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venerdì 14 novembre 2008

La guerra umanitaria

L'Europa senza politica estera e di difesa

Giuseppe Leuzzi

Finito il giubilo, il neo presidente Obama è già all’opera per vincere la guerra in Afghanistan, magari spostandovi le truppe ora in Irak. Poiché di questo si tratta, di fare una guerra vera e propria in Afghanistan, sotto il simulacro del mandato Onu. Sarà la più giusta delle guerre: un intervento richiesto dal governo legittimamente in carica, secondo la vecchia prassi del diritto internazionale, per motivi umanitari, su mandato dell’Onu. Con effetto dissuasivo sul confinante Iran islamico, il cui armamento atomico verrà realizzato proprio sotto la presidenza Obama. Ma una guerra da vincere richiede preparazione bellica adeguata, cioè rafforzata, e regole d’ingaggio per i partecipanti che prevedano un impegno militare offensivo. Cioè determinato e prolungato: in Afghanistan tutti gli eserciti si sono perduti, a partire da Alessandro Magno.
La guerra giusta è nodo altrettanto insolubile del perché si fanno le guerre. La guerra umanitaria, Carl Schmitt l’ha spiegato, nasce come tutte le altre, come guerra d’annientamento. Anzi di più, è guerra di affermazione della “mia” umanità, e quindi totalitaria: della mobilitazione totale, dei fronti aperti, della resa senza condizioni. Curvarla alla restaurazione – o all’impianto – dei diritti politici e civili è possibile ma è difficile. Sono guerre senza un soggetto altro – dove si impiantano i diritti, su chi, su che?
Ogni guerra alla fine sarà stata inutile, e tuttavia essa si ripropone ineluttabile. Guardando alla storia recente, in Europa non è stata mai fatta una guerra più necessaria e giusta di quella contro Hitler, che tante ne ha scatenate, contro nemici anche forti, ma sempre con largo ricorso alla infamia, violenze gratuite, deportazioni, massacri degli inermi. Ma una guerra altrettanto necessaria ci sarebbe voluta contro Mosca, per le turpitudini staliniane e brezneviane altrettanto vaste e indecenti, in larga parte del continente. Poiché sarebbe stata nucleare, questa guerra non si è fatta, e a un certo punto il regime sovietico, che si sforzava di imitare 1984, il romanzo di Orwell, è stato spazzato via.
In Afghanistan è diverso, la guerra si combatte oggi. Una scelta va fatta. Anche il perfezionamento imminente delle armi nucleari nel confinante Iran non consente peraltro rinivii o dilazioni - la questine è solo apparentemente dissociata dalla guerra in Afghanista: tutto il cosidetto Arco della crisi fibrilla su stimolo di Teheran.
Per l’Europa il dilemma è duplice. Se la guerra in Afghanistan è giusta, se l’impegno Nato è giusto. La Nato in Afghanistan, e in Georgia, si può convenire che salvaguardi i diritti umani. Ma è vero anche il contrario, per le stesse posizioni politiche, occidentaliste e umanitarie. In diritto, la Nato gendarme è difficile da argomentare e anzi indifendibile: il concetto di difesa evapora. Se una guerra è giusta oppure no, l’Europa comunque non può saperlo, perché non ha una politica estera e di difesa. Tanto meno ora che la Nato non è più un organismo coerente a giustificato di riferimento. L’Europa dice si o ni agli Stati Uniti e questo è tutto. E la guerra, anche per fini umanitari, è quella di sempre: un calcolo di opportunità.
L’Europa si trova impegnata su più fronti di guerra, senza averla mai dichiarata, e con più di un mal di pancia. Per interventi che si dicono umanitari, ultima derivazione della sfuggente guerra giusta. Sotto l’ombrello dell’Onu ma senza copertura, se non quella militare propria e dei suoi alleati. Nel quadro di una strategia Nato che afferma di condividere, ma nutrendo in realtà forti dubbi sull’estensione degli impegni dell’Alleanza all’Arco della Crisi, che include l’Iran e allarga il Medio Oriente all’Afghanistan e al Pakistan. Per impegni che essa ha preso dieci anni fa, al momento della guerra alla Serbia – in realtà alla Russia per procura - e nel cinquantenario dell’Alleanza. In circostanze e con modalità che è utile ripercorrere.

Il fantasma Pesc
Nel 1999 il presidente della Commissione europea, Jacques Santer, si è dovuto recare il primo aprile, insieme con tutti i membri della Commissione, alla sede Nato a Bruxelles per informarsi delle cause, le modalità e gli scopi della guerra alla Serbia per il Kossovo, che era stata avviata con i bombardamenti il 24 marzo e prenderà tutta la primavera. Era accompagnato da un fantasma, denominato Mister Pesc nel gergo di palazzo Berlaymont, di cui da tempo si favoleggiava che stesse per materializzarsi, e a cui i governi e la stampa davano con ansia la caccia. Era infatti la materializzazione al maschile, nella figura di un supercommissario con poteri speciali, della Politica europea di sicurezza comune. da sempre assente dagli statuti dell’Unione europea. L’ansia deriva dal fatto che l’Unione, creata per mettere al bando la guerra in Europa, si trovava a doverne combattere una, contro uno Stato europeo, senza una causa giusta.
La guerra umanitaria per eccellenza, alla quale l’Italia fornì l’impegno maggiore, sul piano logistico, dopo quello aereo americano, fu una guerra d’aggressione, non c’è dubbio, alla Serbia e allo slavismo, cioè alla Russia. Per ragioni tutte ameircane, da grande potenza, che forse non furono nemmeno percepite in Europa, anche se la guerra fui essenzialmente europea - per gli Usa fu più che altro un esercizio in bombardamenti da alta quota. La Germania in special modo, pur non impegnandosi sul campo come l’Italia, fece della guerra alla Serbia un’esigenza umanitaria imprescindibile. Il governo rosso-verde, di socialisti e verdi, superò per questo il divieto costituzionale all’impegno militare fuori del territorio nazionale. Fu del ministro tedesco degli Esteri Joschka Fischer, verde con un passato extraparlamentare, l’impegno maggiore, insistente, per il diritto d’intervento, seppure a fini umanitari. Fini di cui però non ci fu traccia, né in guerra né dopo.
A Mr o Mrs Pesc Romano Prodi, successore di Santer, dichiarava subito dopo l’intenzione di dedicarsi con particolare cura nel suo quinquennio di presidenza dell’Unione. Pur sapendo il campo “scivoloso”. Era la stessa opinione di Massimo D’Alema, che l’aveva sostituito a Palazzo Chigi: “Dilemmi non semplici” si proponevano secondo un eufemismo del presidente del consiglio italiano (1), fra gli stessi membri della Unione, e fra la “nuova Europa” e la “nuova Nato”, nel cui ambito la Politica europea della sicurezza andava enucleata. Una sicurezza che paradossalmente ha sempre reso accidentata e perfino pericolosa la strada per l’Unione Europea.
Francia contro Germania
La sicurezza è stata il primo “pilastro”, si direbbe oggi a Bruxelles, dei primi progetti di unione europea nel dopoguerra. Dal federalismo italiano di Altiero Spinelli alle iniziative del ministro degli Esteri britannico Bevin all'inizio del 1948, d’accordo col ministro degli Esteri francese Bidault, e del goveno francese (piano Pleven) a fine 1950. Naufragò subito di fronte alle prospettive di riarmo della Germania - che si fece comunque - e non si è più ripresa. I progetti europei si spostarono sul terreno economico, dell'unione doganale e commerciale, e infine monetaria.
La proposta Bevin mirava a una Unione europea in grado di garantire la propria sicurezza, con l’obiettivo non scritto ma dichiarato di contrastare sia il riarmo della Germania che una ulteriore espansione del blocco comunista. Si concluse nella stipula rapida del patto di Bruxelles, nello stesso 1948, con Francia e Benelux.
