Tanti profeti della crisi sono in circolazione, i “l’avevo detto” due, tre e cinque anni fa. Ma nessuno che azzardi una spiegazione di quanto sta succedendo in Borsa, l’altalena di fenomenali accensioni e altrettanto fenomenali crolli. Mentre alcune cose sono chiare.
Si lascia intendere che la crisi è quella dei mutui, mentre i mutui sono stati in qualche modo assorbiti. Sono stati cancellati dagli attivi delle banche coinvolte, sono minime le ripercussioni sulle altre banche - gli effetti “tossici”. I titoli tossici sono quelli delle gigantesche banche d’affari che hanno infettato il sistema finanziario mondiale con le speculazioni a termine senza adeguate ricoperture. Non più quindi solo il mercato americano, ma anche quello europeo e del resto del mondo. Con i loro compari, i fondi di copertura, hedge funds, che invece che operare per assorbire gli incerti e i movimenti anomali, operano al contrario per provocarli. Speculano cioè, specialisti come sono in short selling: sono loro che movimentano le Borse con le forti oscillazioni, e malgrado la crisi stanno infatti guadagnando, anche molto.
Questo è il secondo aspetto noto, che si tarda però a evidenziare, e anzi si omette. Per un motivo semplice: lo hedging è il mercato. Il mercato è insomma speculazione, ma non si può dire, gli interessi che privilegia sono ancora tanto forti da impedirlo. Il mercato è anche altre cose, è un gioco ordinatore, equilibratore, fra domanda e offerta, ma casuali e non necessarie. La domanda resta per esempio concetto volatile, confinato nella categoria onnivora delle aspettative e le propensioni, di cui nulla si sa finché non si sono manifestate.
La speculazione, la cui definizione è anch’essa sfuggente, ha peraltro un nucleo preciso: è l’elusione delle norme. Speculare di può dire in mille modi, ma nella sostanza è giocare contro le norme, sfruttarne i buchi e la debolezze. Soprattutto avvalendosi della legalità - questa è anche la forza dell’America, mentre altrove lo speculatore è più spesso un bancarottiere dal fiato corto o un ladro. Ora si faranno nuove regole, a otto o a venti, e forse si rifarà Bretton Woods, l'ordinamento monetario mondiale (non si rifarà), ma la speculazione si eserciterà anche contro le nuove regole, non c'è dubbio. A meno di una vigilanza costante.
La speculazione, va infine detto, ha dalla sua, più che il potere o la corruzione, che in molti casi sono anzi esclusi, il fascino della ricchezza rapida, e senza fatica. Contro una posta negativa – il fallimento – che non ha alcun potere dissuasivo, essendo pagato dagli altri. Ma appunto perciò è un atto aggressivo, non a somma zero: è appropriarsi delle risorse altrui. Col consenso, ma estorto. In quanto distorto appunto dalla legalità, dal rispetto formale delle regole.
Il silenzio sull’evidenza è l’esito dell’altra arma della speculazione: la capacità di fare consenso. Anche qui attraverso armi proprie, seppure violente, che tutte si riassumono nella capacità di fare informazione, non sempre di parte. Senza spesa – senza corruzione – e con un esercizio molto indiretto del potere.
venerdì 7 novembre 2008
Il mondo com'è (13)
astolfo
Antiamericanismo – Non si dissolve con Obama. Non riguarda infatti l’America – tutti sono per gli americani e contro i terroristi mussulmani, anzi contro i mussulmani, piace perfino l’hamburger – ma la libertà e la giusta mercede. L’uguaglianza fa paura – l’uguaglianza nella libertà, garantita e anzi promossa dalla legge. Soprattutto ai notabili delle culture incistate: l’antiamericanismo non è politico o sociale, è culturale. Per questo è possibile stare con Chàvez e Ahmadinejad contro gli Usa.
Contro il "modello Usa" da "bestiame bovino" è forte al fondo in Italia il pregiudizio di Evola, di un mondo che si vorrebbe spiritualista. Che però non lo è, in nessuna misura, tra il pubblico informe della televisone come tra quelle delle librerie Feltrinelli. L’antiamericanismo si può dire, è, la cartina di tornasole del bisogno di libertà, che (non) è un bisogno primario - bisognerebbe aver fatto il passo definitivo, costituzionale, comportamentale, verso un sistema di libertà per porsi congruamente il rispetto della tradizione e della storia.
Si prenda l’abisso italico, che riduce lo sbarco in Sicilia a un fatto di mafia. Con gaudio - la Schadenfreude va ugualmente agli Usa e alla Sicilia. Ma più spesso a opera di siciliani, per una sorta di odio-di-sé meridionale. “Tutti, in Sicilia, (lo) sapevano”, scrive Gaetano Savatteri da ultimo in “La volata di Calò”. Protestando di non crederci, però… “Tutti conoscevano questa storia. Se ne parlava nelle piazze, magari sottovoce. Tutti erano sicuri che fosse andata così, e ancora molti lo sono”. “La volata di Calò” è stata scritta per celebrare una famiglia di industriali isolani, i nipoti di Calogero (“Calò”) Montante, che sono al fronte contro la mafia. Ma della mafia allo scrittore piace dare questa immagine di onnipotenza. Anche perché il libro si regge giusto per questo aneddoto. Dopo il racconto di Camilleri “Una corsa verso la libertà”, che rappresenta gli alleati come truppe di occupazione, con le loro stucchevoli cicche e Lucky Strike.
Un evento di portata mondiale, un passo decisivo nel ribaltamento della guerra ridotto a fatto criminale. Una follia? Ma è anche una negazione della liberazione. Il fascismo eterno che la libertà annega nella perfidia albionica, sia pure agitato da comunisti o ex. Di che mettere in crisi tutto il castello dei diritti umani.
Ciclo – “Abbiamo comprato in Ucraina, abbiamo rilevato le minoranze di Bank of Austria e Hypovereinsbank, nonché il gruppo Capitalia. Nel momento che era il picco del ciclo. Col senno di poi sarebbe stato meglio aspettare”. Così l’amministratore di Unicredit Profumo commenta la crisi della sua banca in Borsa. Ma sono gli acquisti che conformano il ciclo. Il ciclo non evolve per sue proprie logiche. Troppi acquisti, o acquisti troppo cari, determinano i picchi del ciclo, cioè i punti di svolta. Chi troppo spende s’assottiglia.
Complotto – È idea della politica caratteristicamente intellettuale: per voler ricondurre la politica a disegno, la cosiddetta razionalità.
È sindrome molto mediterranea: la congiura è popolare in Grecia e Italia, come già nell’Ellade e nell’impero romano, ed è agitato furbescamente in Africa, nel Medio oriente, in Turchia, in abito islamico insomma, dove è di regola la dissimulazione (taqiya). È però assente in Spagna e Portogallo. Non è quindi un fatto di Nord\Sud. Può essere il derivato di un assetto psicologico, di quello ce si chiama levantinismo. Un fatto di furbizia, quindi, non di razionalità
Conservatore – Il vero conservatore è realista. Il realista è sempre conservatore?
Ebraismo – Ora che è tornato incontestato, si definisce bizzarramente per differenza, e anzi in polemica. Soprattutto nei confronti del cristianesimo e dell’islam, con i quali ha bene o male potuto convivere.
C’è qualcosa di anomalo in questo ebraismo in guerra col mondo intero, specie con l’uso strumentale dell’Olocausto e dell’antisemitismo, e con il revisionismo all’insegna degli antiquati primati nazionali. Non è fondamentalismo. Non c’è il rifiuto delle esperienze altre. Ma la voglia di opporsi sì, arrogandosi il giudizio – il primato.
Europa – Si discute se è in quanto è – è stata – cristiana. Ma l’Europa è laica, quella moderna e contemporanea: per le guerre, la filosofia, la psicologia. Perfino per la fisiologia: l’europa è sterile, compra i figli e i lavoratori. In realtà l’Europa oggi non è: non ha nozione di sé – un’identità (l’Unione Europea è solo una camera di commercio e una clearing house) e non ha un progetto, tenendosi insicura dietro i buoni-cattivi propositi, un esercizio in sentimentalismo. Non è un deserto, non ancora, ma è arida. È l’effetto della morte di Dio, che è fenomeno tipicamente europeo?
Fascismo – Asor Rosa ha scritto sul “Manifesto” il 6 agosto: “Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo disostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni”. Berlusconi invece “è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell'affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d'onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc)”. È vis polemica? No, Asor Rosa si vuole storico serio. Con Galli della Loggia concorda che “il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani)”. Insomma, ragiona. L’1 ottobre, riprendendo l’argomento sul “Manifesto”, risponde ai critici: “Quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio”.
Non è una novità, il fascismo c’era già per Togliatti nel 1950, per Concetto Marchesi nel 1955, “clerico-americano”, per “l’Unità” e “Paese sera” nel 1969, il “fascismo Fiat” e “il fascismo delle istituzioni”, e ancora dieci anni dopo c’era “il fascismo delle Br”. Intanto era venuto il compromesso storico e la Dc non è più stata fascista. Asor Rosa dev’essere ben piantato in quella stagione, che assolve la Dc e condanna Craxi. Che una sola cosa fece, ridurre l’inflazione dal 20 al 3 per cento, esito non fascista. Avendo per ministro del Tesoro dalla Dc una figura non di primo piano come Goria. E a difesa dall’inflazione portando addirittura il popolo, quando Lama e la Cgil lo sfidarono col referendum.
Il fascismo è in Italia, paese che è stato fascista con convinzione, uno sfondo invadente, che decolora e deforma la realtà. Di chi lo agita e lo usa – il fascista non ne è intaccato. Fascista è l’avversario, che più spesso è il concorrente politico, il “socialfascista”, nel linguaggio della Terza Internazionale, sopravvissuto all’università. Ma questo è molto fascista: chi va in giro a dare del fascista al suo avversario, forte sempre del suo buon diritto. Forse per sentirsi vivo. Magari dopo essere stato propriamente facsista nel suo piccolo, la fila ala posta, il traffico, il lavoro, la famiglia. La demonizzazione dell’avversario è cardine rivoluzionario fascista, la rivoluzione socialista si vuole critica. Lo spettro del fascismo limita fortemente la democrazia: nell’efficienza, o capacità di agire, nella difesa, nel contrasto della corruzione, nella pacificazione. Agitare il fascismo porta al fascismo. È fascismo.
Globalizzazione – Muore per inadempienza: l’incapacità – l’impossibilità? – di garantire la crescita, e anzi di interpretare, meno che meno regolare, la crisi, in atto da quasi due anni. Non c’è l’albero della ricchezza, e non c’è il moto perpetuo, nemmeno in economia. Ma viene criticata per i motivi sbagliati – non ultimo l’illusione di abbatterla con i propri motivi – e cioè retrogradi. La globalizzazione ha portato più ricchezza all’ex Terso mondo, e non meno. Gliene ha anche dato gli strumenti, tecnici e giuridici, fatto politicamente qualificante. Ha ammesso, perfino protetto, la diversità culturale, ce si tratti dell’organetto arcadico, o della civiltà Inca o Maya, nel senso che ha aperto alle popolazioni e alle culture marginalizzate la possibilità di uscire dal folklore e dall’isolamento. Ha imposto – tentato – un livello minimo di diritti umani, che molte culture contestato, in Africa e in Asia. Ha allargato, non ristretto, la protezione della natura e dell’ambiente.
