre, c’è posto sul “Manifesto” per l’intervento a sostegno di Piero Bevilacqua. Il quale giustamente attacca Berlusconi, che ha corrotto la società civile. E conclude: “Io sento di assumermi, come storico, la responsabilità di affermare che neppure sotto la dittatura fascista il lavoro umano in Italia ha conosciuto le forme di degradazione, precarietà, umiliazione patite nell’ultimo ventennio nella cornice di uno stato formalmente democratico”. E informalmente?
Autore di una benemerita "Storia della Calabria" per le scuole, Bevilacqua è approdato alla Sapienza a Lettere al tempo di Asor Rosa. Che molti nell'ateneo romano dicono ancora "fascista", benché da tempo a riposo. E dunque il giudizio dello storico è giusto: si dà del fascista a tutti, perché non a Berlusconi?
Gianfranco Fini si è immerso nelle acque di Giannutri ad agosto. Bagno proibito, e multa - la storia è nota. Ma a novembre l‘indignazione resta grande a Livorno e Viareggio, e “Il Tirreno“ ospita un forum periodico sull‘argomento. Nell‘ultima ondata di proteste la multa è giudicata irrisoria, 206 euro.
Gli italiani sono mediamente i più longevi al mondo, dopo i giapponesi. Ogni anno si sa, si dice, da più anni. E ogni anno si pubblicano paginate sul perché i giapponesi sono longevi: sono pagine pronte?
Problemi di base - 6
Perché non si riconosce a Solidarnosc’ e ai polacchi la spinta definitiva alla caduta del comunismo – perché sono cattolici?
Perché la filosofia non ride?
Che cos’è la bellezza - uno si chiede dopo aver letto Eco?
Perché la mafia si è fermata a Provenzano, trent’anni fa?
Perché la polizia ci fa paura?
Perché i migliori boia sono i giudici – più puliti, più freddi, e inattaccabili?
Perché i giornalisti fanno parlare Mourinho, per paginate, che non vuole farsi intervistare?
Che cos’è l’Anorthosis?
Quali montagne poteva scalare Maometto nella penisola arabica?
Perché la filosofia non ride?
Che cos’è la bellezza - uno si chiede dopo aver letto Eco?
Perché la mafia si è fermata a Provenzano, trent’anni fa?
Perché la polizia ci fa paura?
Perché i migliori boia sono i giudici – più puliti, più freddi, e inattaccabili?
Perché i giornalisti fanno parlare Mourinho, per paginate, che non vuole farsi intervistare?
Che cos’è l’Anorthosis?
Quali montagne poteva scalare Maometto nella penisola arabica?
Islam senza libertà
È un libro che non dà quello che promette, benché garantito da Andrea Romano, che l’ha voluto, e dedicato a importanti studiosi: “A Franco Cardini,\a Umberto Eco (e a sua moglie)”: non sappiamo chiudendolo dov’è la libertà nell’islam – non c’è (ma la moglie di Eco, non avrà un nome?).
È un articolo prolisso sui sette nemici di Ramadan (laici, destre, femministe, gay, israeliani, estremisti mussulmani, esperti di terrorismo). Un’autodifesa, faticosa. L’islam non da ora è la seconda religione in Europa. Ma Ramadan la vuole col fastidioso noi e voi.
Bello e poliglotta, professore a Oxford, dopo essere stato preside di liceo a Ginevra a ventitrè anni, nipote del fondatore dei Fratelli Mussulmani in Egitto, ma svizzero di quarta generazione, rinato nel 1990 a vita nuova con l’islam, che ha studiato in venti mesi appassionati al Cairo, il personaggio è principe dei talk show, e questo è tutto. Un’imbarazzante serie di note sul vuoto rimanda a libri, siti, discorsi, articoli, incarichi dell’autore, e perfino a un “prossimo libro”, o due, dello stesso.
Volendo, si può aggiungere che non è colpa sua. L'islam che imperversa è molto occidentale, del tipo di Occidente che questo stesso islam contesta: elettronica, internet, 007, molti soldi, e il presenzialismo, il gusto di apparire più che di essere. In estate, un sondaggio sugli intellettuali più influenti del pianeta delle autorevoli riviste "Foreign Policy" (Usa) e "Prospect" (Gran Bretagna), sui cento nomi che le stesse proponevano, ha visto ai primi dieci posti i mussulmani. Tutti i mussulmani proposti. Tutti sconosciuti eccetto Yunus, il banchiere dei poveri. Con nessun contributo alla cultura o allo stesso islam. Ma si votava per e-mail. E i candidati italiani delle due riviste, per intendersi, erano Eco e Gianni Riotta.
Tariq Ramadan, Islam e libertà, Einaudi, pp. 143, €9
È un articolo prolisso sui sette nemici di Ramadan (laici, destre, femministe, gay, israeliani, estremisti mussulmani, esperti di terrorismo). Un’autodifesa, faticosa. L’islam non da ora è la seconda religione in Europa. Ma Ramadan la vuole col fastidioso noi e voi.
Bello e poliglotta, professore a Oxford, dopo essere stato preside di liceo a Ginevra a ventitrè anni, nipote del fondatore dei Fratelli Mussulmani in Egitto, ma svizzero di quarta generazione, rinato nel 1990 a vita nuova con l’islam, che ha studiato in venti mesi appassionati al Cairo, il personaggio è principe dei talk show, e questo è tutto. Un’imbarazzante serie di note sul vuoto rimanda a libri, siti, discorsi, articoli, incarichi dell’autore, e perfino a un “prossimo libro”, o due, dello stesso.