Il piano francese per un esercito europeo, poi denominato Comunità europea di difesa, delineato da René Pleven all’Assemblée Nationale nell’ottobre del 1950, e presentato al Consiglio Nato di Bruxelles del dicembre 1950, fu avviato a pronta attuazione con la convocazione a Parigi il 15 febbraio 1951 di una conferenza presieduta dal ministro degli Esteri Robert Schuman. La conferenza fu aggiornata al 22 febbraio per consentire ai paesi partecipanti di studiare un piano dettagliato del governo francese. Fu quindi variamente riconvocata, fino all'8 maggio 1952, quando una bozza di trattato fu siglata dagli esperti dei sei paesi partecipanti, Francia, Italia, Germania, Benelux. Il 27 maggio il trattato fu sottoscritto dai ministri degli Esteri dei sei, per l’Italia De Gasperi, per la Germania Adenauer.
Il trattato, che constava di ben 132 articoli, 13 protocolli e 7 documenti annessi, creava un vero esercito europeo: “Un esercito sovranazionale che gradualmente ma progressivamente prenderà il posto degli eserciti nazionali”, nelle parole di Schuman. Ma era inteso a raccogliere, nella proposta iniziale, più paesi di quanti poi aderirono. Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia e Portogallo (inizialmente anche l’Olanda) si limitarono a partecipare alla conferenza di Parigi come osservatori.
Caratteristicamente, la Gran Bretagna se ne tenne fuori, dopo avere aperto la questione della difesa europea con Bevin. Lo stesso piano Pleven si rifaceva esplicitamente a una risoluzione adottata nell’agosto 1950 dall’Assemblea consultiva del Consiglio d'Europa su iniziativa di Churchill: 89 voti furono a favore di “un esercito europeo nel quadro del Patto atlantico”, 5 contrari, 27 astenuti. Ma rispondendo all’invito francese l’1 febbraio, il ministro degli Esteri Eden informò Schuman che non era “l’attuale politica di questo governo di contribuire forze britanniche a un esercito europeo”. Altrettanto caratteristicamente, Eden firmava a Parigi, lo stesso 27 maggio, con i sei governi della Ced, un trattato di garanzia tra il governo britannico e la nascente Comunità. La Gran Bretagna non voleva partecipare all'Europa unita e non voleva esserne tenuta fuori.
Presto però scartò anche la Francia. L’opinione contraria alla Ced dei gollisti e dei comunisti fece breccia nel paese, e quindi fra gli stessi radicali al governo. Il riarmo della Germania fu un potente reattivo. Da questo punto di vista il piano Pleven si presentava come una limitazione del riarmo tedesco, e la sua sterilizzazione sotto un comando europeo che non poteva essere che a egemonia francese, ma non bastò.
Pierre Mendès-France, primo ministro e ministro degli Esteri dal 18 giugno 1954, tentò di salvare il progetto. In parallelo con i drammatici negoziati in corso a Ginevra per chiudere la guerra d’Indocina, tentò di organizzare un confronto tra fautori e avversari della Ced per ottenere “una risposta chiara”. Chiedendo una riposta chiara egli sperava di mettere la sordina ai sentimenti antitedeschi. Ma il confronto non ci fu. Mendès-France tentò allora la carta del rinvio. Il 13 agosto, forte del successo ottenuto a Ginevra il 21 luglio sull'Indocina, inviò ai cinque firmatari un progetto di compromesso in tre punti: un periodo di otto anni, dall’entrata in vigore del trattato, prima d'introdurre la sopranazionalità per le “questioni vitali”; garanzie contro lo stazionamento di soldati tedeschi in Francia; collegamento tra la Ced e la presenza stabile delle truppe britanniche e americane in Germania. Alla successiva conferenza riunita a Bruxelles il 19-22 agosto, i cinque concordemente rigettarono il Protocollo di applicazione francese. Mendès-France e il suo governo, così, si dichiararono astenuti al voto di ratifica del 30 agosto, nel quale l’Assemblée Nationale bocciò definitivamente la Ced. “Rien appris rien oublié”, si dirà della Francia che aveva fatto e disfatto la Ced. “Quanto fosse sbagliato quel voto lo dimostra il fatto che il riarmo della Germania era ormai inevitabile”, commenterà Franca Gusmaroli (2).
Riarmo tedesco
Gli Stati Uniti avevano riaperto con insistenza il problema del riarmo della Germania. Al Consiglio atlantico del settembre 1950 l’avevano proposto formalmente, preoccupati, con la guerra di Corea, del “vuoto militare europeo”. Il 2 maggio 1951 la Germania era stata ammessa come membro di pieno diritto al Consiglio d'Europa. Il 19 settembre riebbe un ministero degli Esteri. E alla conferenza di Londra del 28 settembre-3 ottobre, fatta convocare dal governo americano dopo il rigetto francese della Ced, Parigi dovette accettare la Germania nella Nato, con forze armate autonome, benché condizionate, e l’impegno americano e britannico “di far cessare appena possibile il regime di occupazione della Repubblica federale”.
La Francia aveva messo il veto a fine 1950 all’ingresso della Germania nella Nato, forte della clausola del patto che prevede l'unanimità per l’ammissione di nuovi membri. Ma l’allargamento era nelle cose. Per la logica stessa della Nato, l’organizzazione politica e militare proposta dagli europei Bidault e Bevin nella primavera del 1948 al segretario di Stato americano generale Marshall, e resa possibile dal voto, l’11 giugno 1948, della cosiddetta Risoluzione Vandenberg, con la quale il Congresso autorizzò l’amministrazione a concludere in tempo di pace alleanze fuori del continente americano – “una vera rivoluzione nella politica estera degli Stati Uniti”, nel giudizio dello storico Duroselle (3). E sopratutto per il rapido allargamento degli obiettivi dell’Alleanza, dopo lo scoppio della prima atomica sovietica nello stesso 1949 e la guerra in Corea l’anno seguente. Il 4 aprile del 1949 la Nato era stata creata a Washington, dopo una trattativa rapida, e dopo la pubblicazione preventiva, il 18 marzo, fatto anche questo del tutto nuovo, del trattato che la regola. Ma già pochi mesi dopo la difesa dell’Europa era riorganizzata sul principio della “strategia in avanti”, che portava la frontiera europea, e quindi il concetto di aggressione ai termini del trattato, alla linea dell'Elba. Il che implicava il riarmo della Germania.
UeoSul piano europeo lo stesso Mendès-France accettò alla conferenza di Londra di fine settembre 1954, un mese quindi dopo il rigetto della Ced, l’allargamento del patto di Bruxelles alla Germania oltre che all’Italia, contro l’impegno tedesco a non fabbricare armi atomiche, chimiche, biologiche, missili a lunga portata, navi da guerra di più di tremila tonnellate, aerei da bombardamento strategico. Gli accordi di Londra fuono subito votati, il 12 ottobre, a stragrande maggioranza dall’Assemblée Nationale, e una nuova conferenza, riunita a Parigi il 20-23 ottobre, trasformò il patto di Bruxells in Unione dell'Europa Occidentale.
L'idea era germinata in un incontro a tre, fra Mendès-France, Eden e Churchill, nella residenza di campagna dell’ex primo ministro britannico a Chartwell, il 28 agosto, alla vigilia del ripudio della Ced da parte dell'Assemblée Nationale: il primo ministro francese, non potendo far passare la Ced, pensò che una difesa europea integrata, con il riarmo tedesco, sarebbe stata possibile se la Gran Bretagna ci partecipava. Ma l’Ueo, pur autorizzando, contrariamente alla Ced, la ricostituzione di un esercito nazionale tedesco, con suoi propri comandi e compiti, non era più dotata di forze armate sopranazionali. La differenza era sostanziale.