Poteva fare di più, ma non c’è una domanda qualificata. Mentre c’è – c’era – una radicata opposizione: l’istanza antiglobal è contro, nei fatti, la sua enunciazione dottrinale. Il discorso dei mezzi non è secondario. Che si tratti delle seconde case, delle cacche dei cani, dello sperpero delle immense risorse idriche. Dei vincoli dello spirito di clan, in Africa, in Asia. Dei limiti all’autosfruttamento, attraverso l’emigrazione e la sous-traitance.
Riforma – Solo in Italia è un fatto spirituale, dell’uomo che parla con Dio, e una Gestalt positiva, socializzante, un nuovo Secolo Primo dell’era cristiana. Fin dall’inizio la Riforma fu un affare politico, in Germania, Svizzera, Olanda, Francia, a Praga e altrove, per non parlare dell’anglicanesimo. E poi non c’è l’uomo è il suo Dio – c’è, ma in quanto solitudine, benché presuntuosa. La fede socializza nella specie, se non nel gruppo o nella comunità, anche i mistici e gli eremiti sanno di non essere soli.
Si vuole in Italia rigeneratrice la Riforma, che da lungo tempo ormai è sterile, ha disseccato nella grande patria germanica ogni fede – la fede è esercizio residuale da Uppsala e Rotterdam a Tubinga, per teologi.
Antiamericanismo – Non si dissolve con Obama. Non riguarda infatti l’America – tutti sono per gli americani e contro i terroristi mussulmani, anzi contro i mussulmani, piace perfino l’hamburger – ma la libertà e la giusta mercede. L’uguaglianza fa paura – l’uguaglianza nella libertà, garantita e anzi promossa dalla legge. Soprattutto ai notabili delle culture incistate: l’antiamericanismo non è politico o sociale, è culturale. Per questo è possibile stare con Chàvez e Ahmadinejad contro gli Usa.
Contro il "modello Usa" da "bestiame bovino" è forte al fondo in Italia il pregiudizio di Evola, di un mondo che si vorrebbe spiritualista. Che però non lo è, in nessuna misura, tra il pubblico informe della televisone come tra quelle delle librerie Feltrinelli. L’antiamericanismo si può dire, è, la cartina di tornasole del bisogno di libertà, che (non) è un bisogno primario - bisognerebbe aver fatto il passo definitivo, costituzionale, comportamentale, verso un sistema di libertà per porsi congruamente il rispetto della tradizione e della storia.
Si prenda l’abisso italico, che riduce lo sbarco in Sicilia a un fatto di mafia. Con gaudio - la Schadenfreude va ugualmente agli Usa e alla Sicilia. Ma più spesso a opera di siciliani, per una sorta di odio-di-sé meridionale. “Tutti, in Sicilia, (lo) sapevano”, scrive Gaetano Savatteri da ultimo in “La volata di Calò”. Protestando di non crederci, però… “Tutti conoscevano questa storia. Se ne parlava nelle piazze, magari sottovoce. Tutti erano sicuri che fosse andata così, e ancora molti lo sono”. “La volata di Calò” è stata scritta per celebrare una famiglia di industriali isolani, i nipoti di Calogero (“Calò”) Montante, che sono al fronte contro la mafia. Ma della mafia allo scrittore piace dare questa immagine di onnipotenza. Anche perché il libro si regge giusto per questo aneddoto. Dopo il racconto di Camilleri “Una corsa verso la libertà”, che rappresenta gli alleati come truppe di occupazione, con le loro stucchevoli cicche e Lucky Strike.
Un evento di portata mondiale, un passo decisivo nel ribaltamento della guerra ridotto a fatto criminale. Una follia? Ma è anche una negazione della liberazione. Il fascismo eterno che la libertà annega nella perfidia albionica, sia pure agitato da comunisti o ex. Di che mettere in crisi tutto il castello dei diritti umani.
Ciclo – “Abbiamo comprato in Ucraina, abbiamo rilevato le minoranze di Bank of Austria e Hypovereinsbank, nonché il gruppo Capitalia. Nel momento che era il picco del ciclo. Col senno di poi sarebbe stato meglio aspettare”. Così l’amministratore di Unicredit Profumo commenta la crisi della sua banca in Borsa. Ma sono gli acquisti che conformano il ciclo. Il ciclo non evolve per sue proprie logiche. Troppi acquisti, o acquisti troppo cari, determinano i picchi del ciclo, cioè i punti di svolta. Chi troppo spende s’assottiglia.
Complotto – È idea della politica caratteristicamente intellettuale: per voler ricondurre la politica a disegno, la cosiddetta razionalità.
È sindrome molto mediterranea: la congiura è popolare in Grecia e Italia, come già nell’Ellade e nell’impero romano, ed è agitato furbescamente in Africa, nel Medio oriente, in Turchia, in abito islamico insomma, dove è di regola la dissimulazione (taqiya). È però assente in Spagna e Portogallo. Non è quindi un fatto di Nord\Sud. Può essere il derivato di un assetto psicologico, di quello ce si chiama levantinismo. Un fatto di furbizia, quindi, non di razionalità
Conservatore – Il vero conservatore è realista. Il realista è sempre conservatore?
Ebraismo – Ora che è tornato incontestato, si definisce bizzarramente per differenza, e anzi in polemica. Soprattutto nei confronti del cristianesimo e dell’islam, con i quali ha bene o male potuto convivere.
C’è qualcosa di anomalo in questo ebraismo in guerra col mondo intero, specie con l’uso strumentale dell’Olocausto e dell’antisemitismo, e con il revisionismo all’insegna degli antiquati primati nazionali. Non è fondamentalismo. Non c’è il rifiuto delle esperienze altre. Ma la voglia di opporsi sì, arrogandosi il giudizio – il primato.
Europa – Si discute se è in quanto è – è stata – cristiana. Ma l’Europa è laica, quella moderna e contemporanea: per le guerre, la filosofia, la psicologia. Perfino per la fisiologia: l’europa è sterile, compra i figli e i lavoratori. In realtà l’Europa oggi non è: non ha nozione di sé – un’identità (l’Unione Europea è solo una camera di commercio e una clearing house) e non ha un progetto, tenendosi insicura dietro i buoni-cattivi propositi, un esercizio in sentimentalismo. Non è un deserto, non ancora, ma è arida. È l’effetto della morte di Dio, che è fenomeno tipicamente europeo?
Fascismo – Asor Rosa ha scritto sul “Manifesto” il 6 agosto: “Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo disostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni”. Berlusconi invece “è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell'affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d'onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc)”. È vis polemica? No, Asor Rosa si vuole storico serio. Con Galli della Loggia concorda che “il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani)”. Insomma, ragiona. L’1 ottobre, riprendendo l’argomento sul “Manifesto”, risponde ai critici: “Quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio”.
Non è una novità, il fascismo c’era già per Togliatti nel 1950, per Concetto Marchesi nel 1955, “clerico-americano”, per “l’Unità” e “Paese sera” nel 1969, il “fascismo Fiat” e “il fascismo delle istituzioni”, e ancora dieci anni dopo c’era “il fascismo delle Br”. Intanto era venuto il compromesso storico e la Dc non è più stata fascista. Asor Rosa dev’essere ben piantato in quella stagione, che assolve la Dc e condanna Craxi. Che una sola cosa fece, ridurre l’inflazione dal 20 al 3 per cento, esito non fascista. Avendo per ministro del Tesoro dalla Dc una figura non di primo piano come Goria. E a difesa dall’inflazione portando addirittura il popolo, quando Lama e la Cgil lo sfidarono col referendum.
Il fascismo è in Italia, paese che è stato fascista con convinzione, uno sfondo invadente, che decolora e deforma la realtà. Di chi lo agita e lo usa – il fascista non ne è intaccato. Fascista è l’avversario, che più spesso è il concorrente politico, il “socialfascista”, nel linguaggio della Terza Internazionale, sopravvissuto all’università. Ma questo è molto fascista: chi va in giro a dare del fascista al suo avversario, forte sempre del suo buon diritto. Forse per sentirsi vivo. Magari dopo essere stato propriamente facsista nel suo piccolo, la fila ala posta, il traffico, il lavoro, la famiglia. La demonizzazione dell’avversario è cardine rivoluzionario fascista, la rivoluzione socialista si vuole critica. Lo spettro del fascismo limita fortemente la democrazia: nell’efficienza, o capacità di agire, nella difesa, nel contrasto della corruzione, nella pacificazione. Agitare il fascismo porta al fascismo. È fascismo.
Globalizzazione – Muore per inadempienza: l’incapacità – l’impossibilità? – di garantire la crescita, e anzi di interpretare, meno che meno regolare, la crisi, in atto da quasi due anni. Non c’è l’albero della ricchezza, e non c’è il moto perpetuo, nemmeno in economia. Ma viene criticata per i motivi sbagliati – non ultimo l’illusione di abbatterla con i propri motivi – e cioè retrogradi. La globalizzazione ha portato più ricchezza all’ex Terso mondo, e non meno. Gliene ha anche dato gli strumenti, tecnici e giuridici, fatto politicamente qualificante. Ha ammesso, perfino protetto, la diversità culturale, ce si tratti dell’organetto arcadico, o della civiltà Inca o Maya, nel senso che ha aperto alle popolazioni e alle culture marginalizzate la possibilità di uscire dal folklore e dall’isolamento. Ha imposto – tentato – un livello minimo di diritti umani, che molte culture contestato, in Africa e in Asia. Ha allargato, non ristretto, la protezione della natura e dell’ambiente.
Poteva fare di più, ma non c’è una domanda qualificata. Mentre c’è – c’era – una radicata opposizione: l’istanza antiglobal è contro, nei fatti, la sua enunciazione dottrinale. Il discorso dei mezzi non è secondario. Che si tratti delle seconde case, delle cacche dei cani, dello sperpero delle immense risorse idriche. Dei vincoli dello spirito di clan, in Africa, in Asia. Dei limiti all’autosfruttamento, attraverso l’emigrazione e la sous-traitance.
Riforma – Solo in Italia è un fatto spirituale, dell’uomo che parla con Dio, e una Gestalt positiva, socializzante, un nuovo Secolo Primo dell’era cristiana. Fin dall’inizio la Riforma fu un affare politico, in Germania, Svizzera, Olanda, Francia, a Praga e altrove, per non parlare dell’anglicanesimo. E poi non c’è l’uomo è il suo Dio – c’è, ma in quanto solitudine, benché presuntuosa. La fede socializza nella specie, se non nel gruppo o nella comunità, anche i mistici e gli eremiti sanno di non essere soli.
Si vuole in Italia rigeneratrice la Riforma, che da lungo tempo ormai è sterile, ha disseccato nella grande patria germanica ogni fede – la fede è esercizio residuale da Uppsala e Rotterdam a Tubinga, per teologi.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (25)
Giuseppe Leuzzi
Il progresso e la cultura sono a Milano a ottobre del 2008 “La vedova allegra” alla Scala, che commuove i migliori critici. Con spolvero di Mitteleuropa. E Beckham al Milan. Che Londra rifiuta: non vi è più buono nemmeno per il gossip. L’Italia sarà pure un outlet, e un emporio di roba usata. Ma sempre Milano ci rivende merce scaduta.