Volendo, si può aggiungere che non è colpa sua. L'islam che imperversa è molto occidentale, del tipo di Occidente che questo stesso islam contesta: elettronica, internet, 007, molti soldi, e il presenzialismo, il gusto di apparire più che di essere. In estate, un sondaggio sugli intellettuali più influenti del pianeta delle autorevoli riviste "Foreign Policy" (Usa) e "Prospect" (Gran Bretagna), sui cento nomi che le stesse proponevano, ha visto ai primi dieci posti i mussulmani. Tutti i mussulmani proposti. Tutti sconosciuti eccetto Yunus, il banchiere dei poveri. Con nessun contributo alla cultura o allo stesso islam. Ma si votava per e-mail. E i candidati italiani delle due riviste, per intendersi, erano Eco e Gianni Riotta.
Tariq Ramadan, Islam e libertà, Einaudi, pp. 143, €9
giovedì 30 ottobre 2008
Processo alla storia-processo
Lo storico giudice di Carlo Ginzburg come uno sbirro? Ci sono due storie al tornante del millennio, la storia come spettacolo in tribunale e la storia dell’inquirente, quello per il quale ogni evento è comunque delittuoso, dovendo essere oggetto d’indagine sul modello poliziesco. La seconda non può essere vera e non è consolante, se non come un qualsiasi giallo. Mentre la prima si dissolve nel gossip, lo spamming invadente dell‘età elettronica, di parole e immagini, nel dissolvimento di ogni principio di verità e responsabilità. In tutto somigliante alla storia negata del nazista di Primo Levi, che risponde con un “hier ist kein warum”, non c’è un perché.
Se lo storico è giudice
C’è un uso distorto della storia, di cui la concomitante uscita dell’“Appello di Blois”, sottoscritto da quasi mille storici di 43 paesi, dà un senso definito. È la storia fissata dalle leggi, “che non si può disconoscere”, e di conseguenza non si può più nemmeno indagare. Sono leggi politicamente di sinistra, secondo il vecchio gergo: le tante fatte in Europa che fissano l’Olocausto, contro il negazionismo, e quelle francesi che fissano la tratta e il genocidio degli armeni. A protezione cioè delle vittime. Ma che finiscono per intralciare la ricerca storica, e quindi la storia. L’associazione Liberté pour l’histoire, che ha lanciato l’appello, è stata creata tre anni da Pierre Nora, socialista, proprio per combattere questa limitazione. Ma c’è di più, di più insidioso.
I saggi qui riuniti vogliono fare giustizia della “tribunalizzazione” della storia in altro senso. Dell’“uso” della storia per fare giustizia, spiega Melloni, del paradigma indiziario, e della concomitante mentalità del complotto. Anche al livello più alto del paradigma, la narrazione della storia, in cui Ginzburg eccelle. Della storia che non si fa, del passato che non passa. Anche citando l’ambiguo Ricoeur: “La storia vuole fare della memoria una sua provincia”, una violazione del tempo che si fa violenta quando la storia è storia del tempo che viviamo.
Ma i due termini della questione alla fine confluiscono, nella commistione tra storico e giudice - sia esso o no legislaore - implicita nel paradigma. Della storia come arringa avvocatesca, sia pure di pubblico ministero, in teoria impegnato alla verità dei fatti. Con la quale si finisce per favorire, dice Melloni con Giovanni Miccoli, lo storico de I dilemmi e i silenzi di Pio XII, “l’idea che quei fatti si collocano al di fuori della portata e della misura degli uomini comuni”. E in parallelo fare giustizia della riduzione della storia del Novecento e dell’ebraismo alla Shoah, con il corollario della Colpa imprescrittibile. Con la conseguenza paradossale che quella “storia che non passa” diventa anche una storia che non è avvenuta, non per gli epigoni e i contemporanei. Se non nelle forme dominanti del gossip, per essere cioè opera di folli, di forze demoniache, del male assoluto, di oscuri complotti.
La categoria dell’“uso pubblico della storia” risale al 1986, coniata da Jürgen Habermas nel quadro della Historikerstreit, la disputa degli storici, contro Ernst Nolte che il nazismo per ultimo disse una reazione al bolscevismo. Ma non si dà un momento della storia in cui non se ne sia fatto un uso politico. Alberto Melloni, storico del cristianesimo, si assume in questo libro a quattro mani, che lui stesso ha impiantato, il ruolo del guastatore. Esordisce con “la storia universale è il giudizio universale”, di Schiller, che Hegel imporrà come criterio principe di filosofia della storia. Cui oppone la “prosaica” verità di “un cantautore” - Francesco De Gregori: “La storia dà torto e dà ragione”, e “la storia siamo noi”. Ma ha da dire una cosa seria, e i testi di Marquard a supporto, sebbene anch’essi brillanti, sono fortemente argomentati. “Per la storia della tribunalizzazionme della storia” di Melloni, e i due “esoneri” di Marquard che confluiscono nel libro, “Motivi di teodicea nella filosofia dell‘epoca moderna“ e “L‘uomo nella filosofia del XVIII secolo“, sono tre densi saggi inattuali. Per la radicale diversa prospettiva che introducono nella storia e nella storiografia.
Il filosofo stuntman
Diversa rispetto a quelle del tornante del millennio. Che comunque sono insoddisfacenti per i loro stessi teorici e fautori.Una ricerca come Pasque di sangue, costruita col paradigma indiziario di Ginzburg, incontra la più convinta condanna dello stesso Ginzburg: ci vogliono - ci sono - interdizioni. Niente è da dire del giacobinismo spammato nelle cronache, e più a opera e beneficio degli avidi, i filibustieri, i furbi, i maestri della corruzione, gli (ex) compagni di strada. Dei padroni insomma della audience. Su una umanità di gusci, che sono tanto protetti e ricchi quanto sono apprensivi e avidi, di libri vuoti, di cartaveline.