Nei fatti l’Ueo, pur prosperando di vita propria (raggruppa oggi l’intera Europa, Turchia compresa, a vario titolo, membri di pieno diritto, associati, osservatori e partner associati, con poche esclusioni: le neutrali Austria, Svezia, Svizzera, Finlandia, e Russia, Ucraina, Bielorussia), ha abbandonato ogni idea, seppure vaga, di sicurezza europea.
I due pilastri
La questione è riemersa in coincidenza con la ridefinizione della struttura di comando Nato. Il generale De Gaulle, tornato al potere nel 1958, esordì con una proposta di direttorio a tre, fra Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, per garantire la stabilità politica e militare, compreso l’uso delle armi nucleari, dell’Europa e del mondo intero - ossia per governare il mondo. Otto anni dopo, persistendo il rifiuto americano di condividere le decisioni strategiche mondiali, e allargandosi il conflitto in Vietnam, De Gaulle uscì a metà dalla Nato (mantenne l’adesione al trattato, ma si ritirò dal comando unificato, e impose la chiusura delle basi Nato e americane in territorio francese). Dichiaratamente contro “la Nato globale” - per non dover condividere decisioni come quella del Vietnam prese unilateralmente dagli Stati Uniti. Altro motivo di contestazione era la dottrina della “risposta flessibile” all’Urss, enunciata dal ministro della Difesa Usa McNamara nel febbraio 1962 (4), che lasciava ampia discrezionalità agli Stati Uniti. Il generale era anche di questo parere: “È un dato di fatto che l’Europa non è più il centro delle crisi internazionali” (5). Ma non tentò di avviare un corso più europeistico della politica di sicurezza. Il trattato franco-tedesco del 1963, o dell’Eliseo, chiuse l’epoca della diffidenza nei confronti della Germania, ma non rilanciò una politica comune. Nello stesso anno De Gaulle vetò l’ingresso della Gran Bretagna nel Mec.
La revisione della struttura di comando Nato, d’altra parte, nel senso della equal partnership con l’Europa, che occupò tutti gli anni Sessanta, si concluse senza esiti (6). La revisione fu avviata da Kennedy nel 1962, con il discorso di Filadelfia detto dei “due pilastri” - successivo alla “risposta flessibile” di McNamara. C’era da un lato il problema di un accesso europeo alla struttura di comando, dall’altro una maggiore partecipazione europea alle spese militari (il burden sharing).
Il riequilibrio che si proponeva nella partnership riguardava la gestione delle decisioni, e limitatamente agli spetti tecnici, o militari, e non le decisioni stesse, o la formazione della volontà all’interno dell’Alleanza. Su questo aspetto, dopo la decisa presa di posizione del generale Eisenhower per un’Europa forte, gli Stati Uniti non lasceranno più aperture. Sul lato tecnico, invece, la condivisione delle responsabilità è da tempo prassi normale. Nella guerra alla Serbia del 1999 la lista dei bombardamenti notturni veniva giornalmente approvata dagli ambasciatori Nato dei paesi membri (7).
Ma è da dire che il “pilastro europeo” del disegno kennedyano, checché esso dovesse essere, si era frantumato da sé, per le ambizioni nucleari di Gran Bretagna e Francia (la prima atomica francese fu sperimentata nel 1960). Non ci furono revisioni a Ottawa nel 1974, in occasione del rinnovo della Nato nel suo venticinquennale.
Eurogruppo
Di sicurezza europea si è tornato a parlare nell'ambito del cosiddetto Eurogruppo, costituito a fine 1968 su base informale tra i paesi europei membri della Nato, rappresentati dai ministri della Difesa e dai delegati permanenti presso l’Alleanza. Se ne tenne fuori la Francia. Gli obiettivi dell’Eurogruppo erano infatti ambiziosi, e per questo inaccettabili al generale De Gaulle: una più incisiva presenza europea nell’Alleanza atlantica e il coordinamento delle politiche nazionali di difesa, dall’addestramento alla logistica e agli armamenti.
L’Eurogruppo seguiva Praga, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. E si accompagnò a una rilancio della Cee, alla quale la Gran Bretagna cominciò a mostrare interesse. Fu sostenuto con vivacità dal governo tedesco di Willy Brandt. Ma già prima della caduta del cancelliere socialista, spiato nei suoi stessi uffici dai tedeschi dell’Est, l’Eurogruppo era defunto. Una parentesi d’inerzia lunga un venticinquennio si apriva. Sporadici annunci di costituzione di brigate miste, franco-tedesche, anglo-tedesche e simili resteranno lettera morta.
La svolta di Blair
La sicurezza europea è stata assente nelle discussioni che hanno approdato al rilancio in senso unitario della Comunità europea con l’unione monetaria e economica di Maastricht dell'11 dicembre 1991. Il trattato di Maastricht mette la sicurezza da parte, come “secondo pilastro”, nel gergo europeo, dell’Unione europea, da cominciare ad affrontare quando sarà stata realizzata l'unione monetaria e sociale. Il trattato di Amsterdam, del 2 ottobre 1997, ha ripreso e affinato il “secondo pilastro” di Maastricht, e ha fissato anche una data di avvio della politica della sicurezza, l’1 maggio 1999. L’adesione del premier britannico Tony Blair nell’ottobre 1998 all’ipotesi di difesa europea integrata sembrò che anticipasse i tempi. E già si faceva l'ipotesi di trasformare l’Ueo in organizzazione dell’Unione europea per la difesa e la sicurezza, in collegamento con la Nato. Il fantasma della Pesc sembrò sul punto di materializzarsi.
In realtà tutto restava ancora da decidere, e nulla è stato deciso. Amsterdam non precisa gli strumenti e gli obiettivi di una politica europea della sicurezza, e nemmeno dà delle indicazioni. La fusione Ueo-Ue – ora comunque fuori agenda - non sarebbe comunque agevole: solo alcuni membri dell’Ueo sono membri anche dell’Unione europea e della Nato, altri sono membri dell’Ue ma non della Nato, e altri della Nato ma non dell’Ue.
Secondo alcuni (8) il trattato avrebbe già aperto la porta alla Pesc per il semplice fatto che consente: la fusione della Ueo nella Ue, insieme con la possibilità di decidere non all’unanimità, la costituzione di una unità di analisi e pianificazione, la nomina del famoso Mister Pesc. Nulla di sostanziale, in realtà. Amsterdam introduce il “veto costruttivo”, per cui il paese membro che non condivide una scelta può astenersene senza boicottarla. E sanziona, sulla scia di Maastricht, due livelli di decisione: uno generale e di orientamento, che richiede l'unanimità, e uno di attuazione dove si possono avere delle maggioranze, e maggioranze diverse. Ma senza alcun indirizzo specifico, nemmeno di politica generale, sulla sicurezza.
In questa materia l’unica novità è stata la ricezione, che Amsterdam ha effettuato, della cosiddetta “lista Petersberg” messa a punto dalla Ueo nel 1991 nell’omonima località alla periferia di Bonn. La lista, o “compiti di Petersberg”, innova in effetti molto, prevedendo l’allestimento di forze europee umanitarie, di pace, d’interposizione. Un cammino sul quale alcuni paesi si erano già inoltrati con benefici, seppure senza coordinamento unitario (v. infra, al par. Riserve europee), e che è rimasta per un decennio l’unica novità. Quella di cui oggi si discute per la sua inefficacia, i rischi che comporta, i costi.