“Panorama” rende pubbliche le magagne dell’università di Siena. Il “Corriere della sera” non è da meno, e rende note quelle già note dell’università di Messina. Siena ha sperperato 250 milioni di euro, a favore di amici, parenti e compagni. Ma Messina fa peggio: vuole spendere 80 mila euro per un quadro sul terremoto del 1908.
I milioni non sono migliaia, ma non fa nulla, il “Corriere” ha la penna brillante di Gian Antonio Stella, che del malaffare al Sud sa tutto, e questo basti. Non c’è solo Siena infatti: il Grande Scrittore Stella trova il modo di citare anche Salerno e Teramo, seppure per spese più veniali, quasi alla nostra portata. Tenendosi, rigoroso, sotto il muro di Ancona - Siena non ci sarà nel gornale, s‘immagina, per essere sopra il muro.
Naturalmente ci sono molti giudici a Messina, Salerno e Teramo, per indagare su questi sprechi di migliaia di euro. E anche questo è un aspetto del fatto. Mentre non ci sono giudici a Siena.
Si uccidono a Napoli per caso bambini e giovani mamme, con la giusta esecrazione del “Mattino”, del sindaco e del prefetto, senza emozione. Si uccidono dei camorristi tra di loro, ed è un gran teatro, di come, dove, ci, comprese le fidanzate, le mamme, le nonne, l’intera Italia si sconvolge, si chiede la pena di morte, il governo manda l’esercito.
Si arrestano i sindaci della Piana di Gioia Tauro. Il presidente della Regione Calabria Loiero non si dice sorpreso al Tg 1, “di fronte alla criminalità più potente del pianeta”. Vero o falso? Falso. Ma Loiero è su piazza da trent’anni.
A Taormina sotto un sole di agosto specialmente caldo, molti uomini si aggiravano in tight, con tubino, uno anche con i chiwawa da grembo in braccio. Sono convitati a un matrimonio che si celebra nella chiesa patronale, per poter fare il ricevimento al San Domenico. Sono di Reggio Calabria.
Discorso sulla mafia
La mafia non diventa ceto dirigente per le sue intrinseche debolezze: è questo il punto di vista più proficuo sulla mafia. La mafia si distingue nella storia del crimine per non aver mai raggiunto la legittimazione sociale e politica. Altre forme di criminalità economica si sono legittimate: dall’usura (le grandi famiglie, italiane, tedesche, fiamminghe di fine Medio Evo) ai condottieri, che erano banditi di strada, ai robber barrons che hanno fatto rande il capitale americane di fine Ottocento, alle guerre di corsa, ai mercanti di schiavi, ai ladri di bestiame. Buona parte delle origini del capitali è di natura delittuosa. Mai però mafiosa.
Non si potrebbe pensare a un’Australia colonizzata dai mafiosi. I Borboni hanno creato Castellace, nell’agro di Oppido Mamertina, trasferendovi dei carcerati, ma la composizione e la natura sociale del borgo non è cambiata nei suoi due secoli, di vendette e latrocini perpetrati talvolta a danno di estranei ma sempre consumati in faide. Dove accidentalmente la mafia ha raggiunto posizioni di potere, in Sicilia più volte, a Brooklin, a Perth in Australia, a Hamilton in Canada, e ora nella provincia di Reggio Calabria, nei circondari di Palmi e di Locri, rapidamente le perde in micidiali guerre intestine.
Il motivo è l’indigenza dei mafiosi, morale prima che economica: bisogna essere stupidi, o abietti, per essere mafiosi. È d’uso celebrare una “vecchia mafia” dotata di virtù. Le riflessioni sulla mafia hanno due vizi. Uno è degli studiosi che finiscono per magnificare, non inevitabilmente, l’oggetto il loro oggetto. Un altro è degli scrittori, fino a Sciascia compreso, vittime della retorica dell’orrore, per cui non si può dire bene della mafia – essa non lo consente – ma si può inventarne un’altra, di anziani saggi che amministravano la giustizia.
Solo sul finire del Novecento e in questo secolo la mafia si è avvicinata a qualcosa che si può definire legittimazione. Attraverso i media e, paradossalmente, l’antimafia, dei giudici e dei politici. L’editoria, il cinema e la stampa hanno costruito attorno ai mafiosi, anche ai più rozzi, epopee e fortune. Da molte stagioni ormai i libri di mafia sono best-seller. Sfruttando l’uso dei pentiti, da parte di procuratori dotati di fantasia, per costruire racconti impensabili (i dessous della storia) più che per testimoniare la (propria) violenza. Mentre la semplice idea di Falcone, di una magistratura inquirente specializzata in questioni di mafia, come c’è quella per il diritto di famiglia, per i minori, per i delitti economici, è tralignata presto in quello che Sciascia aveva preventivato: la lotta alla mafia a uso di carriera, a opera degli inquirenti (giudici, ufficiali, prefetti), dei politici, e dei professionisti dell’antimafia nelle varie associazioni, onlus, fondazioni, tutte in qualche modo pagate dallo stato. È in questo contesto che la mafia diventa per la prima volta soggetto sociale. In Calabria e in Sicilia è anzi in molte scuole primarie un pezzo di storia, l’unica conosciuta dai ragazzi attraverso i libri largamente forniti dallo Stato per senso civico, di Violante, Biagi e altri nobili autori.
La mafia non si acquista un potere, né se lo costruisce. Nelle sue farneticazioni Riina, l’uomo delle innumerevoli stragi terroristiche, di politici, magistrati, prefetti, semplici agenti e perfino di opere d’arte, ha potuto pensare di governare attraverso i comunisti. Ammazzando i giudici a loro invisi. Il mafioso è nei fatti violento, corrotto, traditore, impermeabile a ogni forma di cultura o convivenza. Non ha un progetto, né un ordine da imporre, e finisce sempre in carcere o in una faida.
La mafia ha il potere che le danno gli studiosi e i carabinieri. Nessuna mafia ha mai retto a un’azione di contrasto costante, applicata. Non con i metodi del prefetto Mori, basta un sostituto procuratore che abbia un po’ di sangue nelle vene oltre alle pandette – i mafiosi temono i carabinieri e non i giudici perché quelli sanno di che si parla.
Si contavano mille pentiti di mafia quindici ani fa, quando la protezione venne estesa ai collaboratori di giustizia antimafia, e duemila di camorra. Questo per il senso dell’onore.
Il controllo del territorio è l’arma letale che si attribuisce alla mafia. Abbraccia il familismo, l’omertà e altre sottigliezze sociologiche. E porta al controllo della politica, dell’economia, dei battesimi e delle comunioni. Ma la lotta vera alla mafia sarebbe la cassaforte di ogni politica, plebisciti ne nascerebbero. Della lotta vera alla mafia, cioè dei carabinieri, non dei poeti dell’antimafia, di cui i Comuni e i ministeri comprano ampie tirature.
Il progresso e la cultura sono a Milano a ottobre del 2008 “La vedova allegra” alla Scala, che commuove i migliori critici. Con spolvero di Mitteleuropa. E Beckham al Milan. Che Londra rifiuta: non vi è più buono nemmeno per il gossip. L’Italia sarà pure un outlet, e un emporio di roba usata. Ma sempre Milano ci rivende merce scaduta.
“Panorama” rende pubbliche le magagne dell’università di Siena. Il “Corriere della sera” non è da meno, e rende note quelle già note dell’università di Messina. Siena ha sperperato 250 milioni di euro, a favore di amici, parenti e compagni. Ma Messina fa peggio: vuole spendere 80 mila euro per un quadro sul terremoto del 1908.
I milioni non sono migliaia, ma non fa nulla, il “Corriere” ha la penna brillante di Gian Antonio Stella, che del malaffare al Sud sa tutto, e questo basti. Non c’è solo Siena infatti: il Grande Scrittore Stella trova il modo di citare anche Salerno e Teramo, seppure per spese più veniali, quasi alla nostra portata. Tenendosi, rigoroso, sotto il muro di Ancona - Siena non ci sarà nel gornale, s‘immagina, per essere sopra il muro.
Naturalmente ci sono molti giudici a Messina, Salerno e Teramo, per indagare su questi sprechi di migliaia di euro. E anche questo è un aspetto del fatto. Mentre non ci sono giudici a Siena.
Si uccidono a Napoli per caso bambini e giovani mamme, con la giusta esecrazione del “Mattino”, del sindaco e del prefetto, senza emozione. Si uccidono dei camorristi tra di loro, ed è un gran teatro, di come, dove, ci, comprese le fidanzate, le mamme, le nonne, l’intera Italia si sconvolge, si chiede la pena di morte, il governo manda l’esercito.
Si arrestano i sindaci della Piana di Gioia Tauro. Il presidente della Regione Calabria Loiero non si dice sorpreso al Tg 1, “di fronte alla criminalità più potente del pianeta”. Vero o falso? Falso. Ma Loiero è su piazza da trent’anni.
A Taormina sotto un sole di agosto specialmente caldo, molti uomini si aggiravano in tight, con tubino, uno anche con i chiwawa da grembo in braccio. Sono convitati a un matrimonio che si celebra nella chiesa patronale, per poter fare il ricevimento al San Domenico. Sono di Reggio Calabria.
Discorso sulla mafia
La mafia non diventa ceto dirigente per le sue intrinseche debolezze: è questo il punto di vista più proficuo sulla mafia. La mafia si distingue nella storia del crimine per non aver mai raggiunto la legittimazione sociale e politica. Altre forme di criminalità economica si sono legittimate: dall’usura (le grandi famiglie, italiane, tedesche, fiamminghe di fine Medio Evo) ai condottieri, che erano banditi di strada, ai robber barrons che hanno fatto rande il capitale americane di fine Ottocento, alle guerre di corsa, ai mercanti di schiavi, ai ladri di bestiame. Buona parte delle origini del capitali è di natura delittuosa. Mai però mafiosa.
Non si potrebbe pensare a un’Australia colonizzata dai mafiosi. I Borboni hanno creato Castellace, nell’agro di Oppido Mamertina, trasferendovi dei carcerati, ma la composizione e la natura sociale del borgo non è cambiata nei suoi due secoli, di vendette e latrocini perpetrati talvolta a danno di estranei ma sempre consumati in faide. Dove accidentalmente la mafia ha raggiunto posizioni di potere, in Sicilia più volte, a Brooklin, a Perth in Australia, a Hamilton in Canada, e ora nella provincia di Reggio Calabria, nei circondari di Palmi e di Locri, rapidamente le perde in micidiali guerre intestine.
Il motivo è l’indigenza dei mafiosi, morale prima che economica: bisogna essere stupidi, o abietti, per essere mafiosi. È d’uso celebrare una “vecchia mafia” dotata di virtù. Le riflessioni sulla mafia hanno due vizi. Uno è degli studiosi che finiscono per magnificare, non inevitabilmente, l’oggetto il loro oggetto. Un altro è degli scrittori, fino a Sciascia compreso, vittime della retorica dell’orrore, per cui non si può dire bene della mafia – essa non lo consente – ma si può inventarne un’altra, di anziani saggi che amministravano la giustizia.