L’argomento è sensibile. La storia da farsi essendo quella del fascismo, della Shoah, del comunismo - a cui bisognerà aggiungere l’uso della Bomba, i bombardamenti programmati di vittime civili, e forse lo stesso concetto di guerra totale. Insomma, tutto il Novecento e la contemporaneità. Ma è una storia che non si fa perché è una storia che non passa, questo l’argomento comune ai due autori. “Vige la legge”, Marquard, p.76, “della crescente pervasività dei residui”: più migliora il resto, “tanto più virulento diventa… il negativo che resta“.
È l’effetto della postmodernità - dell’età dell’acquario?. Una riedizione della ciclica depressione goduriosa dell’Occidente. Sopra la quale lo storico Melloni e il filosofo Marquard cavalcano in allegria per esserne esenti. Per essere credenti nell’epoca della incroyance? Marquard vede il filosofo “stuntman dell’esperto”, la controfigiura di chi ne sa nelle situazioni pericolose.
"Si giustifichi"
La tribunalizzazoone della storia è la trasformazione della domanda di Leibniz, “perché esiste qualcosa invece di niente?”, in “con che diritto esiste qualcosa invece di niente?”Con la conseguente inimputabilità, attraverso le nuove filosofie, o un bisogno di esonero: il bene che viene dal male. “Si giustifichi” è la legge dell’uomo moderno. È il principio della Riforma, che per questo ha bandito le opere. Marquard ricorda a questo proposito Heine, che con la solita chiarezza nel 1835 riportò il giacobinismo al teutonismo: “Come in Francia qualunque diritto, così in Germania qualunque pensiero deve giustificarsi”. Il Robespierre tedesco, notava Heine, era stato Kant.
La tribunalizzazione è accentuata dalla “onnipotenza della modernità”, che espunge l’impotenza e il dolore. Fino alla triviale e al banale, che ci perseguita da Norimberga. Per l’immagine che fa aggio su qualsiasi verità, e la comunicazione ridotta a chiacchiera, dei blog, le chat, i forum, i reality e i talk show. Lieve ma invadente e sostiutiva: occupa gli spazi, espunge la riflessione e la comprensione - dopo tanta rete, reality e talk show, la leggerezza cara a Savinio e Calvino va riconsiderata. Le immagini, nota Melloni, sono macigni: giudice insindacabile al tribunale della storia è oggi la televisione. Non il documento in archivio, ma l’immagine a casa.
Contro lo spamming invadente, “lo storico migliore” di Melloni “non è quello che ingenuamente arretra nell’afasia, nella polverizzazione microscopica, in qualche forma di par condicio della memoria, ma quello che riesce a disilludere chi chiede sentenza, a far emergere il valore del dettaglio, la parzialità della fonte, chi sa rendere preziose le aporie, sa valorizzare le contraddizioni e, al contrario del tribunale, sa che solo il giudice apre un dossier come se , dopo anni o dopo secoli, esso fosse rimasto identico e perciò « vero» ”.
Se Norimberga è un’assoluzione
La laicizzazione della storia porta dalla seconda metà dell’Ottocento all’“uso pubblico della storia”, nel senso di una magistratura. Norimberga ha avuto un precedente nel tentativo del presidente Wilson di giudicare il kaiser dopo il 1918. Dopo il 1945 la storia si fa in tribunale. Melloni cita Norimberga, Tokyo, Gerusalemme, Francoforte. Ma il più paradigmatico è Palermo, dove a Giorgio Galli, in qualità di storico, l’accusa commissiona la prova principe a carico di Andreotti processato per mafia, una ricerca storica. Che l’assoluzione boccerà, chiudendo il circolo della tribunalizzazione viziosa. L’idea di Norimberga, lanciata nel 1940 da Roosevelt, all’inizio della guerra, e sancita a Londra, a guerra che appare perduta ma prima della Soluzione Finale, il 13 gennaio 1942., è un processo simbolico, a carico di dodici militari e dodici civili. Di una sola parte in guerra. Non ci sono fascisti, ustascia, ucraini, ungheresi tra gli incolpati. Con effetti in superficie indifferenti e al profondo molto negativi.
Il primo e più profondo è la Colpa che non passa. Come uscire dalla Colpa, la condanna sterile, Melloni si fa dire da Christian Meier, lo storico di Da Atene a Auschwitz e L'arte politica della tragedia greca, suo riferimento in più punti, dal cui insegnamento deduce: “Nessun dubbio sul fatto che il comprendere, il comprendere che « dice tutto» di Bloch, inizi dopo la condanna e serva a rendere il passato sopportabile (in contrapposizione al passato rimosso dal mito e dall’oblio)”. E: “Solo ciò che può essere «sopportato» può anche essere «conosciuto storicamente» da chi viene dopo un passato, anche dopo il più recente dei passati”.
Effetti anche paradossali può far rilevare Melloni in conseguenza della tribunalizzazione. L’assassinio di Mussolini ha evitato un processo. L’Italia è così l’unico paese sconfitto a non avere processato il suo passato. Non l'hanno fatto gli americani, non c’è una Norimberga contro il fascismo, non l’ha fatto l’Italia. Se non per alcuni nazisti, sottufficiali o subalterni. I casi truci la Repubblica li chiuse in un armadio al ministero della Difesa, con le porte contro il muro. Amnistia, amnesia. L’amnistia la voleva Umberto di Savoia all’atto dell’ascesa al trono. Anche sulla guerra civile, c’è stato Pavone e poi niente: la “ricerca” è stata lasciata ai giornalisti, per vendere qualche copia. Non è stato fatto il processo ai crimini comunisti in Europa, pure efferati. E Mengaldo titola “La vendetta è il racconto” le testimonianze e riflessioni sulla Shoah, la storia più traumatica.