La svolta di Blair, che avrebbe cambiato radicalmente la politica europea di difesa, è invece rimasta lettera morta. Discussa al vertice europeo di Pörtschah il 24-25 ottobre 1998, durante la presidenza austriaca dell’Ue, e in incontro bilaterali fra Blair e vari capi di governo europei, la svolta era approdata il 3-4 dicembre a Saint-Malo, nel corso del vertice periodico franco-britannico, a un’intesa politica specifica: Londra riconosceva ufficialmente l’esigenza di un organismo europeo di difesa in seno all’Ue, e la Francia riaffermava ufficialmente il legame tra la difesa europea e la Nato. La svolta era maturata insieme con i piani Nato di guerra alla Serbia per la questione del Kosovo, che erano stati appena approntati da Washington e comunicati al vertice Ue di fine settembre a Vilamoura in Portogallo, quindi provvisoriamente accantonati per evitare la stagione invernale (9).
L’entente di Saint-Malo trovava l’adesione il 18 marzo della Germania, a conclusione di un incontro tripartito a Bonn dei ministri degli Esteri e della Difesa. Parigi, Londra e Bonn si dicevano d’accordo per la creazione a breve termine di un comitato di politica estera e di un comitato militare permanenti, nonché di uno stato maggiore congiunto, alimentati dall’unità di analisi prevista dal trattato di Amsterdam (10). Di questo organismo avrebbero fatto parte, secondo i tre proponenti, quei paesi che intendevano assumersi le operazioni di difesa europee - allo stesso modo come avrebbero dato vita all’euro alcuni e non tutti i membri Ue. Si sarebbero evitati in questo modo i problemi posti dalle diverse appartenenze Ue-Ueo-Nato.
Il trattato di Amsterdam applicandosi, per il “pilastro” della difesa, a partire dall’1 maggio, il governo Schröder si adoperò per portare già al vertice europeo di Colonia, il 3-4 giugno 1999, alcune misure pratiche atte a favorire la fusione della Ueo nella Ue. Tra esse la nomina di Mister Pesc, un Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza che fosse anche segretario generale della Ueo. Ma l’Alto Commissario partì con una coloritura diminutiva, poiché non ebbe nemmeno lo status di membro della Commissione esecutiva dell’Ue, bensì solo quella di segretario generale del consiglio dei ministri. E resta una figura diminutiva, che il titolare dell’incarico ormai da dieci anni, Javier Solana Madariaga, impersona anche fisicamente.

Ambivalenza UsaIl federatore esterno
Gli Stati Uniti superarono rapidamente le perplessità iniziali sulla Ced, espresse dall’alto commissario americano per la Germania John McCloy. “La guerra di Corea”, commentava Altiero Spinelli nell'ottobre 1950 (11), “ha avuto come prima conseguenza che il problema della difesa dell’Europa occidentale è divenuto attualissimo”. Europe first è la parola d’ordine, rilevava Spinelli, e in questo ambito gli Stati Uniti hanno ripreso “l’idea che circola sulla stampa europea di un esercito sopranazionale, il quale permetterebbe un’organizzazione unitaria della difesa ed eviterebbe la ricostruzione di un vero e proprio esercito tedesco”. Con l’effetto paradossale, notava, che gli Stati Uniti d’Europa si faranno di là dall’Atlantico, mentre di qua si agitano “gli Stati Disuniti”, che applaudono ma si frappongono le “reciproche diffidenze e paure”.
Il ruolo di federatore esterno fu rappresentato, con convinzione, dal generale Eisenhower, che a dicembre del 1950 assunse il comando in capo delle forze Nato in Europa. All’apertura della conferenza di Parigi il 27 gennaio 1951 il segretario di Stato Dean Acheson scrisse a Schuman una lettera calorosa di adesione degli Stati Uniti alla creazione di una forza armata europea, comprendente dei contingenti tedeschi, sotto un comando sopranazionale. Eisenhower ribadì pubblicamente il suo appoggio in un discorso a Londra il 3 luglio 1951 - il discorso della “efficiente federazione europea” - con termini energici che sorpresero i suoi ascoltatori, tra i quali Attlee, Churchill, Morrison, che pure erano in principio europeisti (12). In particolare Eisenhower sostenne che solo un’Europa unita avrebbe potuto trovare la risorse adeguate per una politica di difesa, anticipando la soluzione dell’annoso burden sharing. Alla sessione di Roma del Consiglio atlantico, nel novembre 1951, il generale si presentò da campione della Ced - favorendo il superamento delle persistenti perplessità dei paesi del Benelux.
Dopo l’elezione di Eisenhower alla presidenza a fine 1952, le pressioni americane in favore della Ced furono insistenti. Per il segretario di Stato Foster Dulles la difesa europea era indispensabile alla strategia di contenimento dell’Unione Sovietica. In una conferenza stampa divenuta famosa, il 14 dicembre 1953 Foster Dulles usò toni perfino ultimativi: “Ciò che vogliamo (con l’esercito europeo) non è di riarmare la Germania, ma di creare una situazione che renda impossibile il suicidio della Francia e della Germania per un’altra guerra tra i due paesi. Se, contrariamente alle nostre speranze, si seguissero altre strade, gli Stati Uniti si vedrebbero costretti a un esame lacerante della loro politica estera” (13). “Agonizing reappraisal” furono le parole di Foster Dulles, con le quali il discorso è entrato negli annali.
Il rigetto francese della Ced creò la prima crisi tra la Francia e gli Stati Uniti. Foster Dulles si recò in visita a Londra e Bonn, e impose le soluzioni di ricambio che furono adottate alla conferenza di Londra di fine settembre 1954. La crisi di Suez due anni dopo, che vide Eisenhower al fianco di Nasser contro Francia e Gran Bretagna (e Israele), segnò la fine di ogni disegno di Europa come forza autonoma. Malgrado l’impegno di Eisenhower e Foster Dulles non c’era del resto concordia in America sull’opportunità di avere una forza europea autonoma, per quanto integrata nella Nato, che inevitabilmente avrebbe comportato divaricazioni, nelle strutture di comando, nelle strategie e nelle tecnologie - particolarmente temuto era lo sviluppo di una forza nucleare autonoma. Ritornava la tendenza all’America first, che emerge a tratti regolari al Pentagono, sopratutto, e al Congresso.
Leadership e oneriAl Congresso questa ambivalenza si ripropone cronicamente in termini di bilancio - trovando curiosamente sempre d'accordo, ma inattivi, i partner europei. Da una parte e dall’altra si ribadisce a cadenza alternata che lo sviluppo di una identità europea di difesa rafforzerebbe i rapporti interatlantici perché risolverebbe l’annoso problema di una redistribuzione degli oneri dell'alleanza - la questione del burden sharing.
Dalla metà degli anni Sessanta e per un decennio, sotto l’enorme impegno della guerra in Vietnam, la questione della riforma delle strutture di comando Nato, e della redistribuzione degli oneri, per una partnership meno sbilanciata fra Europa e Stati Uniti, tornò all'ordine del giorno, e più per impulso americano. Coronata figurativamente dalla dottrina kissingeriana del multipolarismo, che riportava la Cina sul proscenio mondiale, e anche potenzialmente l’Europa. Ma non molto dopo, nel 1973, l’“anno dell’Europa” nelle attese di Nixon e dello stesso Kissinger, neo-segretario di Stato, l'Europa dimostrava la sua inconsistenza nelle drammatiche vicende congiunte del petrolio, del dollaro e della guerra arabo-israeliana, e la bilancia pendeva decisamente di nuovo dal lato americano.
L’America non è Europa
Oggi l’ambivalenza americana fra alterità e interdipendenza, costante per cinquant’anni, risulta con ogni evidenza superata, dopo la fine della guerra fredda, che per numerosi aspetti fu sopratutto una guerra europea, e l'Europa non trova più negli Stati Uniti il federatore, per quanto a intermittenza, che essi sono stati nel passato. La percezione di questo cambiamento è inavvertita per l'ottica diversa con cui l’Europa guarda agli Stati Uniti, come a una proiezione della storia e della mentalità europee, e gli Stati Uniti guardano all'Europa, che sempre più è solo una delle tre o quattro aree o culture del mondo con le quali convivono. Gli Stati Unti hanno una diversa “natura” sociale e cultura politica rispetto al Vecchio Continente.