Solo sul finire del Novecento e in questo secolo la mafia si è avvicinata a qualcosa che si può definire legittimazione. Attraverso i media e, paradossalmente, l’antimafia, dei giudici e dei politici. L’editoria, il cinema e la stampa hanno costruito attorno ai mafiosi, anche ai più rozzi, epopee e fortune. Da molte stagioni ormai i libri di mafia sono best-seller. Sfruttando l’uso dei pentiti, da parte di procuratori dotati di fantasia, per costruire racconti impensabili (i dessous della storia) più che per testimoniare la (propria) violenza. Mentre la semplice idea di Falcone, di una magistratura inquirente specializzata in questioni di mafia, come c’è quella per il diritto di famiglia, per i minori, per i delitti economici, è tralignata presto in quello che Sciascia aveva preventivato: la lotta alla mafia a uso di carriera, a opera degli inquirenti (giudici, ufficiali, prefetti), dei politici, e dei professionisti dell’antimafia nelle varie associazioni, onlus, fondazioni, tutte in qualche modo pagate dallo stato. È in questo contesto che la mafia diventa per la prima volta soggetto sociale. In Calabria e in Sicilia è anzi in molte scuole primarie un pezzo di storia, l’unica conosciuta dai ragazzi attraverso i libri largamente forniti dallo Stato per senso civico, di Violante, Biagi e altri nobili autori.
La mafia non si acquista un potere, né se lo costruisce. Nelle sue farneticazioni Riina, l’uomo delle innumerevoli stragi terroristiche, di politici, magistrati, prefetti, semplici agenti e perfino di opere d’arte, ha potuto pensare di governare attraverso i comunisti. Ammazzando i giudici a loro invisi. Il mafioso è nei fatti violento, corrotto, traditore, impermeabile a ogni forma di cultura o convivenza. Non ha un progetto, né un ordine da imporre, e finisce sempre in carcere o in una faida.
La mafia ha il potere che le danno gli studiosi e i carabinieri. Nessuna mafia ha mai retto a un’azione di contrasto costante, applicata. Non con i metodi del prefetto Mori, basta un sostituto procuratore che abbia un po’ di sangue nelle vene oltre alle pandette – i mafiosi temono i carabinieri e non i giudici perché quelli sanno di che si parla.
Si contavano mille pentiti di mafia quindici ani fa, quando la protezione venne estesa ai collaboratori di giustizia antimafia, e duemila di camorra. Questo per il senso dell’onore.
Il controllo del territorio è l’arma letale che si attribuisce alla mafia. Abbraccia il familismo, l’omertà e altre sottigliezze sociologiche. E porta al controllo della politica, dell’economia, dei battesimi e delle comunioni. Ma la lotta vera alla mafia sarebbe la cassaforte di ogni politica, plebisciti ne nascerebbero. Della lotta vera alla mafia, cioè dei carabinieri, non dei poeti dell’antimafia, di cui i Comuni e i ministeri comprano ampie tirature.
mercoledì 5 novembre 2008
Il presidente alieno e la scoperta dell'America
È morto l’antiamericanismo. Sarà questo l’effetto maggiore delle elezioni americane sull’Europa latina, l’Italia in primo luogo, la Francia, la Spagna. Non negativo, se libera il giudizio dal pregiudizio. Si moltiplicano le meraviglie e le lodi dell’America, un paese che in massa, pagando di tasca propria, si è scelto un presidente giovane e solo, e per di più nero. Votandolo poi compatta, anche i bianchi, latini e ebrei inclusi. Uno che in Italia, dice Toni Morrison, romanziera premio Nobel, ancora aspetterebbe la cittadinanza. Quello che farà Obama da presidente sarà un altro discorso: probabilmente farà bene, forse farà male, ma da uomo che entra nella normalità politica. Ora è importante scoprire che mezza Europa, Italia compresa, riconosce infine l’America democratica, sessanta e oltre anni dopo esserne stata liberata dai suoi fascismi. Obama ha già fatto un miracolo.
Altri però non sono da escludere. Chi ha visto la Cnn zigzagando col telecomando la notte di martedì ha percepito la verità di queste elezioni. Per effetto di una giornalista che, stando a Chicago, era presente in studio a Washington. E parlava, si muoveva, gesticolava, come se ci fosse. Clonizzata. La sua figura era ricostituita punto per punto sull’immagine piatta come fanno i fonditori sui modellini degli scultori, grazie alle macchine elettroniche che hanno sostituito la cinepresa. Obama ha vinto come un alieno sul mondo infetto. Spazzando via i concorrenti, e più nelle primarie contro Hillary Clinton, che nella competizione contro McCain. Un candidato solo, fuori dell’establishment, e da tutti i pronostici, senza ricette miracolose, anzi prosaicamente impegnato a non fare promesse, ha imposto la necessità di sé. Raccogliendo più fondi di qualsiasi altro candidato mai alla presidenza, una montagna di piccole somme, un centinaio, o qualche diecina, di dollari a testa. Ed è questo di lui che lascia esterrefatto, o appassionato, il mondo, non il presidente giovane e nero. Come una apparizione, se non un messo di un altro mondo.
Ma la sua vera vittoria è stata nelle primarie. Sponsorizzato da Edward Kennedy, parte non piccola del gruppo di potere democratico, pe un motivo preciso: era il candidato ideale, per età, figura, storia familiare, e parla anche preciso e perfetto come un modello. Era un vincente perfetto contro l'anziano McCain - che con la stagionata Hillary se la sarebbe giocata alla pari - e lo è stato. Ha puntato sul carisma divistico che fa, bene e male, la cifra e la misura della cultura americana, ed ha sfondato. Ora è presidente, che in America significa che dovrà pensare e decidere da solo, e questo resta tutto da scoprire.
Altri però non sono da escludere. Chi ha visto la Cnn zigzagando col telecomando la notte di martedì ha percepito la verità di queste elezioni. Per effetto di una giornalista che, stando a Chicago, era presente in studio a Washington. E parlava, si muoveva, gesticolava, come se ci fosse. Clonizzata. La sua figura era ricostituita punto per punto sull’immagine piatta come fanno i fonditori sui modellini degli scultori, grazie alle macchine elettroniche che hanno sostituito la cinepresa. Obama ha vinto come un alieno sul mondo infetto. Spazzando via i concorrenti, e più nelle primarie contro Hillary Clinton, che nella competizione contro McCain. Un candidato solo, fuori dell’establishment, e da tutti i pronostici, senza ricette miracolose, anzi prosaicamente impegnato a non fare promesse, ha imposto la necessità di sé. Raccogliendo più fondi di qualsiasi altro candidato mai alla presidenza, una montagna di piccole somme, un centinaio, o qualche diecina, di dollari a testa. Ed è questo di lui che lascia esterrefatto, o appassionato, il mondo, non il presidente giovane e nero. Come una apparizione, se non un messo di un altro mondo.
Ma la sua vera vittoria è stata nelle primarie. Sponsorizzato da Edward Kennedy, parte non piccola del gruppo di potere democratico, pe un motivo preciso: era il candidato ideale, per età, figura, storia familiare, e parla anche preciso e perfetto come un modello. Era un vincente perfetto contro l'anziano McCain - che con la stagionata Hillary se la sarebbe giocata alla pari - e lo è stato. Ha puntato sul carisma divistico che fa, bene e male, la cifra e la misura della cultura americana, ed ha sfondato. Ora è presidente, che in America significa che dovrà pensare e decidere da solo, e questo resta tutto da scoprire.
"Economist" e "Ft" a guardia dei ladri
In un’intervista perfetta con Federico De Rosa sul “Corriere” domenica Ruggero Magnoni ha spiegato la verità del crack bancario. Riguarda le banche d’affari. Riguarda alcune di esse, Lehman Brothers è la più importante, che il governo americano ha sacrificato. Mentre Merrill Lynch è stata salvata dallo stesso governo, anche se a un costo tre volte superiore. E Goldman Sachs ci ha guadagnato. Goldman Sachs è la banca d’affari da cui proviene il ministero del Tesoro Usa, Paulson, che ha gestito fallimenti e salvataggi.
La crisi non è quella dei mutui, quella era stata a tutti gli effetti assorbita. La crisi è delle banche d’affari e dei loro innumerevoli brokerages, nei quali tutto il mondo è coinvolto. Lo strapotere, finito della polvere, delle banche d’affari Usa è derivato dalla loro abilità di trovare “la soluzione a ogni esigenza finanziaria”, e dalla libertà loro colpevolmente concessa di fare “tutto, dallo advisory, al brokerage, al credito, ai derivati, agli hedge fund, alle analisi”. Non è l’ultimo motivo per cui l’America ha votato massicciamente contro i repubblicani di Bush.
Ma la colpa non è di Bush, o perlomeno non solo del presidente uscente, degli affaristi che ha imbarcato al governo. Le banche d’affari sono sempre con noi. Impegnate in questo momento nella redazione delle nuove regole, che dovrebbe partire col vertice di Washington la settimana prossima. In Europa il loro ruolo è del resto inalterato. Anche perché esse mantengono un ruolo condizionante anche nell’informazione economica. In paesi deboli nell’informazione come l’Italia, e in quelli forti.
Sono le banche d’affari che pilotano, con le indiscrezioni, giornali forti come il “Financial Times” e l’“Economist”. Il fatto è notorio. Ed è riscontrabile: ogni campagna d’informazione si rivelerà, a uno-due mesi, opera di una o più banche di affari contro altre, quella che avevano in mano l’affare da sabotare o da conquistare. Oppure si può vedere leggendo il non detto.
Si continua a rubare
Si risollevano le sorti politiche di Brown in Inghilterra perché è intervenuto prima e più rapidamente di ogni altro a salvare le grandi banche. Col pauso delle vestali del mercato, “Economist” e “Financial Times”. Senza un cenno di autocritica dei due giornali. Che sono fatti dalle banche d’affari, e dai compari di queste banche, gli istituti di rating. Dai grandi ladri all’origine degli ammanchi senza precedenti che hanno svuotato il mercato. E porteranno a una reazione a catena di fallimenti, non esclusi le stesse vestali del mercato e della dirittura morale, “Economist” e “Financial Times”. Ma senza allarmi, né mea culpa.
Che il senso morale britannico sia jingoista, si sapeva: Londra è la migliore. Ma che il nocciolo della corruzione sia ancora protetto significa che la crisi, per quanto grave, lascia inalterato l’assetto degli affari. Si rubava, cioè, e si continua a rubare.
La crisi non è quella dei mutui, quella era stata a tutti gli effetti assorbita. La crisi è delle banche d’affari e dei loro innumerevoli brokerages, nei quali tutto il mondo è coinvolto. Lo strapotere, finito della polvere, delle banche d’affari Usa è derivato dalla loro abilità di trovare “la soluzione a ogni esigenza finanziaria”, e dalla libertà loro colpevolmente concessa di fare “tutto, dallo advisory, al brokerage, al credito, ai derivati, agli hedge fund, alle analisi”. Non è l’ultimo motivo per cui l’America ha votato massicciamente contro i repubblicani di Bush.
Ma la colpa non è di Bush, o perlomeno non solo del presidente uscente, degli affaristi che ha imbarcato al governo. Le banche d’affari sono sempre con noi. Impegnate in questo momento nella redazione delle nuove regole, che dovrebbe partire col vertice di Washington la settimana prossima. In Europa il loro ruolo è del resto inalterato. Anche perché esse mantengono un ruolo condizionante anche nell’informazione economica. In paesi deboli nell’informazione come l’Italia, e in quelli forti.