La teodicea laica
Ma un effetto su tutti Marqiard e Melloni a sorpresa fanno emergere da questa contemporaneità tribunalizia e vacua: il suo apparentamento alla dismessa teodicea, di quando la storia era la rivelazione di Dio. Critici e anzi sarcastici, benché credenti, in quanto è da due scoli e mezzo, dal 1750, una labile teodicea laica. Che, se aiuta e fomenta il progresso tecnico, si adopera a escludere il male, a metterlo da parte, mediante la storia tribunalizia. Mediante il risarcimento (del male), il criterio base della “Teodicea” di Leibniz: del male gnoseologico (la curiosità trasformata da dissipazione in virtù), estetico (l’emozione, la metafora, il mito, l’esotico, il selvaggio, il fanciullesco, il femminile), morale (il peccato originale pegno di libertà, l’asocialità come creatività, Nietzsche: la ribellione è creatività), fisico (la fatica, il lavoro, la stessa penuria in Malthus), metafisico (mutamento). Mentre il bene tradizionale viene trasformato in male.
Marquard ha due pagine magistrali sul bisogno di Dio, spiegato da Leibniz nella Teodicea”, le cui insufficienze saranno addebitate nel secondo Settecento da Kant all’uomo e da Fichte alla storia, dopo che Rousseau aveva rilevato il distacco della cultura dalla natura, e il terremoto di Lisbona nel 1755 gli aveva dato ragione. Mentre nel 1764 debuttava la letteratura horror, e nel 1965 la filosofia della storia. Il progresso è Dio, dicevano Hegel e Tocqueville. Non può esserlo, obiettava Ranke, altrimenti chi è nato prima è discriminato. Ma si restava sempre in quell’ambito. Marquard ritrova nella contemporaneità tutti i motivi della teodice prima del disincanto, che la “Teodices” di Leibniz sistematizza: il risarcimento, la compensazione, l’esonero. Singolare recupero. Non immotivato. La “tribunalizzazione della storia” vedendo (Melloni, p.47) “non solo come figura che sostituisce e secolarizza la teodicea, ma come un concreto appello del diritto penale e perfino costituzionale alla storia, affinché essa legittimi l’adesione e l’identità politica, in quel vuoto dello ius publicum europaeum presentito da Carl Schmitt”. Una nuova forma di teodicea, laica, per riempire il vuoto della secolarizzazione.
La tribunalizzazione è il tentativo della storia secolarizzata di darsi una morale. Una debolezza, che Melloni condanna d’acchito: “Sicché, alla fine, dopo aver certo esonerato l’uomo con la stessa fragile eleganza con cui la teodicea esonerava Dio, non ci si ritrova fra le mani una tesi filosofica, ma un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale”.
Marquard, Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, pp.162, € 16
Se lo storico è giudice
C’è un uso distorto della storia, di cui la concomitante uscita dell’“Appello di Blois”, sottoscritto da quasi mille storici di 43 paesi, dà un senso definito. È la storia fissata dalle leggi, “che non si può disconoscere”, e di conseguenza non si può più nemmeno indagare. Sono leggi politicamente di sinistra, secondo il vecchio gergo: le tante fatte in Europa che fissano l’Olocausto, contro il negazionismo, e quelle francesi che fissano la tratta e il genocidio degli armeni. A protezione cioè delle vittime. Ma che finiscono per intralciare la ricerca storica, e quindi la storia. L’associazione Liberté pour l’histoire, che ha lanciato l’appello, è stata creata tre anni da Pierre Nora, socialista, proprio per combattere questa limitazione. Ma c’è di più, di più insidioso.
I saggi qui riuniti vogliono fare giustizia della “tribunalizzazione” della storia in altro senso. Dell’“uso” della storia per fare giustizia, spiega Melloni, del paradigma indiziario, e della concomitante mentalità del complotto. Anche al livello più alto del paradigma, la narrazione della storia, in cui Ginzburg eccelle. Della storia che non si fa, del passato che non passa. Anche citando l’ambiguo Ricoeur: “La storia vuole fare della memoria una sua provincia”, una violazione del tempo che si fa violenta quando la storia è storia del tempo che viviamo.
Ma i due termini della questione alla fine confluiscono, nella commistione tra storico e giudice - sia esso o no legislaore - implicita nel paradigma. Della storia come arringa avvocatesca, sia pure di pubblico ministero, in teoria impegnato alla verità dei fatti. Con la quale si finisce per favorire, dice Melloni con Giovanni Miccoli, lo storico de I dilemmi e i silenzi di Pio XII, “l’idea che quei fatti si collocano al di fuori della portata e della misura degli uomini comuni”. E in parallelo fare giustizia della riduzione della storia del Novecento e dell’ebraismo alla Shoah, con il corollario della Colpa imprescrittibile. Con la conseguenza paradossale che quella “storia che non passa” diventa anche una storia che non è avvenuta, non per gli epigoni e i contemporanei. Se non nelle forme dominanti del gossip, per essere cioè opera di folli, di forze demoniache, del male assoluto, di oscuri complotti.