La vocazione forte all’incontestata leadership mondiale, da Berlino a Saddam Hussein, passando per Grenada, è dottrina consolidata del dipartimento di Stato e del Pentagono. Essa è nei fatti sul piano tecnologico e del potere finanziario.
Sul piano diplomatico e militare gli Stati Uniti hanno affermato concezioni originali, che innovano il diritto internazionale e la tradizione e si possono anche dire esclusive. L’inizio si può porre nella conferenza di Casablanca, gennaio 1943, dove Roosevelt impose a Churchill il nuovo concetto di “resa incondizionata” o “vittoria totale” (un percorso che porta da un ventennio a identificare il Nemico nella Forza del Male), facendo strada, sempre contro il parere di Churchill, alla penetrazione sovietica in Europa e quindi a Yalta (14). L’alterità di interessi fra Stati Uniti e Europa riemergerà con costanza, a tratti con durezza, per tutto il dopoguerra, nella crisi di Suez, e successivamente del Libano, nella crisi del 1973, nelle insofferenze di Brzezinski, segretario di Stato di Carter, nei duri contrasti durante la presidenza Reagan a proposito del bombardamento di Tripoli e dell’“Achille Lauro”, nell’assunzione americana del ruolo di poliziotto del mondo, per conto dell’Onu e anche fuori di essa. È questa la novità degli ultimi quindici anni. Ancora a metà 1992, col martirio della Bosnia in corso, il segretario di Stato James Baker rispondeva alle sollecitazioni martellando le parole: “Noi non siamo e non possiamo essere la polizia del mondo”. È una funzione maturata da Washington nella crisi jugoslava e a fronte del terrorismo, che gli Stati Uniti svolgono di preferenza in collaborazione con i paesi europei, ma senza alcun ruolo autonomo dell’Europa.

Riserve europee“Dal 1951 al 1954”, si può dire con Spinelli, “il federalismo europeo giunge fino alla soglia di una vittoria parziale ma sostanziale, ed è infine battuto” - per tutti gli anni successivi e fino a oggi. È battuto sulla questione della Ced e non accenna a riprendersi, per la convergente azione delle gelosie nazionali e del problema - che in realtà però non è tale - degli impegni di spesa. E ciò malgrado un’urgenza che, se oggi sembra inesistente, in numerose occasioni e per lunghi periodi è stata invece drammatica, nelle tante invasioni sovietiche all’Est, minacciate o realizzate, nella questione degli euromissili, negli eventi che hanno portato al 1989, e ora nela presenza costante nell’Arco della Crisi.
La spinta federativa fu forte su impulso inglese dapprima, e quindi francese. Sull’onda del famoso discorso di Fulton, con il quale, perdute le elezioni e la carica di primo ministro, aveva indicato già nel 1946 nell’Urss il nuovo nemico, Churchill aveva creato il Movimento europeo come prima diga. La Francia propose il piano Pleven, e il piano Schuman che porterà alla Comunità del carbone e dell'acciaio (Ceca). Ma furono gli stessi due paesi a affossare la Ced e ogni altro progetto di difesa - e quindi di politica - unificata.
Egemonie nucleari
In termini pratici quella che è oggi la Pesc restò a lungo improponibile per la questione nucleare. La Gran Bretagna ristabilì nel 1957, mentre nasceva il Mercato Comune Europeo, la collaborazione nucleare con gli Stati Uniti, avviata con il progetto Manhattan durante la guerra e interrotta da Washington nel 1946. Il rapporto privilegiato, appena ristabilito, presto s’incrinò: Londra restò senza vettori propri, dopo il forzato abbandono nel 1960 del programma Blue Streak, e gli Stati Uniti accettarono di fornirglieli, ma solo del tipo a corta gittata Polaris, da tempo sperimentati, e non quelli di nuova progettazione Skybolt. La Francia, dopo il ridimensionamento subito in Indocina, a Suez e in Algeria, aveva reagito dotandosi di un proprio deterrente nazionale. La prima atomica francese, preparata dagli ultimi governi della quarta Repubblica, fu provata nel Sahara algerino nel 1960. Né Gran Bretagna né Francia rinunceranno al privilegio nazionale della bomba. E la questione si complicò, invece che risolversi, come proponeva Nenni (v. infra), quando nel 1968 si arrivò al trattato di non proliferazione nucleare. La Germania, alla quale lo statuto Ueo pure preclude l'arma nucleare, aspetterà sette anni per ratificare il Tnp, con la condizione che la ratifica non vincola in futuro l’Unione europea.
Inevitabilmente, d’altra parte, il deterrente nucleare francese e inglese è parte della Nato. Ciò complicherà per quasi un decennio negli negli anni Ottanta, fino all'accordo del 1987, il contenzioso Usa-Urss sugli euromissili (quanti SS20 l’Urss poteva schierare in Europa, e quanti Pershing II e Cruise gli Usa): uno dei motivi di attrito fu il conteggio degli arsenali inglese e francese in quello americano.
Nel 1984-85 un persistente tentativo fu fatto da parte francese, per dichiarare il deterrente francese deterrente europeo - con l’unico obiettivo di staccare Bonn da Washington e portarla a sostenere economicamente la force de frappe nucleare francese. Il tentativo, fallito, seguì una messa in guardia di Mitterrand a Kohl, al ritorno del cancelliere tedesco da Mosca nel luglio del 1983 (15). Chiedendo spiegazioni a Kohl sulle dichiarazioni fatte nella capitale sovietica a proposito dell'unificazione tedesca, con implicazioni neutraliste, il presidente francese affermava che esse erano incompatibili con una comune difesa militare europea e con la stessa unione politica dell’Europa occidentale. Il timore di una Germania neutralista sotto la guida dell’allora neo-eletto e sconosciuto Kohl aveva già spinto Mitterrand a rivitalizzare sullo scorcio del 1982 l’Ueo. A questo stesso fine Mitterrand scelse infine di appoggiare l’installazione degli euromissili americani in Germania.
Non migliore esito ebbe un parallelo tentativo francese, indirizzato al governo della signora Thatcher, di un asse militare Parigi-Londra-Bonn (16). Il tentativo di europeizzare il deterrente francese fu abbandonata con la riunificazione della Germania nel 1990.
Efficienza e risorseSingolare è anche il modo come periodicamente i paesi europei hanno reagito alle spinte americane all’unificazione delle forze, negli anni Cinquanta, e successivamente al burden sharing e alla ridefinizione della struttura di comando nella Nato per rendere più bilanciato il rapporto Usa-Europa. Singolare è la loro resistenza. Che solitamente viene attribuita a ragioni di bilancio.
Ma la redistribuzione degli oneri fra Usa e Europa, molto sentita al Congresso, non pone in realtà problemi dal punto di vista materiale. I membri europei della Nato schierano nominalmente 2,5 milioni di soldati, contro il poco più di un milione degli Usa. E hanno spese militari complessivamente pari al 60 per cento di quelle americane. È la loro “capacità di proiezione” - in sostanza la loro efficacia nella guerra moderna, di mezzi e tecnologia più che di uomini - che è invece bassissima, valutandosi sul 10 per cento di quella americana. È un problema di qualità della spesa e non di quantità, quindi non pone problemi di bilancio, il grande vincolo europeo in questi anni di radicale ristrutturazione dell’economia. Si tratta di avere delle forze capaci di intervenire in conflitti locali, con rapidità, sfruttando le sinergie interarma, utilizzando le tecnologie più che gli uomini.