Sono le banche d’affari che pilotano, con le indiscrezioni, giornali forti come il “Financial Times” e l’“Economist”. Il fatto è notorio. Ed è riscontrabile: ogni campagna d’informazione si rivelerà, a uno-due mesi, opera di una o più banche di affari contro altre, quella che avevano in mano l’affare da sabotare o da conquistare. Oppure si può vedere leggendo il non detto.
Si continua a rubare
Si risollevano le sorti politiche di Brown in Inghilterra perché è intervenuto prima e più rapidamente di ogni altro a salvare le grandi banche. Col pauso delle vestali del mercato, “Economist” e “Financial Times”. Senza un cenno di autocritica dei due giornali. Che sono fatti dalle banche d’affari, e dai compari di queste banche, gli istituti di rating. Dai grandi ladri all’origine degli ammanchi senza precedenti che hanno svuotato il mercato. E porteranno a una reazione a catena di fallimenti, non esclusi le stesse vestali del mercato e della dirittura morale, “Economist” e “Financial Times”. Ma senza allarmi, né mea culpa.
Che il senso morale britannico sia jingoista, si sapeva: Londra è la migliore. Ma che il nocciolo della corruzione sia ancora protetto significa che la crisi, per quanto grave, lascia inalterato l’assetto degli affari. Si rubava, cioè, e si continua a rubare.
Letture - 2
letterautore
Baudelaire - Ha straordinaria, costante, carica positiva, benché i suoi temi siano il peccato, il male, la malattia, la morte. Quanto pessimista, al confronto, l’entusiasmo di Rimbaud, e non per la vicenda umana.
Dante – Si può leggere “La Vita Nuova” come un romanzo fantasmatico: la proposta di un’ubbia prima che diventi una psicosi. Con una donna lontana, intangibile.
Vernon Lee, cui “La vita nuova” ha suggerito il racconto lungo “A Phantom Lover”, e un saggio su Dante tra Medio Evo e Rinascimento, è piuttosto del parere che la passione di Dante per Beatrice nasce da un amore appassionato e non casto. Insomma reale. “La Vita Nuova” allora non sarebbe fantasmatico. Anche il personaggio del racconto, una signora che vive tra i fantasmi, ritiene l’amore della “Vita Nuova” possibile: “Molto raro, ma può esistere”. Meritandosi però dall’alter ego della scrittrice questo rimbrotto: “Ho paura che avete letto molta letteratura buddista”. Che apre un nuovo filone di esegesi, bisognerà rifare lo Scartazzini.
Si può dirlo vittima della Bibbia. Dell’esegetica biblica, del testo, la lettera, l’allegoria, la morale, la metafora, l’anagogia, la tropologia. Moltiplicata laicamente dall’università.
Franco Cordelli scrive di “Dante, Benigni e i fiorini” sul “Corriere della sera”oggi 5 novembre: «”Dante è un poeta eterno”. Lui lo ha sempre sentito come un suo amico. “Qualunque cosa si dica su Dante va bene, perché è un contributo che diamo alla poesia, alla bellezza, alla gioia di vivere”. Ma, chiediamoci, “questo Dante Alighieri,chi era?”. In effetti, su Dante si sa davvero poco. D lui non è rimasta una firma, un’orma, il numero di scarpe, la taglia del vestito”. A prescindere dal fatto che erano altri tempi, quando Dante scrisse la Divina Commedia, era “giovane giovane”, era “uno che portava perfino dei bei pantaloni allegri e colorati”. Lui, nulla sa dell’eterno poeta, questo particolare lo sa. Perché e come? Perché nel Medioevo, “che a torto viene descritto come un periodo buio e tremendo”, al contrario “si usavano molto i colori”. Il Medioevo, dice, “era un epoca spettacolare: Firenze era la Wall Street del Duecento”. Per lui, Roberto Benigni, con ogni evidenza, colori, bellezza, eternità, lo spettacolo insomma – tutto qui confluisce, “nel fiorino he era una monta fortissima”.
Cordelli trascrive Benigni sembra con sarcasmo. Perché?
L’“Inferno” è una galleria di orrori, da museo della tortura. Voltaire diceva per questo Dante un pazzo e la sua opera “mostruosa”. Come lo pensava il figlio Pietro. L’“Inferno” è il suo giudizio universale, su cui Dante siede quale Dio vendicativo, temperato solo per la forma dal timorato Virgilio. Lo sfogo di un uomo solo, e senza futuro, che non ha affetti, e forse più nemmeno amici. Tollerato dai mecenati appunto che perché pazzo, cioè poeta.
Nel 1865 l’università di Harvard minacciò di togliere le commesse e i fondi al suo editore se avesse pubblicato la traduzione della "Commedia" che Longfellow andava a terminare, la prima in America, col contributo di James Lowell e Oliver Holmes. Benché Longfellow fosse stato a lungo professore alla stessa università. È il plot di “Il circolo Dante”, un giallo, ma è vero. Il poema non andava pubblicato tradotto per essere Dante medievale, scolastico, cattolico. E il poema una commedia, scritta in volgare anziché dottamente in latino, e a lieto fine.
C’è una lettura volgare della “Commedia” quale luogo di turpidini e anche oscena, di violenza, il genere horror, non disprezzabile – anche se lettura, fatalmente, da romanzo popolare.
Delfino – Antonio, morto il mese scorso, era scrittore pieno di umori della “montagna”, l’Aspromonte, ai cui piedi era nato e viveva. Di lui aveva già detto Corrado Alvaro, l’autore suo conterraneo (entrambi sono di San Luca) e prediletto, nel primo numero de “L’Espresso”, il 2 ottobre 1955: “I calabresi sono, con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia delle cose, specie nelle faccende ufficiali”.
Dumas – È narratore, felice, disincarnato. Attraverso l’ironia, l’accumulo,la sproporzione: prende le distanze dalla realtà che crea, a differenza di un Hugo, uno Stendhal, di Thomas Mann, Proust, Céline, che la loro stessa narrazione emoziona. Dumas vi si rappresenta, per il gusto del teatro – lo stesso che ne fa la tecnica: stacchi, sorprese, accelerazioni, rallentamenti.
Più istruttiva è la sua differenza da Balzac, che ha lo stesso gusto disincanato della narrazione, ma da “sociologo” (giornalista) e non da teatrante.
O si racconta meglio, con più inventiva e sveltezza, avendo i creditori alla porta? Che si può immaginare al contrario: si hanno i creditori alla porta per essere narratori.
Gobetti – Disse liberale, cioè anarchica, la rivoluzione leninista. Ma voleva dire bolscevica.
Manzoni – È – sarà – il primo scrittore del nulla. È uno storico, nei “Promessi sposi” non c’è alcuna traccia del sacro. Vi è indotta, da padre Angelini e la Morcelliana, e per la trentennale o quarantennale sua applicazione a qualche inno sacro, applicazione cioè faticosa, ma non c’è nel romanzo. Nemmeno nelle lunghe scene di morte.
Uno che non ha amato le mogli, e neppure le figlie, e forse odiava la madre – la disprezzava. Come Tolstòj, che però era appassionato, non contava le virgole.
Il romanzo storico è invenzione, è un romanzo. Ma è esso stesso parte della storia. E più quando è inventato.
La filologia di Manzoni è doppiamente dubbia. Il suo Seicento è il suo pessimismo, la fede critica o incerta, il Risorgimento (antispagnolismo), la pietà lombarda. La sua presa durevole è certo l’ideologia. Ma con le pezze d’appoggio della storia: è arduo repertoriarlo nell’invenzione. Questo è il difetto del romanzo ma fa l’ideologia italiana.
I romanzi storici di Walter Scott sono totalmemte d’invenzione, e per questo popolari senza essere insegnati a scuola, godibili. Sono anch’essi opera ideologica, andando incontro alle pulsioni dell’epoca: la formazione dell’eroe imperiale britannico, sotto le vesti del Robin Hood liberatore (imperialismo), l’invenzione della tradizione scozzese (nazionalismo), l’insularità (superiorità). Ma più sono opere di storia in quanto abbelliscono e propagandano un essere-che-non-c’è, la voglia d’illudersi.
Sciascia – Di Sciascia dice Matteo Collura, “Il maestro di Regalpetra”, 174: “Il sentire siciliano ne affilerà lo scetticismo”. Marc Ambroise, che ne collaziona le opere: “La sua è l’eresia dell’eresia”. Insomma il pessimismo. Del pessimismo, “di cui tanto si parla a mio carico”, diceva lo stesso Sciascia. E anche: “Che colpa ha lo specchio, diceva Gogol, se i nostri visi sono storti? Ma anche lui è causa della sua stessa febbre”.
Sciascia non era pessimista: lui riteneva che la mafia si potesse sconfiggere – che la Sicilia potesse e volesse sconfiggere la mafia. Fatalista è il Gattopardo. Sciascia criticava la politica nei fatti: il fascismo, l’occupazione americana, la Dc regionale (ma non Reina, Mattarella figli, Nicolosi) e nazionale, anche il Pci. Fece da deputato un buon lavoro, pragmatico, efficace.
La colpa di Sciascia può essere un’altra: la sua giustizia – “Il Contesto” – è metafisica. La giustizia sono i giudici, la categoria più corrotta dell’Italia corrotta.
La “linea della palma” che sale e occupa l’Italia, e anzi il mondo, è in buona parte opera di Sciascia. La chiave la dà egli stesso a Marcelle Padovani, nel libro dallo stesso titolo, 1979: “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me. Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e «dal di dentro»; il mio «essere siciliano» soffre indicibilmente del gioco dei massacro che perseguo”. Questo è perfetto, è l’attrattiva di Sciascia, ed è detto perfettamente. Ma poi Sciascia continua: “Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro perché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso”. E questo è logicamente assurdo, oltre che ingiusto – il sentire siciliano è sentire mafioso?
Ci si può chiedere in che mondo Sciascia – lo scrittore siciliano – viva. O il suo pessimismo è di maniera, dell’Autore che gioca alla decadenza – gioca, perché di suo è fertile, creativo, operoso. Da “traggediatore” siciliano, che col disprezzo del mondo se ne fa padrone? Ma Sciascia non si diverte. Potrebbe invece essere semplicemente il provinciale, Sciascia sta bene a Parigi, benissimo, che la sua insoddisfatta condizione proietta sul mondo. Ma questo è la questione Sciascia, della lettura dell’opera e dello scrittore, non della mafia.