La categoria dell’“uso pubblico della storia” risale al 1986, coniata da Jürgen Habermas nel quadro della Historikerstreit, la disputa degli storici, contro Ernst Nolte che il nazismo per ultimo disse una reazione al bolscevismo. Ma non si dà un momento della storia in cui non se ne sia fatto un uso politico. Alberto Melloni, storico del cristianesimo, si assume in questo libro a quattro mani, che lui stesso ha impiantato, il ruolo del guastatore. Esordisce con “la storia universale è il giudizio universale”, di Schiller, che Hegel imporrà come criterio principe di filosofia della storia. Cui oppone la “prosaica” verità di “un cantautore” - Francesco De Gregori: “La storia dà torto e dà ragione”, e “la storia siamo noi”. Ma ha da dire una cosa seria, e i testi di Marquard a supporto, sebbene anch’essi brillanti, sono fortemente argomentati. “Per la storia della tribunalizzazionme della storia” di Melloni, e i due “esoneri” di Marquard che confluiscono nel libro, “Motivi di teodicea nella filosofia dell‘epoca moderna“ e “L‘uomo nella filosofia del XVIII secolo“, sono tre densi saggi inattuali. Per la radicale diversa prospettiva che introducono nella storia e nella storiografia.
Il filosofo stuntman
Diversa rispetto a quelle del tornante del millennio. Che comunque sono insoddisfacenti per i loro stessi teorici e fautori.Una ricerca come Pasque di sangue, costruita col paradigma indiziario di Ginzburg, incontra la più convinta condanna dello stesso Ginzburg: ci vogliono - ci sono - interdizioni. Niente è da dire del giacobinismo spammato nelle cronache, e più a opera e beneficio degli avidi, i filibustieri, i furbi, i maestri della corruzione, gli (ex) compagni di strada. Dei padroni insomma della audience. Su una umanità di gusci, che sono tanto protetti e ricchi quanto sono apprensivi e avidi, di libri vuoti, di cartaveline.
L’argomento è sensibile. La storia da farsi essendo quella del fascismo, della Shoah, del comunismo - a cui bisognerà aggiungere l’uso della Bomba, i bombardamenti programmati di vittime civili, e forse lo stesso concetto di guerra totale. Insomma, tutto il Novecento e la contemporaneità. Ma è una storia che non si fa perché è una storia che non passa, questo l’argomento comune ai due autori. “Vige la legge”, Marquard, p.76, “della crescente pervasività dei residui”: più migliora il resto, “tanto più virulento diventa… il negativo che resta“.
È l’effetto della postmodernità - dell’età dell’acquario?. Una riedizione della ciclica depressione goduriosa dell’Occidente. Sopra la quale lo storico Melloni e il filosofo Marquard cavalcano in allegria per esserne esenti. Per essere credenti nell’epoca della incroyance? Marquard vede il filosofo “stuntman dell’esperto”, la controfigiura di chi ne sa nelle situazioni pericolose.
"Si giustifichi"
La tribunalizzazoone della storia è la trasformazione della domanda di Leibniz, “perché esiste qualcosa invece di niente?”, in “con che diritto esiste qualcosa invece di niente?”Con la conseguente inimputabilità, attraverso le nuove filosofie, o un bisogno di esonero: il bene che viene dal male. “Si giustifichi” è la legge dell’uomo moderno. È il principio della Riforma, che per questo ha bandito le opere. Marquard ricorda a questo proposito Heine, che con la solita chiarezza nel 1835 riportò il giacobinismo al teutonismo: “Come in Francia qualunque diritto, così in Germania qualunque pensiero deve giustificarsi”. Il Robespierre tedesco, notava Heine, era stato Kant.
La tribunalizzazione è accentuata dalla “onnipotenza della modernità”, che espunge l’impotenza e il dolore. Fino alla triviale e al banale, che ci perseguita da Norimberga. Per l’immagine che fa aggio su qualsiasi verità, e la comunicazione ridotta a chiacchiera, dei blog, le chat, i forum, i reality e i talk show. Lieve ma invadente e sostiutiva: occupa gli spazi, espunge la riflessione e la comprensione - dopo tanta rete, reality e talk show, la leggerezza cara a Savinio e Calvino va riconsiderata. Le immagini, nota Melloni, sono macigni: giudice insindacabile al tribunale della storia è oggi la televisione. Non il documento in archivio, ma l’immagine a casa.
Contro lo spamming invadente, “lo storico migliore” di Melloni “non è quello che ingenuamente arretra nell’afasia, nella polverizzazione microscopica, in qualche forma di par condicio della memoria, ma quello che riesce a disilludere chi chiede sentenza, a far emergere il valore del dettaglio, la parzialità della fonte, chi sa rendere preziose le aporie, sa valorizzare le contraddizioni e, al contrario del tribunale, sa che solo il giudice apre un dossier come se , dopo anni o dopo secoli, esso fosse rimasto identico e perciò « vero» ”.
Se Norimberga è un’assoluzione
La laicizzazione della storia porta dalla seconda metà dell’Ottocento all’“uso pubblico della storia”, nel senso di una magistratura. Norimberga ha avuto un precedente nel tentativo del presidente Wilson di giudicare il kaiser dopo il 1918. Dopo il 1945 la storia si fa in tribunale. Melloni cita Norimberga, Tokyo, Gerusalemme, Francoforte. Ma il più paradigmatico è Palermo, dove a Giorgio Galli, in qualità di storico, l’accusa commissiona la prova principe a carico di Andreotti processato per mafia, una ricerca storica. Che l’assoluzione boccerà, chiudendo il circolo della tribunalizzazione viziosa. L’idea di Norimberga, lanciata nel 1940 da Roosevelt, all’inizio della guerra, e sancita a Londra, a guerra che appare perduta ma prima della Soluzione Finale, il 13 gennaio 1942., è un processo simbolico, a carico di dodici militari e dodici civili. Di una sola parte in guerra. Non ci sono fascisti, ustascia, ucraini, ungheresi tra gli incolpati. Con effetti in superficie indifferenti e al profondo molto negativi.