Francia e Gran Bretagna sono avanti su questa strada (e per efficienza - nel rapporto costi\effetti - sono valutate allo stesso livello, se non superiori, agli Stati Uniti). Sono intervenute in Bosnia con decisione nel giugno-luglio 1995, prima che gli Stati Uniti e la Nato riuscissero a montare l’operazione Deliberate Force. È stata europea, a comando francese, l’operazione Forza di Estrazione in Macedonia, che avrebbe potuto instradare diversamente la questione del Kosovo, se non fossero stati ritirati gli osservatori Osce, alla cui protezione militare essa era intesa. Anche l’Italia ha avuto successo con l'operazione Alba in Albania nel 1997. Dieci anni dopo, in un teatro di guerra non più difficile, l’Afghanistan, l’efficacia europea è invece del tutto scemata.
Il perché è anzitutto la modestia del potenziale di pronto intervento. Buono per teatri di guerra limitati, per interventi concordati, a sostegno di forze locali dotate di autonomia rappresentatività. Nel complesso i Paesi europei sono attardati, con forze armate che, benché costose in termini di infrastrutture, addestramento, gerarchie, sono inservibili. Anche perché manca, negli interventi che più la richiedono, l’integrazione delle forze dei singoli paesi.
Bilateralismo
La mancata ristrutturazione della forza armata europea, il mancato decollo di una politica unitaria di sicurezza, non è un fatto di vecchie abitudini, delle inerzie burocratiche e parlamentari. Nel quadro di fondo di una sottovalutazione specifica - al comodo riparo, fatte tutte le somme, dell’ombrello americano - i problemi della sicurezza restano il terreno favorito per le esercitazioni di sovranità o grandezza nazionale. C’è un’asimmetria di fondo in Europa sui fatti della sicurezza. Pochi paesi, tra essi l’Italia, hanno favorito o favoriscono la diplomazia multilaterale che è il primissimo gradino della sopranazionalità. Gran Bretagna, Francia e Germania, e sulle loro tracce quindi tutti gli altri, coltivano la loro speciale relazione bilaterale con gli Stati Uniti, e quindi col resto del mondo, e su ogni questione aperta individuano una propria strategia e perfino proprie finalità. Non c’è una rete orizzontale che colleghi interessi e analisi dei paesi europei.
Del resto è tutt’oggi più efficace il rapporto asimmetrico con gli Usa che non quello diretto fra partner europei: quello fra Italia e Usa meglio che non fra Italia e Francia, o Italia e Germania. Fra Gran Bretagna e Francia, malgrado Saint-Malo, la cronaca e l’aneddotica sono sempre quelle di una storia ormai quasi millenaria. Sospetti permangono forti a Parigi sugli scopi effettivi di Londra, di cui si teme una ripetizione della sperimentata diplomazia britannica di essere dentro ogni possibile sviluppo europeo per controllarlo o sabotarlo e non per sostenerlo. Da Londra sono venute a ripetizione accuse a Parigi di avere sabotato la guerra in Irak, passando informazioni al governo di Saddam Hussein, e perfino la guerra in Serbia.

Italia tra speranza e prudenza
L'idea di un’integrazione sopranazionale che doveva passare per primo dalla sicurezza risale alle primissime manifestazioni italiane di europeismo, contenute nel Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, già ex comunista, e Ernesto Rossi, un allievo di Einaudi - confinati nell’isola dal fascismo (17). Il Manifesto, redatto nel 1941, sarà pubblicato clandestinamente nel gennaio 1944 da Colorni, eminente figura del socialismo.
È quindi in ambito laico e socialista che si è manifestato in Italia l'europeismo federalista, che privilegia l'unione politica e la sicurezza (18). Ma saranno i cattolici a gestirne le prime fasi, forti della supremazia politica e anche di una spiccata, seppure cauta, sensibilità per il tema dell'Europa nella sicurezza - in Italia come in Germania e nella stessa Francia, dove però il partito confessionale era una piccola minoranza. Su questo - come su tanti altri problemi politici - De Gasperi resterà infine deluso (19). Ma afferrò subito l’opportunità della Ced, nel quadro della politica di ristabilimento dell’Italia nel concerto europeo e occidentale, fu uno dei pochi a rispondere subito positivamente al piano Pleven (gli altri erano la Germania Federale e il Belgio), e col conte Sforza dapprima, poi assumendo in proprio anche gli Esteri, ne seguì con partecipazione gli sviluppi.
Paolo Emilio Taviani, che rappresentava l’Italia a Parigi ai lavori del piano Schuman per la Ceca, partecipò anche alla conferenza Ced il 15 febbraio 1951. Nelle successive trattative pose i problemi, fondamentali per ogni istituzione sopranazionale, di un controllo parlamentare e di un finanziamento attraverso fonti fiscali proprie. In alternativa, l’Italia propose successivamente che l'Assemblea prevista dalla Ced fosse incaricata di preparare il controllo parlamentare e quindi la costituzione politica della Comunità stessa. Questa richiesta fu recepita, con modifiche, nell’art.38 del trattato Ced.
Il contributo italiano continuò anche dopo De Gasperi. Alla conferenza di Bruxelles, del 19 settembre 1954, convocata da Mendès-France per salvare la Ced mediante un rinvio, Attilio Piccioni argomentò sobriamente che il carattere sopranazionale della Ced era e doveva restare fondamentale nel trattato, e che non erano assolutamente possibili discriminazioni contro nessuno dei partecipanti. Aggiunse ad ogni buon conto che potevano passare solo proposte che non richiedessero nuove ratifiche parlamentari.
E a questo punto si può dire che il rigetto francese sia stato accolto con sollievo in Italia. Sul tema del riarmo gli equilibri politici interni si facevano più che mai precari, e De Gasperi fu tanto pronto ad accogliere l’invito francese nel 1951 quanto cauto nel rinviare la ratifica del trattato a ridosso di quella francese - che non ci fu. Alla fiera opposizione del Pci e del Psi si aggiungevano quella dei neo-fascisti e quella di una parte della Dc. Mentre in consiglio dei ministri il titolare della Difesa Pacciardi dichiarava che non avrebbe firmato un trattato nel quale si sanzionasse la rinuncia all’esercito italiano senza che ci fossero precise garanzie di costituzione di un’autorità politica (20).
Difesa europea senza nucleare
Pietro Nenni commenterà nel 1954 il fallimento della Ced rovesciando la prospettiva con la quale il progetto di Comunità europea di difesa è passato alla storia: “Polemizzammo con tanto accanimento contro le strutture sovranazionali non per rinchiuderci nell’orticello nazionale ma perché esse implicavano la subordinazione e l’asservimento politico economico e militare delle piccole potenze alle grandi e dell’Europa all'America” (21). Bisognerà aspettare Praga perché la sinistra muti atteggiamento. Anche se il Pci accetterà la difesa occidentale, dentro la Nato (“l’ombrello americano”), solo nel 1975, per iniziativa personale di Enrico Berlinguer. Contestata in ampi settori del partito, e fuori sospettata di essere funzionale agli interessi sovietici.
Nenni, ministro degli Esteri col primo governo Rumor, tentò un rilancio della politica di sicurezza. Ne è traccia il comunicato finale dell’incontro a Londra il 28 aprile 1969 con Michael Stewart, titolare del Foreign Office nel governo laburista di Harold Wilson: “Nell’Alleanza Atlantica... la formazione di una componente europea costituisce un momento positivo del processo destinato a portare alla formazione di un’Europa unita” (22). Con Altiero Spinelli, suo consulente agli Esteri in materia di non proliferazione nucleare, Nenni lavorò anche a un’ipotesi di difesa europea integrata senza armamento nucleare. “Non è necessario per l’Europa unita diventare una potenza nucleare”, sosteneva Spinelli, a cui giudizio il trattato sulla non proliferazione nucleare offriva un’occasione di rilancio della politica per la sicurezza, rimuovendo le suscettibilità di chi avrebbe dovuto condividere l’armamento nucleare, e quindi dell’unità europea (23). Ma l’ipotesi non ebbe seguito.