Condivide però anch’egli una concezione della mafia sbagliata. Per tre motivi. 1) La mafia non ha nulla a che vedere con la giustizia. Né la mafia antica né quella nuova. La mafia è legata all’interesse, quindi alla sopraffazione e alla violenza. In tutt’e tre le sue espressioni, la mafia propriamente detta, la ‘ndrangheta e la camorra. In Italia e all’estero. Non c’è lealtà nella mafia se non c’è la convenienza, né c’è amicizia o riconoscimento del bene fatto. I mafiosi hanno sempre tradito senza angosce per interesse – anche prima della legge che premia i pentiti. La vecchia ‘ndrangheta, fino agli anni 1950, si dava un cerimoniale legato alla giustizia, ma era solo violenta, soprattutto al suo interno. 2) Non c’è omertà, le società locali non sono legate alla mafia. Nemmeno le parentele, se non al livello infimo della società. C’è una denuncia continua, febbrile, perfino paranoica, dei soprusi, un tentativo costante di venirne a capo senza rimetterci l’anima. Non c’è molta attesa nei carabinieri e nei giudici, a parte le denunce d’obbligo, ma non si vede il perché: l’omertà consente a giudici e carabinieri in Calabria, Sicilia e Campania di non far nulla in attesa che il denunciante dimostri anzitutto di non essere mafioso. Chiunque ne ha avuto anche minima esperienza, per un furto d’auto o un “dispetto”, lo sa. 3) La mafia non è un fatto culturale, è un fenomeno criminale. Non c’è in tutta la Sicilia, in tutta la Calabria o in tutto il napoletano. La Sicilia ha una grande cultura urbana che ne rifugge. Metà dell’isola ne è stata esente fino agli anni Cinquanta. Ha un vasto ceto imprenditoriale e forti capitali che ne vanno immuni. Ha zone industriali importanti, dell’informatica, dell’auto, della petrolchimica, nonché dell’agricoltura (agrumi, primizie, vino) e dell’agroindustria, e del turismo che ne sono esenti. In Campania se si esce dal triangolo Napoli-Baia-Caserta non c’è alcuna cultura dell’illegalità perché non c’è l’illegalità: a Benevento, in Irpinia, e nel vastissimo salernitano, da Positano a Paestum, al Cilento e a Sapri – ma già il Vesuvio respira, e la costiera sorrentina. In Calabria la mafia non c’era fino agli anni Cinquanta: c’era una onorata società che sbrigava piccoli traffici, guardianie, contrabbando, biglietti falsi, non entrava negli affari, negli appalti, nelle compravendite, nelle attività produttive. Dopo quarant’anni di occupazione delle terre, contributi comunitari, appalti, tangenti, sequestri di persona, delitti innumerevoli contro la proprietà, tutti impuniti, la ‘ndrangheta controlla in Calabria fino ai pranzi per le prime comunioni. Ma non è nata con la Calabria e i calabresi, è nata con l’impunità. Lo stesso in Puglia: la trasformazione dei contrabbandieri locali in “sacra corona unita” o organizzazioni mafiose è degli anni 1970.
Chi conosce la mafia di prima persona queste cose le sa. Un quarto falso pilastro, che sta crollando perché interrotto negli anni 1990 a metà della fabbricazione, ne conferma comunque la natura non ineluttabile: la terribilità della mafia (la mafia più potente dello Stato, la mafia più radicata della coscienza civile, l’imprendibilità dei latitanti, il riciclaggio inafferrabile). Tra gli assassini di dalla Chiesa e di Falcone e Borsellino, un periodo lungo dieci anni, questo pilastro è stato costruito alacremente, ma ora ognuno sa che i latitanti, se ricercati, si prendono. Le cupole si dissolvono, le famiglie si frantumano, la delazione è generalizzata. Non si elimina il delitto, ma questo non c’entra con le tre, o quattro, presunte proprietà della mafia, il delitto sempre si ripropone. Anche in forme mafiose.
La sociologia fatica a recepire la realtà perché lavora su una concrezione di false verità difficile da scardinare. La falsa mafia è in parte dovuta a elaborazione autonoma di “traggediatori” siciliani, con aggiunte napoletane, di finta sentimentalità. In parte maggiore è cultura da colonizzati: la mafia è stata - ed è – soprammessa dall’Italia unita. In qualche caso da siciliani espatriati, che hanno mediato e fatto proprie troppe e non disinteressate semplificazioni. Questa falsa mafia è inattaccabile perché è compattata a tutti i livelli, dalla banca, la chiesa, la giustizia, agli articoli di giornale: tutto è mafia, anche l’abuso edilizio, o il falso invalido. Non c’è paragone tra gli abusi delle riviere liguri, o adriatiche, e quelli della Sicilia, ma un articolo sullo scempio edilizio in Italia partirà sempre da Agrigento e dalla Valle dei Templi – che è invece il parco archeologico meglio tenuto dell’Europa, e probabilmente del mondo, oltre che esageratamente affascinante. Sciascia, purtroppo, ci credeva: non di avere in quanto siciliano delle colpe, ma di essere il più colpevole di tutti.
Baudelaire - Ha straordinaria, costante, carica positiva, benché i suoi temi siano il peccato, il male, la malattia, la morte. Quanto pessimista, al confronto, l’entusiasmo di Rimbaud, e non per la vicenda umana.
Dante – Si può leggere “La Vita Nuova” come un romanzo fantasmatico: la proposta di un’ubbia prima che diventi una psicosi. Con una donna lontana, intangibile.
Vernon Lee, cui “La vita nuova” ha suggerito il racconto lungo “A Phantom Lover”, e un saggio su Dante tra Medio Evo e Rinascimento, è piuttosto del parere che la passione di Dante per Beatrice nasce da un amore appassionato e non casto. Insomma reale. “La Vita Nuova” allora non sarebbe fantasmatico. Anche il personaggio del racconto, una signora che vive tra i fantasmi, ritiene l’amore della “Vita Nuova” possibile: “Molto raro, ma può esistere”. Meritandosi però dall’alter ego della scrittrice questo rimbrotto: “Ho paura che avete letto molta letteratura buddista”. Che apre un nuovo filone di esegesi, bisognerà rifare lo Scartazzini.
Si può dirlo vittima della Bibbia. Dell’esegetica biblica, del testo, la lettera, l’allegoria, la morale, la metafora, l’anagogia, la tropologia. Moltiplicata laicamente dall’università.
Franco Cordelli scrive di “Dante, Benigni e i fiorini” sul “Corriere della sera”oggi 5 novembre: «”Dante è un poeta eterno”. Lui lo ha sempre sentito come un suo amico. “Qualunque cosa si dica su Dante va bene, perché è un contributo che diamo alla poesia, alla bellezza, alla gioia di vivere”. Ma, chiediamoci, “questo Dante Alighieri,chi era?”. In effetti, su Dante si sa davvero poco. D lui non è rimasta una firma, un’orma, il numero di scarpe, la taglia del vestito”. A prescindere dal fatto che erano altri tempi, quando Dante scrisse la Divina Commedia, era “giovane giovane”, era “uno che portava perfino dei bei pantaloni allegri e colorati”. Lui, nulla sa dell’eterno poeta, questo particolare lo sa. Perché e come? Perché nel Medioevo, “che a torto viene descritto come un periodo buio e tremendo”, al contrario “si usavano molto i colori”. Il Medioevo, dice, “era un epoca spettacolare: Firenze era la Wall Street del Duecento”. Per lui, Roberto Benigni, con ogni evidenza, colori, bellezza, eternità, lo spettacolo insomma – tutto qui confluisce, “nel fiorino he era una monta fortissima”.
Cordelli trascrive Benigni sembra con sarcasmo. Perché?
L’“Inferno” è una galleria di orrori, da museo della tortura. Voltaire diceva per questo Dante un pazzo e la sua opera “mostruosa”. Come lo pensava il figlio Pietro. L’“Inferno” è il suo giudizio universale, su cui Dante siede quale Dio vendicativo, temperato solo per la forma dal timorato Virgilio. Lo sfogo di un uomo solo, e senza futuro, che non ha affetti, e forse più nemmeno amici. Tollerato dai mecenati appunto che perché pazzo, cioè poeta.
Nel 1865 l’università di Harvard minacciò di togliere le commesse e i fondi al suo editore se avesse pubblicato la traduzione della "Commedia" che Longfellow andava a terminare, la prima in America, col contributo di James Lowell e Oliver Holmes. Benché Longfellow fosse stato a lungo professore alla stessa università. È il plot di “Il circolo Dante”, un giallo, ma è vero. Il poema non andava pubblicato tradotto per essere Dante medievale, scolastico, cattolico. E il poema una commedia, scritta in volgare anziché dottamente in latino, e a lieto fine.
C’è una lettura volgare della “Commedia” quale luogo di turpidini e anche oscena, di violenza, il genere horror, non disprezzabile – anche se lettura, fatalmente, da romanzo popolare.
Delfino – Antonio, morto il mese scorso, era scrittore pieno di umori della “montagna”, l’Aspromonte, ai cui piedi era nato e viveva. Di lui aveva già detto Corrado Alvaro, l’autore suo conterraneo (entrambi sono di San Luca) e prediletto, nel primo numero de “L’Espresso”, il 2 ottobre 1955: “I calabresi sono, con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia delle cose, specie nelle faccende ufficiali”.
Dumas – È narratore, felice, disincarnato. Attraverso l’ironia, l’accumulo,la sproporzione: prende le distanze dalla realtà che crea, a differenza di un Hugo, uno Stendhal, di Thomas Mann, Proust, Céline, che la loro stessa narrazione emoziona. Dumas vi si rappresenta, per il gusto del teatro – lo stesso che ne fa la tecnica: stacchi, sorprese, accelerazioni, rallentamenti.
Più istruttiva è la sua differenza da Balzac, che ha lo stesso gusto disincanato della narrazione, ma da “sociologo” (giornalista) e non da teatrante.
O si racconta meglio, con più inventiva e sveltezza, avendo i creditori alla porta? Che si può immaginare al contrario: si hanno i creditori alla porta per essere narratori.
Gobetti – Disse liberale, cioè anarchica, la rivoluzione leninista. Ma voleva dire bolscevica.
Manzoni – È – sarà – il primo scrittore del nulla. È uno storico, nei “Promessi sposi” non c’è alcuna traccia del sacro. Vi è indotta, da padre Angelini e la Morcelliana, e per la trentennale o quarantennale sua applicazione a qualche inno sacro, applicazione cioè faticosa, ma non c’è nel romanzo. Nemmeno nelle lunghe scene di morte.
Uno che non ha amato le mogli, e neppure le figlie, e forse odiava la madre – la disprezzava. Come Tolstòj, che però era appassionato, non contava le virgole.
Il romanzo storico è invenzione, è un romanzo. Ma è esso stesso parte della storia. E più quando è inventato.
La filologia di Manzoni è doppiamente dubbia. Il suo Seicento è il suo pessimismo, la fede critica o incerta, il Risorgimento (antispagnolismo), la pietà lombarda. La sua presa durevole è certo l’ideologia. Ma con le pezze d’appoggio della storia: è arduo repertoriarlo nell’invenzione. Questo è il difetto del romanzo ma fa l’ideologia italiana.
I romanzi storici di Walter Scott sono totalmemte d’invenzione, e per questo popolari senza essere insegnati a scuola, godibili. Sono anch’essi opera ideologica, andando incontro alle pulsioni dell’epoca: la formazione dell’eroe imperiale britannico, sotto le vesti del Robin Hood liberatore (imperialismo), l’invenzione della tradizione scozzese (nazionalismo), l’insularità (superiorità). Ma più sono opere di storia in quanto abbelliscono e propagandano un essere-che-non-c’è, la voglia d’illudersi.
Sciascia – Di Sciascia dice Matteo Collura, “Il maestro di Regalpetra”, 174: “Il sentire siciliano ne affilerà lo scetticismo”. Marc Ambroise, che ne collaziona le opere: “La sua è l’eresia dell’eresia”. Insomma il pessimismo. Del pessimismo, “di cui tanto si parla a mio carico”, diceva lo stesso Sciascia. E anche: “Che colpa ha lo specchio, diceva Gogol, se i nostri visi sono storti? Ma anche lui è causa della sua stessa febbre”.