Il primo e più profondo è la Colpa che non passa. Come uscire dalla Colpa, la condanna sterile, Melloni si fa dire da Christian Meier, lo storico di Da Atene a Auschwitz e L'arte politica della tragedia greca, suo riferimento in più punti, dal cui insegnamento deduce: “Nessun dubbio sul fatto che il comprendere, il comprendere che « dice tutto» di Bloch, inizi dopo la condanna e serva a rendere il passato sopportabile (in contrapposizione al passato rimosso dal mito e dall’oblio)”. E: “Solo ciò che può essere «sopportato» può anche essere «conosciuto storicamente» da chi viene dopo un passato, anche dopo il più recente dei passati”.
Effetti anche paradossali può far rilevare Melloni in conseguenza della tribunalizzazione. L’assassinio di Mussolini ha evitato un processo. L’Italia è così l’unico paese sconfitto a non avere processato il suo passato. Non l'hanno fatto gli americani, non c’è una Norimberga contro il fascismo, non l’ha fatto l’Italia. Se non per alcuni nazisti, sottufficiali o subalterni. I casi truci la Repubblica li chiuse in un armadio al ministero della Difesa, con le porte contro il muro. Amnistia, amnesia. L’amnistia la voleva Umberto di Savoia all’atto dell’ascesa al trono. Anche sulla guerra civile, c’è stato Pavone e poi niente: la “ricerca” è stata lasciata ai giornalisti, per vendere qualche copia. Non è stato fatto il processo ai crimini comunisti in Europa, pure efferati. E Mengaldo titola “La vendetta è il racconto” le testimonianze e riflessioni sulla Shoah, la storia più traumatica.
La teodicea laica
Ma un effetto su tutti Marqiard e Melloni a sorpresa fanno emergere da questa contemporaneità tribunalizia e vacua: il suo apparentamento alla dismessa teodicea, di quando la storia era la rivelazione di Dio. Critici e anzi sarcastici, benché credenti, in quanto è da due scoli e mezzo, dal 1750, una labile teodicea laica. Che, se aiuta e fomenta il progresso tecnico, si adopera a escludere il male, a metterlo da parte, mediante la storia tribunalizia. Mediante il risarcimento (del male), il criterio base della “Teodicea” di Leibniz: del male gnoseologico (la curiosità trasformata da dissipazione in virtù), estetico (l’emozione, la metafora, il mito, l’esotico, il selvaggio, il fanciullesco, il femminile), morale (il peccato originale pegno di libertà, l’asocialità come creatività, Nietzsche: la ribellione è creatività), fisico (la fatica, il lavoro, la stessa penuria in Malthus), metafisico (mutamento). Mentre il bene tradizionale viene trasformato in male.
Marquard ha due pagine magistrali sul bisogno di Dio, spiegato da Leibniz nella Teodicea”, le cui insufficienze saranno addebitate nel secondo Settecento da Kant all’uomo e da Fichte alla storia, dopo che Rousseau aveva rilevato il distacco della cultura dalla natura, e il terremoto di Lisbona nel 1755 gli aveva dato ragione. Mentre nel 1764 debuttava la letteratura horror, e nel 1965 la filosofia della storia. Il progresso è Dio, dicevano Hegel e Tocqueville. Non può esserlo, obiettava Ranke, altrimenti chi è nato prima è discriminato. Ma si restava sempre in quell’ambito. Marquard ritrova nella contemporaneità tutti i motivi della teodice prima del disincanto, che la “Teodices” di Leibniz sistematizza: il risarcimento, la compensazione, l’esonero. Singolare recupero. Non immotivato. La “tribunalizzazione della storia” vedendo (Melloni, p.47) “non solo come figura che sostituisce e secolarizza la teodicea, ma come un concreto appello del diritto penale e perfino costituzionale alla storia, affinché essa legittimi l’adesione e l’identità politica, in quel vuoto dello ius publicum europaeum presentito da Carl Schmitt”. Una nuova forma di teodicea, laica, per riempire il vuoto della secolarizzazione.
La tribunalizzazione è il tentativo della storia secolarizzata di darsi una morale. Una debolezza, che Melloni condanna d’acchito: “Sicché, alla fine, dopo aver certo esonerato l’uomo con la stessa fragile eleganza con cui la teodicea esonerava Dio, non ci si ritrova fra le mani una tesi filosofica, ma un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale”.
Marquard, Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, pp.162, € 16
Il referendum contro il grembiulino
Gelmini non aveva fatto in tempo a evocarlo, nelle interviste agostane, che il grembiulino faceva mostra di sé in tutte le vetrine d’Italia, in infinite fogge, in molteplici colori, in misure per tutti, anche per le maestre grasse. Se ne potrebbe inferire un complotto, l’ennesimo, fra la Gelmini, i grembiulai e i negozianti, contro la società civile. Con corredo di mamme comprate, quelle del grembiulino. Se non del famoso Gelli… Oppure un colpo di genio, un ultimo - l‘ultimo? - di questa Italia depressa e decaduta, specie degli efficientissimi artigiani napoletani che “Gomorra“ dice camorra, che in pochi giorni sono stati in grado non solo di fabbricare milioni di grembiulini, ma anche di farli trovare in tutta Italia. Quando un pacco raccomandato espresso con le Poste ci impiega almeno dieci giorni solo per andare da Roma a Ostia. Senza contare quindi la confezione, e la lunga attesa per la spedizione.
Ora, per questo il referendum di Veltroni contro il grembiulino appare ai più malinconico. Perché censura, col suggello della società civile e delle mamme, quelle contro il grembiulino, questo - ultimo? - sprazzo di creatività italiana e napoletana. Di cui insomma dobbiamo vergognarci. Se non, quasi quasi, andare a votare contro. Cioè per il grembiulino. E a questo punto anche per il voto in condotta, che tanto dispiace alle mamme trepide.