Europa senza identitàDieci anni fa, in coincidenza con il cinquantennale della Nato, e con la guerra Nato alla Serbia, molti buoni propositi sono stati sprecati. “Occorre restituire all’Europa l’autonomia perduta in fatto di politica internazionale e della difesa. Guai se creassimo un gigante dal punto di vista economico e un nano sul versante cruciale delle relazioni diplomatiche”, era il commento augurale di Gianni Agnelli all’euro, e era l’opinione di molti atlantisti convinti oltre che europeisti. Si partiva dall’ovvia constatazione, nelle parole dell’allora presidente della Commissione difesa del Bundestag, Friedbert Pflüger (24), che “la fine della guerra fredda non ha portato la pace universale”, e dall'altrettanto ovvia considerazione che “gli Europei vogliono avere nella politica mondiale un ruolo di soggetto e non di oggetto”. Né l’Europa può più evitare di prenderne atto dopo i tanti impegni militari, seppure in veste umanitaria, che ha assunto da allora, e che la vedono esposta pericolosamente ora in Afghanistan, Libano e Iraq, senza dimenticare l’ex Jugoslavia.
Alcuni di questi punti di crisi saranno con noi per molto tempo. Il fondamentalismo islamico non solo, ma anche la questione serba e quella albanese, e la Russia. La Russia è per l’Unione europea la controparte degli Stati Uniti: una potenza da non antagonizzare in nessuna misura. E invece le spinte si accumulano per accularla, con Pechino e Nuova Delhi, in una sorta di “asse degli esclusi”, tollerante in materia di proliferazione nucleare, oggi con l’Iran, domani con chi vorrà, sul principio inoppugnabile della ricostituzione dell'equilibrio internazionale del potere.
A fronte di un mutamento ormai nei fatti degli equilibri internazionali, la Politica europea di sicurezza resta tutta da fare. Se il problema della quantità (spesa, mezzi, effettivi) è nei fatti minore, restano irrisolti i due ostacoli di sempre, il consenso europeo, l’assenso americano. Lo stesso vertice di Washington del cinquantenario ribadiva l’esigenza di un disegno globale, denunciando “l’emergere di nuovi rischi per la pace e la stabilità euro-atlantiche, tra essi l’oppressione, il conflitto etnico, la crisi economica, il collasso dell’ordine politico, e la proliferazione di ordigni di distruzione di massa”. Ma, insieme con questi “nuovi rischi”, che allargano la conflittualità a ogni evento, ha lasciato indeterminati anche i principi e gli strumenti difensivi.
Sovranità limitata
Cardine incontestato della sovranità è il diritto della pace e della guerra. Ma l’Europa, che si vuole sovrana, ne ha fatto finora a meno. Si è assunta, in quanto Ue, oneri importanti: il mantenimento dell’Autorità Palestinese, la ricostruzione in Bosnia, la ricostruzione nell’Europa dell’Est. Ma solo sul piano finanziario.
La sicurezza europea passa peraltro per la revisione degli accordi Nato. Tutti i problemi europei in materia di sicurezza sono anche problemi Nato. La stessa svolta di Blair era maturata nel quadro delle discussioni in corso allora alla Nato sulla cosiddetta Identità europea di sicurezza e di difesa (Esdi). La Pesc non potrà quindi farsi senza una definizione dei suoi rapporti con la Nato. Ma fra Alleanza atlantica e Unione europea i rapporti sono da tempo e restano formalmente inesistenti, le due entità sono separate.
L'Alleanza atlantica rappresenta un’esperienza eccezionale nelle relazioni internazionali. Sia per la durata, in quanto alleanza multilaterale. Sia per la sopravvivenza al suo scopo, la difesa contro il blocco sovietico. E per la sua natura: che un’alleanza pletorica trovi, sempre con tanta continuità, un asse di comando definito. Con il suo rovescio: mai prima d'ora tanti Stati hanno deciso di rinunciare alla loro sovranità, e per così lungo tempo, in favore di una potenza leader. È stato l’effetto, senza dubbio, della minaccia sovietica, anch’essa senza precedenti, per radicalità e potenza. In qualche modo rinnovata dal terrorismo. Ma non sarà agevole rinnovare quella rinuncia.
Nuovo concetto strategico
A dieci anni dal crollo del comunismo, e in preparazione del cinquantenario dell’Alleanza, il rinnovamento della Nato si era sviluppato per stanche linee burocratiche. Che il segretario generale Javier Solana – prima di diventare l’impalpabile Mr Pesc – così elencava diligente al convegno dell’Istituto Affari Internazionali per “Una nuova Nato una nuova Europa” alla Camera dei deputati il 25 gennaio 1999, in preparazione delle celebrazioni del cinquantenario il 23-25 aprile a Washington: Partnership for Peace (ristrutturazione delle forze armate), Euro-Atlantic Partners Council (organismo di dibattito allargato agli associati, 25 membri), Mediterranean Cooperation. Il vertice di Washington, che avrebbe dovuto varare l’Esdi e un “Nuovo concetto strategico” per l’Alleanza, si limitò a dichiarazioni generiche per entrambi i titoli.
A dieci anni da allora, negli unici passi del “Nuovo concetto strategico” che hanno significato, la Pesc resta esclusa. La Nato, che deve affrontare “incertezza e instabilità dentro e attorno l'area Euro-Atlantica e la possibilità di crisi regionali alla periferia dell’alleanza che potrebbero evolvere rapidamente,... rimane il foro essenziale di consultazione tra gli alleati e il foro di accordo per le politiche che riguardino gli impegni di sicurezza e difesa dei suoi membri” (25). Nemmeno sulle Combined joint task forces varate al Consiglio atlantico di Berlino (1996), e applicare ormai ovunque nell’Arco della Crisi. si sono fatti passi avanti: si tratta di meccanismi operativi per “forze separabili ma non separate”, che consentirebbero agli Europei di gestire crisi minori ai propri confini, utilizzando le strutture Nato, anche senza la partecipazione diretta degli Stati Uniti.
I caratteri essenziali del rapporto Nato-Ue restano quelli definiti dall’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt alla vigilia del vertice di Washington (26), in un quadro generale di indeterminatezza (“l’Occidente, nel complesso, è privo di una strategia globale”): “La «nuova Nato» che gli americani vogliono tenere a battesimo deve fare in modo - così almeno spera qualcuno, dal ministro degli Esteri Albright all’ex consigliere per la sicurezza Brzezinski - che gli europei, anche nel nuovo secolo, si facciano guidare da Washington”. Questo non era possibile, secondo Schmidt, perché “l’arroganza di Washington” non è una politica, e perché “gli americani non possono offrire una strategia globale a lungo termine”, non per la Russia, non per la Cina, l’India, l’islam, per l’economia, per l’ecologia. Per ultimo l’ex cancelliere, che è stato il più filoamericano fra tutti i leader Spd, oggi commentatore politico, ritiene che comunque i conflitti ricadranno sugli alleati, essendo strategia ormai irreversibile degli Stati Uniti d’impegnarsi a fondo per la difesa solo nei casi eccezionali in cui la sicurezza degli stessi Stati Uniti sia in gioco, negli altri limitandosi “a impiegare la loro alta tecnologia militare e di telecomunicazioni, stando a distanza di sicurezza”, e appoggiandosi “alle truppe dei loro alleati”.
Una serie di considerazioni ovvie, che avrebbero dovuto, nonché favorire la Pesc, imporla. Corrispondendo il “Nuovo concetto strategico” e l’incertezza politica globale ad ampi spazi di autonomia. Ma l’Europa deve ancora chiarirsi i propri indirizzi. Nel mentre che fa le guerre per la Nato, con vasto impiego di risorse.