Sciascia non era pessimista: lui riteneva che la mafia si potesse sconfiggere – che la Sicilia potesse e volesse sconfiggere la mafia. Fatalista è il Gattopardo. Sciascia criticava la politica nei fatti: il fascismo, l’occupazione americana, la Dc regionale (ma non Reina, Mattarella figli, Nicolosi) e nazionale, anche il Pci. Fece da deputato un buon lavoro, pragmatico, efficace.
La colpa di Sciascia può essere un’altra: la sua giustizia – “Il Contesto” – è metafisica. La giustizia sono i giudici, la categoria più corrotta dell’Italia corrotta.
La “linea della palma” che sale e occupa l’Italia, e anzi il mondo, è in buona parte opera di Sciascia. La chiave la dà egli stesso a Marcelle Padovani, nel libro dallo stesso titolo, 1979: “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me. Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e «dal di dentro»; il mio «essere siciliano» soffre indicibilmente del gioco dei massacro che perseguo”. Questo è perfetto, è l’attrattiva di Sciascia, ed è detto perfettamente. Ma poi Sciascia continua: “Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro perché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso”. E questo è logicamente assurdo, oltre che ingiusto – il sentire siciliano è sentire mafioso?
Ci si può chiedere in che mondo Sciascia – lo scrittore siciliano – viva. O il suo pessimismo è di maniera, dell’Autore che gioca alla decadenza – gioca, perché di suo è fertile, creativo, operoso. Da “traggediatore” siciliano, che col disprezzo del mondo se ne fa padrone? Ma Sciascia non si diverte. Potrebbe invece essere semplicemente il provinciale, Sciascia sta bene a Parigi, benissimo, che la sua insoddisfatta condizione proietta sul mondo. Ma questo è la questione Sciascia, della lettura dell’opera e dello scrittore, non della mafia.
Condivide però anch’egli una concezione della mafia sbagliata. Per tre motivi. 1) La mafia non ha nulla a che vedere con la giustizia. Né la mafia antica né quella nuova. La mafia è legata all’interesse, quindi alla sopraffazione e alla violenza. In tutt’e tre le sue espressioni, la mafia propriamente detta, la ‘ndrangheta e la camorra. In Italia e all’estero. Non c’è lealtà nella mafia se non c’è la convenienza, né c’è amicizia o riconoscimento del bene fatto. I mafiosi hanno sempre tradito senza angosce per interesse – anche prima della legge che premia i pentiti. La vecchia ‘ndrangheta, fino agli anni 1950, si dava un cerimoniale legato alla giustizia, ma era solo violenta, soprattutto al suo interno. 2) Non c’è omertà, le società locali non sono legate alla mafia. Nemmeno le parentele, se non al livello infimo della società. C’è una denuncia continua, febbrile, perfino paranoica, dei soprusi, un tentativo costante di venirne a capo senza rimetterci l’anima. Non c’è molta attesa nei carabinieri e nei giudici, a parte le denunce d’obbligo, ma non si vede il perché: l’omertà consente a giudici e carabinieri in Calabria, Sicilia e Campania di non far nulla in attesa che il denunciante dimostri anzitutto di non essere mafioso. Chiunque ne ha avuto anche minima esperienza, per un furto d’auto o un “dispetto”, lo sa. 3) La mafia non è un fatto culturale, è un fenomeno criminale. Non c’è in tutta la Sicilia, in tutta la Calabria o in tutto il napoletano. La Sicilia ha una grande cultura urbana che ne rifugge. Metà dell’isola ne è stata esente fino agli anni Cinquanta. Ha un vasto ceto imprenditoriale e forti capitali che ne vanno immuni. Ha zone industriali importanti, dell’informatica, dell’auto, della petrolchimica, nonché dell’agricoltura (agrumi, primizie, vino) e dell’agroindustria, e del turismo che ne sono esenti. In Campania se si esce dal triangolo Napoli-Baia-Caserta non c’è alcuna cultura dell’illegalità perché non c’è l’illegalità: a Benevento, in Irpinia, e nel vastissimo salernitano, da Positano a Paestum, al Cilento e a Sapri – ma già il Vesuvio respira, e la costiera sorrentina. In Calabria la mafia non c’era fino agli anni Cinquanta: c’era una onorata società che sbrigava piccoli traffici, guardianie, contrabbando, biglietti falsi, non entrava negli affari, negli appalti, nelle compravendite, nelle attività produttive. Dopo quarant’anni di occupazione delle terre, contributi comunitari, appalti, tangenti, sequestri di persona, delitti innumerevoli contro la proprietà, tutti impuniti, la ‘ndrangheta controlla in Calabria fino ai pranzi per le prime comunioni. Ma non è nata con la Calabria e i calabresi, è nata con l’impunità. Lo stesso in Puglia: la trasformazione dei contrabbandieri locali in “sacra corona unita” o organizzazioni mafiose è degli anni 1970.
Chi conosce la mafia di prima persona queste cose le sa. Un quarto falso pilastro, che sta crollando perché interrotto negli anni 1990 a metà della fabbricazione, ne conferma comunque la natura non ineluttabile: la terribilità della mafia (la mafia più potente dello Stato, la mafia più radicata della coscienza civile, l’imprendibilità dei latitanti, il riciclaggio inafferrabile). Tra gli assassini di dalla Chiesa e di Falcone e Borsellino, un periodo lungo dieci anni, questo pilastro è stato costruito alacremente, ma ora ognuno sa che i latitanti, se ricercati, si prendono. Le cupole si dissolvono, le famiglie si frantumano, la delazione è generalizzata. Non si elimina il delitto, ma questo non c’entra con le tre, o quattro, presunte proprietà della mafia, il delitto sempre si ripropone. Anche in forme mafiose.
La sociologia fatica a recepire la realtà perché lavora su una concrezione di false verità difficile da scardinare. La falsa mafia è in parte dovuta a elaborazione autonoma di “traggediatori” siciliani, con aggiunte napoletane, di finta sentimentalità. In parte maggiore è cultura da colonizzati: la mafia è stata - ed è – soprammessa dall’Italia unita. In qualche caso da siciliani espatriati, che hanno mediato e fatto proprie troppe e non disinteressate semplificazioni. Questa falsa mafia è inattaccabile perché è compattata a tutti i livelli, dalla banca, la chiesa, la giustizia, agli articoli di giornale: tutto è mafia, anche l’abuso edilizio, o il falso invalido. Non c’è paragone tra gli abusi delle riviere liguri, o adriatiche, e quelli della Sicilia, ma un articolo sullo scempio edilizio in Italia partirà sempre da Agrigento e dalla Valle dei Templi – che è invece il parco archeologico meglio tenuto dell’Europa, e probabilmente del mondo, oltre che esageratamente affascinante. Sciascia, purtroppo, ci credeva: non di avere in quanto siciliano delle colpe, ma di essere il più colpevole di tutti.
Secondi pensieri (20)
zeulig
Amore – C’è poco nei classici. Niente anzi nella letteratura romana, durata sei secoli. Non in senso romantico, e nemmeno in quello di corrispondenza dei sensi. Lo introduce il cristianesimo: l’amore è Dio. Ma presto e a lungo negandolo come corrispondenza dei sensi. Una limitazione radicale e estrema, ma per quale legge? A quale fine superiore?
È del corpo: dell’immagine del corpo (del ricordo, della fantasia), e del corpo vivente. L’immagine che fu fissata nel Cinquecento secondo i canoni del nudo e quelli religiosi, che i gesuiti congiunsero, che “sempre trassero profitto dalla umana fragilità e conciliarono sensualità e fede”. Questo ancora Berenson lo sapeva - ma gia le cose cambiavano, il laicismo infettandosi di puritanesimo.
Ateismo - È – può essere – solo cinico. Specchia la distruzione del mondo e della storia. L’ottimismo della volontà e il progresso sono divini, presumano pure di sostituirsi a Dio.
Caos – Perché non sarebbe un attributo di Dio?
Dopotutto è una forma di razionalità.
Corpo - È anima. Nella pittura e nei fatti. Fino al Cinquecento Cristo si rappresentava nel corpo, nudo, mentre gli altri crocefissi, i ladroni per esempio, si dipingevano bardati. Nudo è il mistero dell’incarnazione, anche il Bambino Gesù e spesso nudo. E la Madonna: in Tirolo e Lombardia capita di vederla seminuda, dalla cintola in su. Secondo l’argomento agostiniano “piedi in terra, testa in cielo”, i piedi essendo sineddoche per genitali. Kant visionario lo riconosce, dopo aver azzardato che “il materialismo, se ben si considera, uccide tutto”, aggiungendo: “L’appello ai principi immateriali è il rifugio della filosofia pigra”.
Poi il corpo è stato disgiunto dal corpo. Per una perdita di senso prima che di desiderio. La liberta facile dev’essere sospetta. Si è nudi come si è vestiti, secondo certi canoni. Ma si era nudi essendo vestiti, o viceversa, vestiti nella nudità. Il nudo era fantastico, simbolico, il colore variabile di una
tinta, il proteismo delle forme. Nuda era pure la guerra: i Centauri si preparano alla lotta nei cartoni di Michelangelo poltroneggiando nudi al fiume. E s’abbrancano viziosi i giovanotti - era prima o dopo la battaglia? Pure Leonida alle Termopili sta col pisello al vento, nella pittura di David.
Oggi il corpo è funzionale all’atto, all’erezione. Schopenhauer, nella celebre chiosa che l’atto della generazione sta al mondo come la parola sta all’enigma, il grande arreton, con l’eta, il palese mistero del non detto, ricorda la tradizione che, da Plinio a Goethe, biasima l’atto, davvero
non olimpico, e poco o nulla conoscitivo. Se non menoma lo stesso piacere: quanti, potendolo, godono facendo l’amore? Il corpo crea problemi, per metà o più della vita. Il sesso è selettivo, e antidemocratico: lega la liberta.
Ma bisogna riconoscerlo: il corpo è anima. Dopo Marsilio Ficino, e prima. Altrimenti è pelle e ossa, e acqua. Ma oggi nessuno nota più un dito, il collo, una mano, le maniere, la voce, né saprebbe distinguerli. Bastano le circonferenze e la lunghezza della coscia. Espresse in pollici, che
nessuno sa cosa siano. Nel sesso si perde la lentezza agreste dell’operare, si e sempre al di la della cosa fatta. Il piacere è il presente, la ricerca del piacere va per intervalli brevi, abbreviati, nervosi. Che è pure un modo di essere, e si applica a ogni altro contatto o sapere, sentimentale e politico,
poetico, d’affari e, pare, perfino religioso - si torna agli dei molteplici, rinnovabili. Giorgione è di prima dell’avvento del sesso.
Si dica pure il corpo della donna. Le donne non sono mai state tanto figurate come ultimamente,
sia pure per far spendere – sperma-denaro, l’immaginario a volte è prosaico. È possibile che non ce ne siano più tra breve, le fiammate preludono all’estinzione del fuoco. I segni della desertificazione sono molteplici: le tecniche, la ripetizione, l’accumulo, il madonnismo, l’amore del cane e della solitudine, per parlarsi rispondendosi, il telefono, per esserci senza esserci, la materialità immateriale. Dev’essere per questo che le donne, pratiche, tesaurizzano, come gli scoiattoli di Disney. La sessualità dell’orgasmo, che l’uomo riduce a pompa, è disegno di distruzione. Mentre per lui dovrebbe essere ben di più, articolazione di se stessi, esperienza, apprendimento. Il rapporto fisico è per il maschio paragonabile, attesta la Mead, “alla capacità della donna di compiere l’intero ciclo riproduttivo, la concezione, la gestazione e il parto”. L’io semplificato, uomo o donna, è disegno coerente - è la democrazia occidentale: dare tutto a tutti togliendone il meglio. Lo scoprimento è atto di liberta restrittivo.