Certo, we can. Ma che ne direbbe Obama? Non avrebbe fatto meglio Veltroni a mandarci al referendum contro i tagli alla scuola? O i tagli all‘università? O anche solo contro i tagli alla ricerca? Qui tra l‘altro era anche semplice: bastava dire “votate no all‘emendamento Brunetta“. O lui è contro il grembiule, e il voto in condotta, e a favore dell’emendamento?
P.S.- Il referendum non è consentito sule leggi di bilancio. Ma sulla sopravvivenza dell‘università sì.
Ora, per questo il referendum di Veltroni contro il grembiulino appare ai più malinconico. Perché censura, col suggello della società civile e delle mamme, quelle contro il grembiulino, questo - ultimo? - sprazzo di creatività italiana e napoletana. Di cui insomma dobbiamo vergognarci. Se non, quasi quasi, andare a votare contro. Cioè per il grembiulino. E a questo punto anche per il voto in condotta, che tanto dispiace alle mamme trepide.
Certo, we can. Ma che ne direbbe Obama? Non avrebbe fatto meglio Veltroni a mandarci al referendum contro i tagli alla scuola? O i tagli all‘università? O anche solo contro i tagli alla ricerca? Qui tra l‘altro era anche semplice: bastava dire “votate no all‘emendamento Brunetta“. O lui è contro il grembiule, e il voto in condotta, e a favore dell’emendamento?
P.S.- Il referendum non è consentito sule leggi di bilancio. Ma sulla sopravvivenza dell‘università sì.
lunedì 27 ottobre 2008
Tagliata la fisica bianca e la ricerca nucleare
È argomento di molta ironia tra i fisici italiani, pure in questi giorni che li vedono al centro della protesta contro l’abolizione della ricerca scientifica. E uno che avrebbe fatto infuriare Berlusconi, per l’evidente ricaduta beffarda. L’istituto di ricerca che per primo cadrà sotto la scure del governo è quello nucleare, l’Infn, Istituto nazionale di fisica nucleare.
L’ironia, e la beffa, sta nel fatto che il governo si è impegnato, con la stessa determinazione che usa contro la ricerca, a rilanciare il nucleare in Italia. Facile argomentare che “Berlusconi pensa di fare il nucleare coi battilamiera”. Ma con un codicillo ancora più insidioso: tagliando l’Infn il governo taglia la vena aorta della fisica “bianca”, la creatura prediletta di Zichichi e altri fisici dello stesso colore. Che peraltro hanno sempre avuto, e vorrebbero mantenerla col ministro delle Attività Produttive, il bianchissimo Scajola, una leadership incontestata in tutti i campi del settore energia.
Nel passato governo Berlusconi Letizia Moratti tagliò la fisica “rossa”, l’Infm, l’Istituto nazionale di fisica della materia, accorpandolo al Cnr, dove rientrava sotto il controllo bianco. Nessuno protestò, in nessuna piazza, e anzi Zichichi e i suoi amici scesero in campo con dichiarazioni pubbliche a favore del governo. Ora la beffa. Che molti giurano non sarà fatta passare liscia a Berlusconi.
L’ironia, e la beffa, sta nel fatto che il governo si è impegnato, con la stessa determinazione che usa contro la ricerca, a rilanciare il nucleare in Italia. Facile argomentare che “Berlusconi pensa di fare il nucleare coi battilamiera”. Ma con un codicillo ancora più insidioso: tagliando l’Infn il governo taglia la vena aorta della fisica “bianca”, la creatura prediletta di Zichichi e altri fisici dello stesso colore. Che peraltro hanno sempre avuto, e vorrebbero mantenerla col ministro delle Attività Produttive, il bianchissimo Scajola, una leadership incontestata in tutti i campi del settore energia.
Nel passato governo Berlusconi Letizia Moratti tagliò la fisica “rossa”, l’Infm, l’Istituto nazionale di fisica della materia, accorpandolo al Cnr, dove rientrava sotto il controllo bianco. Nessuno protestò, in nessuna piazza, e anzi Zichichi e i suoi amici scesero in campo con dichiarazioni pubbliche a favore del governo. Ora la beffa. Che molti giurano non sarà fatta passare liscia a Berlusconi.
"Economist" e "Financial Times" a guardia dei ladri
Si risollevano le sorti politiche di Brown in Inghilterra perché è intervenuto prima e più rapidamente di ogni altro a salvare le grandi banche. Col pauso delle vestali del mercato, “Economist” e “Financial Times”. Senza un cenno di autocritica dei due giornali. Che sono stati fatti (e forse lo sono ancora) dalle banche d’affari, e dai compari di queste banche, gli istituti di rating. Dai grandi ladri cioè all’origine degli ammanchi senza precedenti che hanno svuotato il mercato. E porteranno a una reazione a catena di fallimenti, non esclusi gli stessi santoni del mercato e della dirittura morale, “Economist” e “Financial Times”.
Per un quindicennio i due grandi giornali si sono fatti con le indiscrezioni pilotate delle banche d’affari. Per questo o quell’affare, oppure contro questo o contro quello. Affari come ora si sa banditeschi, di cui i due giornali sono stati i complici – e possono essere le vittime. Ma non c’è in essi alcuna autocritica.
Che il senso morale britannico sia jingoista, si sapeva: Londra è la migliore. Ma che il nocciolo della corruzione sia ancora protetto significa che la crisi, per quanto grave, lascia inalterato l’assetto degli affari. Si rubava, cioè, e si continua a rubare.
Per un quindicennio i due grandi giornali si sono fatti con le indiscrezioni pilotate delle banche d’affari. Per questo o quell’affare, oppure contro questo o contro quello. Affari come ora si sa banditeschi, di cui i due giornali sono stati i complici – e possono essere le vittime. Ma non c’è in essi alcuna autocritica.