Dio – Da morto, ha moltiplicato i suoi sacerdoti, e le chiese.
La complessità sovrasta la ragione.
Don Giovanni – Quello di Kierkegaard desidera perché è desiderato, è il seduttore sedotto. Le sue strategie e tattiche sono avviluppate in una tela i desideri che non sa contrastare, delle Cordelie, delle Donne Anna evidentemente, parricide, oltre che delle Donne Elvira.
Fisica – Si vuole metafisica. La fisica contemporanea dell’indeterminatezza, della complessità o del caos – sempre però entro il principio di Einstein che “niente è lasciato al caso, Dio non gioca a dadi”: è metafisica in quanto si pone problemi di cui non può venire a capo, che è lo specifico di quel campo della conoscenza da sempre chiamato metafisica. Anche quando è sperimentale: l’infinitamente piccolo che i particellari rincorrono per dare corpo alla materia vuole in realtà sconfinare nel nulla – questo è il momento del passaggio che ricerca. Anche se vi impegna investimenti miliardari, macchine lunghe chilometri, e diecine di migliaia di persone per decennio.
Individuo - L’individuo è un punto, un granello di sabbia, ma la memoria, certo, nei linguaggi, nelle cellule, gli dà consistenza e forza. Come l’ombra puntiforme che si dilata nel declinare del giorno. La storia è persistente.
Italiano – È stato insegnato dal pulpito, religioso e laico,per questo è artificioso.
Modernità – È il progetto, il nuovo, l’attesa. La contemporaneità invece è l’ordinario, deludente.
La modernità moltiplica i veleni e ne rincorre gli antidoti, consapevolmente. Più spesso rincorre antidoti ai veleni che gli stessi antidoti hanno creato. La contemporaneità li consuma.
Come concetto è inconsistente: è l’accelerazione di una costante. Non ci sono tradizioni non innovative. La vera innovazione – duratura, radicata, che fa tendenza – s’innesta a una tradizione, cresce da un modo d’essere.
Quando ha esaurito la necessaria funzione di affermare il presente nei confronti del passato – la vivenza – è solo ideologia e vuoto programma, la parodia di Prometeo.
C’è l’antimodernità passatista e quella critica (filosofia, sociologia) nel nome di un’idea o metodologia, (criterio di) misurazione (efficienza, produttività, finalizzazione-compimento). Ma antimoderna è soprattutto la modernità, intesa come categoria avulsa, di sradicamento, cancellazione, negazione, decisa e anzi giudice nell’incertezza.
È buona parte della storia degli Stati Uniti – l’impressione che vadano di corsa: la tribunalizzazione della storia, in senso pratico, imperialista, da Wilson a Truman, i miti facili dell’illimitatezza, della tecnica, la volontà, la libertà. La virtù – mito - dell’assenza di controlli e di limiti – il West -, di capacità critica, istruzione, equilibrio; lo spirito settario e aggressivo dell’uomo e il suo dio.
Storia - È eterna per non avere un cuore, e neppure il cervello.
zeulig@gmail.com
Amore – C’è poco nei classici. Niente anzi nella letteratura romana, durata sei secoli. Non in senso romantico, e nemmeno in quello di corrispondenza dei sensi. Lo introduce il cristianesimo: l’amore è Dio. Ma presto e a lungo negandolo come corrispondenza dei sensi. Una limitazione radicale e estrema, ma per quale legge? A quale fine superiore?
È del corpo: dell’immagine del corpo (del ricordo, della fantasia), e del corpo vivente. L’immagine che fu fissata nel Cinquecento secondo i canoni del nudo e quelli religiosi, che i gesuiti congiunsero, che “sempre trassero profitto dalla umana fragilità e conciliarono sensualità e fede”. Questo ancora Berenson lo sapeva - ma gia le cose cambiavano, il laicismo infettandosi di puritanesimo.
Ateismo - È – può essere – solo cinico. Specchia la distruzione del mondo e della storia. L’ottimismo della volontà e il progresso sono divini, presumano pure di sostituirsi a Dio.
Caos – Perché non sarebbe un attributo di Dio?
Dopotutto è una forma di razionalità.
Corpo - È anima. Nella pittura e nei fatti. Fino al Cinquecento Cristo si rappresentava nel corpo, nudo, mentre gli altri crocefissi, i ladroni per esempio, si dipingevano bardati. Nudo è il mistero dell’incarnazione, anche il Bambino Gesù e spesso nudo. E la Madonna: in Tirolo e Lombardia capita di vederla seminuda, dalla cintola in su. Secondo l’argomento agostiniano “piedi in terra, testa in cielo”, i piedi essendo sineddoche per genitali. Kant visionario lo riconosce, dopo aver azzardato che “il materialismo, se ben si considera, uccide tutto”, aggiungendo: “L’appello ai principi immateriali è il rifugio della filosofia pigra”.
Poi il corpo è stato disgiunto dal corpo. Per una perdita di senso prima che di desiderio. La liberta facile dev’essere sospetta. Si è nudi come si è vestiti, secondo certi canoni. Ma si era nudi essendo vestiti, o viceversa, vestiti nella nudità. Il nudo era fantastico, simbolico, il colore variabile di una
tinta, il proteismo delle forme. Nuda era pure la guerra: i Centauri si preparano alla lotta nei cartoni di Michelangelo poltroneggiando nudi al fiume. E s’abbrancano viziosi i giovanotti - era prima o dopo la battaglia? Pure Leonida alle Termopili sta col pisello al vento, nella pittura di David.
Oggi il corpo è funzionale all’atto, all’erezione. Schopenhauer, nella celebre chiosa che l’atto della generazione sta al mondo come la parola sta all’enigma, il grande arreton, con l’eta, il palese mistero del non detto, ricorda la tradizione che, da Plinio a Goethe, biasima l’atto, davvero
non olimpico, e poco o nulla conoscitivo. Se non menoma lo stesso piacere: quanti, potendolo, godono facendo l’amore? Il corpo crea problemi, per metà o più della vita. Il sesso è selettivo, e antidemocratico: lega la liberta.
Ma bisogna riconoscerlo: il corpo è anima. Dopo Marsilio Ficino, e prima. Altrimenti è pelle e ossa, e acqua. Ma oggi nessuno nota più un dito, il collo, una mano, le maniere, la voce, né saprebbe distinguerli. Bastano le circonferenze e la lunghezza della coscia. Espresse in pollici, che
nessuno sa cosa siano. Nel sesso si perde la lentezza agreste dell’operare, si e sempre al di la della cosa fatta. Il piacere è il presente, la ricerca del piacere va per intervalli brevi, abbreviati, nervosi. Che è pure un modo di essere, e si applica a ogni altro contatto o sapere, sentimentale e politico,
poetico, d’affari e, pare, perfino religioso - si torna agli dei molteplici, rinnovabili. Giorgione è di prima dell’avvento del sesso.
Si dica pure il corpo della donna. Le donne non sono mai state tanto figurate come ultimamente,
sia pure per far spendere – sperma-denaro, l’immaginario a volte è prosaico. È possibile che non ce ne siano più tra breve, le fiammate preludono all’estinzione del fuoco. I segni della desertificazione sono molteplici: le tecniche, la ripetizione, l’accumulo, il madonnismo, l’amore del cane e della solitudine, per parlarsi rispondendosi, il telefono, per esserci senza esserci, la materialità immateriale. Dev’essere per questo che le donne, pratiche, tesaurizzano, come gli scoiattoli di Disney. La sessualità dell’orgasmo, che l’uomo riduce a pompa, è disegno di distruzione. Mentre per lui dovrebbe essere ben di più, articolazione di se stessi, esperienza, apprendimento. Il rapporto fisico è per il maschio paragonabile, attesta la Mead, “alla capacità della donna di compiere l’intero ciclo riproduttivo, la concezione, la gestazione e il parto”. L’io semplificato, uomo o donna, è disegno coerente - è la democrazia occidentale: dare tutto a tutti togliendone il meglio. Lo scoprimento è atto di liberta restrittivo.
Dio – Da morto, ha moltiplicato i suoi sacerdoti, e le chiese.
La complessità sovrasta la ragione.
Don Giovanni – Quello di Kierkegaard desidera perché è desiderato, è il seduttore sedotto. Le sue strategie e tattiche sono avviluppate in una tela i desideri che non sa contrastare, delle Cordelie, delle Donne Anna evidentemente, parricide, oltre che delle Donne Elvira.
Fisica – Si vuole metafisica. La fisica contemporanea dell’indeterminatezza, della complessità o del caos – sempre però entro il principio di Einstein che “niente è lasciato al caso, Dio non gioca a dadi”: è metafisica in quanto si pone problemi di cui non può venire a capo, che è lo specifico di quel campo della conoscenza da sempre chiamato metafisica. Anche quando è sperimentale: l’infinitamente piccolo che i particellari rincorrono per dare corpo alla materia vuole in realtà sconfinare nel nulla – questo è il momento del passaggio che ricerca. Anche se vi impegna investimenti miliardari, macchine lunghe chilometri, e diecine di migliaia di persone per decennio.
Individuo - L’individuo è un punto, un granello di sabbia, ma la memoria, certo, nei linguaggi, nelle cellule, gli dà consistenza e forza. Come l’ombra puntiforme che si dilata nel declinare del giorno. La storia è persistente.
Italiano – È stato insegnato dal pulpito, religioso e laico,per questo è artificioso.
Modernità – È il progetto, il nuovo, l’attesa. La contemporaneità invece è l’ordinario, deludente.
La modernità moltiplica i veleni e ne rincorre gli antidoti, consapevolmente. Più spesso rincorre antidoti ai veleni che gli stessi antidoti hanno creato. La contemporaneità li consuma.
Come concetto è inconsistente: è l’accelerazione di una costante. Non ci sono tradizioni non innovative. La vera innovazione – duratura, radicata, che fa tendenza – s’innesta a una tradizione, cresce da un modo d’essere.
Quando ha esaurito la necessaria funzione di affermare il presente nei confronti del passato – la vivenza – è solo ideologia e vuoto programma, la parodia di Prometeo.
C’è l’antimodernità passatista e quella critica (filosofia, sociologia) nel nome di un’idea o metodologia, (criterio di) misurazione (efficienza, produttività, finalizzazione-compimento). Ma antimoderna è soprattutto la modernità, intesa come categoria avulsa, di sradicamento, cancellazione, negazione, decisa e anzi giudice nell’incertezza.
È buona parte della storia degli Stati Uniti – l’impressione che vadano di corsa: la tribunalizzazione della storia, in senso pratico, imperialista, da Wilson a Truman, i miti facili dell’illimitatezza, della tecnica, la volontà, la libertà. La virtù – mito - dell’assenza di controlli e di limiti – il West -, di capacità critica, istruzione, equilibrio; lo spirito settario e aggressivo dell’uomo e il suo dio.
Storia - È eterna per non avere un cuore, e neppure il cervello.
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