Che il senso morale britannico sia jingoista, si sapeva: Londra è la migliore. Ma che il nocciolo della corruzione sia ancora protetto significa che la crisi, per quanto grave, lascia inalterato l’assetto degli affari. Si rubava, cioè, e si continua a rubare.
La ricerca fa litigare Gelmini e Brunetta
La Gelmini contro Brunetta. Maroni contro Gelmini e Brunetta. Ci sono stati errori nella riforma della scuola e dell’università, “sovraesposizioni”: all’interno del governo si cominciano a fare i conti. Maroni, pur condividendo sia il decreto Gelmini che l’emendamento Brunetta, non ci sta ad “alzare il livello dello scontro”, come usava dire: le forze dell’ordine hanno consegne ferree di evitare qualsiasi forma di violenza. “Niente martiri”, avrebbe detto il titolare dell’Interno. Che esclude comunque l’impiego della forza pubblica per assicurare la continuità della didattica contro eventuali occupazioni, anche se prolungate.
Ma il problema non è tanto l’impiego della forza pubblica, che non sarebbe in agenda, quanto il carattere punitivo e eccessivo di cui sono stati caricati gli interventi sulla scuola e l’università. Gelmini tenta da qualche giorno, al Senato e nelle interviste, di recuperare la dimensione politica dei suoi decreti. E si lamenta in privato degli atteggiamenti ultimativi che invece Brunetta esibirebbe. Solo per tenere fede, afferma, alla sua immagine di mangiasprechi. Mentre Brunetta dal canto suo ritiene di essere stato intrappolato, col famoso emendamento tagliaricerca, dall’establishment ministeriale. Un emendamento che egli avrebbe proposto senza valutarne appunto l’impatto sulla ricerca scientifica.
Ma il problema non è tanto l’impiego della forza pubblica, che non sarebbe in agenda, quanto il carattere punitivo e eccessivo di cui sono stati caricati gli interventi sulla scuola e l’università. Gelmini tenta da qualche giorno, al Senato e nelle interviste, di recuperare la dimensione politica dei suoi decreti. E si lamenta in privato degli atteggiamenti ultimativi che invece Brunetta esibirebbe. Solo per tenere fede, afferma, alla sua immagine di mangiasprechi. Mentre Brunetta dal canto suo ritiene di essere stato intrappolato, col famoso emendamento tagliaricerca, dall’establishment ministeriale. Un emendamento che egli avrebbe proposto senza valutarne appunto l’impatto sulla ricerca scientifica.
La nuova Alitalia sarà Lufthansa
Il Nord col traffico d’affari a Lufthansa, e Roma col traffico turistico alla nuova Alitalia? È l’ultimo esito dell’interminabile crisi del vettore italiano, di cui finalmente emerge la ratio.
Alitalia ha ridotto i voli da Malpensa da 1.250 a 150 la settimana, Lufthansa ha creato una Lufthansa Italia per collegare Malpensa con tutte le città europee, facendone il suo terzo hub, insieme con Francoforte e Monaco. E non c’è nessun dubbio che il programma Lufthansa partirà prima e meglio di quello della nuova Alitalia, che come tutto in Italia traccheggia tra le mille tagliole burocratiche e sindacali. Quando la nuova Alitalia sarà pronta al decollo, non prima di sei mesi, la Malpensa di Lufthansa potrebbe già essere in volo.
Non è detto. Malpensa è soprattutto una promessa andata a male, un potenziale depotenziato. Una storia ormai trentennale della follia che oggi si direbbe leghista. Se su Alitalia incombe la follia sindacale, Malpensa è stata vittima di guerre a non finire tra i tanti Comuni che in qualche modo allo scalo sono interessati. Che hanno bloccato, ritardato, rincarato, tutto ciò che hanno potuto, la terza pista, il tubo del gas, il kerosene, l’autostrada, la ferrovia.
La Lega, però, che ormai domina nelle due province, Milano e Varese, potrebbe essere risolutiva. La Lufthansa a Malpensa è un altro tassello del Nord tedesco, come lo voleva Bossi. Il Lombardo-Veneto, che ha già costituito con la Baviera e la Svevia il quadrato più ricco d’Europa, e quindi del mondo, si libera con Lufthansa finalmente delle forche caudine di Roma.
Alitalia ha ridotto i voli da Malpensa da 1.250 a 150 la settimana, Lufthansa ha creato una Lufthansa Italia per collegare Malpensa con tutte le città europee, facendone il suo terzo hub, insieme con Francoforte e Monaco. E non c’è nessun dubbio che il programma Lufthansa partirà prima e meglio di quello della nuova Alitalia, che come tutto in Italia traccheggia tra le mille tagliole burocratiche e sindacali. Quando la nuova Alitalia sarà pronta al decollo, non prima di sei mesi, la Malpensa di Lufthansa potrebbe già essere in volo.
Non è detto. Malpensa è soprattutto una promessa andata a male, un potenziale depotenziato. Una storia ormai trentennale della follia che oggi si direbbe leghista. Se su Alitalia incombe la follia sindacale, Malpensa è stata vittima di guerre a non finire tra i tanti Comuni che in qualche modo allo scalo sono interessati. Che hanno bloccato, ritardato, rincarato, tutto ciò che hanno potuto, la terza pista, il tubo del gas, il kerosene, l’autostrada, la ferrovia.
La Lega, però, che ormai domina nelle due province, Milano e Varese, potrebbe essere risolutiva. La Lufthansa a Malpensa è un altro tassello del Nord tedesco, come lo voleva Bossi. Il Lombardo-Veneto, che ha già costituito con la Baviera e la Svevia il quadrato più ricco d’Europa, e quindi del mondo, si libera con Lufthansa finalmente delle forche caudine di Roma.