La guerra umanitaria
Una sorta di pacifismo statale, emerso da circa vent’anni con la caduta del Muro e dell’impero sovietico, fa le veci di una politica estera e di difesa. Indeterminato, ma forte di “impegni umanitari” e di “cooperazione allo sviluppo”. In linea con gli appelli da più parte lanciati, dall’Onu, dal Vaticano, dalla filosofia della politica, alla guerra per motivi umanitari o alla guerra giusta. Di cui quella alla Serbia è stata l’epitome, ma fino a un certo punto anche quella all’Irak, e oggi quella in Afghanistan. Ma è una politica dello struzzo, più ipocrita che irenica.
Il diritto di intervento e la Neo Guerra
La posizione europea è l’altro aspetto del Novecento, che mentre ha esteso la guerra senza limiti intollerabilmente, ha posto anche dei limiti alla guerra stessa. Almeno in diritto. Il patto Briand-Kellogg ha limitato nel 1928 la legalità della guerra alla difesa. I diritti umani dovettero aspettare: le proposte – tedesche, di Weimar – di un diritto internazionale dell’uomo, in aggiunta al divieto della guerra d’aggressione del patto Briand-Kellogg, caddero nel vuoto. Dopo la guerra una Dichiarazione universale dei diritti umani fu adottata a Parigi, di cui si celebrano il 10 dicembre i sessant’anni. A fine secolo, riferendosi alla tante guerre americane a partire da quella del Golfo, Umberto Eco ha potuto ipotizzare una Neo Guerra, senza vittime e senza fronte. In cui cioè il nemico può circolare, seppure non in armi, sul fronte interno, mentre le operazioni belliche devono essere mirate a non fare vittime - le armi "intelligenti" (26).
E' questo anche l'effetto dei principi della Dichiarazione, che hanno ampliato e non ristretto il ricorso alla guerra. Dal diritto di non intervento, cardine delle relazioni internazionali per millenni, il diritto di ogni paese a non essere aggredito, si è anzi passati passati a un diritto d’intervento, distinto anche se confuso.
Il diritto di (non) intervento è stato rimodulato nell’“unificazione” del mondo conseguente alla caduta del comunismo sovietico, sulla base dei diritti umani, che sono ora il fondamento etico di ogni politica. Nella prevalenza dell’opinione: tutto è emozione, presto e senza condizioni. L’indignazione e la colpevolezza sostituiscono ogni diplomazia, la cautela cioè e il diritto. Lo stesso iperrealista papa Giovanni Paolo II, che ha abbattuto il comunismo, ha teorizzato l’“ingerenza umanitaria” come “diritto d’intervento” ai diplomatici il 16 gennaio 1993 (27). Ma non c’è criterio per far passare i diritti umani come criterio di giustizia. Oggi Roma direbbe che Cartagine è da distruggere perché immola i bambini, e questa sarebbe la sola novità.
Guerra giustaNon c’è guerra che non si pretenda giusta. Ma bisogna intendersi sulle cose. Ultimamente la fanno le tribù, in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani. E gli Usa nel nome dei diritti umani. La facevano le repubbliche, i principati, gli imperi, le classi sociali, le idee, per un interesse. Il terrorismo a carattere bellico, con capacità di distruzione cioè analogo alla guerra, sia delle persone che delle strutture, e dell’ambiente, ribalta poi in più modi i diritti umani. Si propone esso stesso come strumento dei diritti umani. E non può essere contrastato se non con mezzi limitati, al riparo dei diritti umani.
Carl Schmitt nel “Nomos della terra”, sull’autorità di Erasmo, e dei posteriori Bodin e Alberico Gentili, che a loro volta facevano tesoro delle guerre di religione, riduce la guerra giusta alla “guerra lecita”. Quella cioè regolata dal diritto internazionale, quanto al riconoscimento dei belligeranti, o alla aequalitas tra justi hostes. Niente a che vedere con la sistemazione di san Tommaso, della guerra che è giusta quando è sostenuta da un’autorità che è riconosciuta, ed è combattuta per una giusta causa e con una giusta intenzione.
In tutte le guerre si è sempre avuto, anche nelle guerre di Hitler, una fioritura di argomentazioni di diritto internazionale sempre molto elaborate per dimostrare le ragioni della propria parte e il torto del nemico. Si argomenta in generale, sul diritto e il dovere di guerra, e su questioni specifiche, sconfinamenti, inseguimento, prigionieri, mezzi leciti, “modica quantità”, etc. Solo nel caso della guerra umanitaria, ultimo sviluppo, il diritto internazionale singolarmente è carente. Non ci tiene a spiegarsi, ritenendosi giusta per definizione, una volta posta sotto l’ombrello del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il direttorio mondiale. Per decisioni che, sotto l’apparenza del diritto, in realtà sono sempre anch’esse politiche. È stata giusta ultimamente in Europa, e di più in Italia, la guerra contro Milosevic, di aggressione quella contro Saddam. Per cui i diritti umani dei kossovari, peraltro non conculcati, finiscono per valere di più di quelli degli sciiti, perseguitati in massa. Anche a costo di consegnare il Kossovo a un bandito Giuliano qualsiasi. L’ultima guerra giusta in Europa, prima di quella alla Serbia nel 1998, era stata la Dottrina Breznev.
Norberto Bobbio ha avuto problemi, pur difendendo la guerra alla Serbia, a caratterizzare la guerra giusta. Concetto cristiano e non romano, abbozzato da sant'Agostino e poi approfondito filosoficamente da una lunga tradizione, fino a Grozio, a Kant e a Bobbio, è fondamentalmente quella di san Tommaso, per una giusta causa con giusta intenzione. Ma la causa è fortemente variata nei secoli. Fino alle concezioni belliciste del romanticismo, quello tedesco sopratutto: la guerra fatto estetico universale (Novalis), sviluppo morale dell'umanità (Fichte), materializzazione dello Spirito del mondo nei diversi spiriti dei popoli che si avvicendano (Hegel). ricetta per popoli infiacchiti (Nietzsche). Per arrivare alla guerra preventiva per fini umanitari, quali sono quelle degli Stati Uniti e dei “volenterosi” in Irak, e quella della Nato in Afghanistan, su mandato Onu. Entrambe azionate dalla lotta al terrorismo.
L’Onu e la Nato proclamano oggi il diritto d'intervento contro quello che era un cardine del diritto, il non intervento negli affari interni di uno Stato. Fra i due ambiti giuridici opposti della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che protegge gli individui contro gli Stati oppressori, e della Carta dell'Onu che invece previene e proibisce la guerra, comprese evidentemente le guerre preventive - documenti entrambi dello spirito del tempo. Ernst Jünger, altro forte conservatore tedesco, come il suo amico Carl Schmitt, pur bellicista, esclude la categoria. La guerra della Società delle Nazioni non è più guerra, c’è un “daltonismo umanitario”, rilevava già nel 1932 nell’Arbeiter: sotto l’ombrello internazionale è possibile fare guerre giuste, a buon diritto, e derubricarle a penetrazione pacifica, azione di polizia, e ora difesa dei diritti umani. Fin dalla nascita il diritto umanitario si prestava alla propaganda. Accanto alle proposte dei compassati giuristi della repubblica di Weimar, nei primi anni Trenta i Diritti Umani campeggiavano nella retorica: i manifesti di Mussolini lo proclamavano Ambasciatore di Pace e Difensore dei Diritti Umani.
Sull’ammissibilità della guerra umanitaria i pareri sono fortemente divisi. “Gli argomenti addotti per legittimare l’uso umanitario della forza sono poco convincenti e pericolosi”, fu la posizione in America, quando Clinton volle la guerra alla Serbia, del “padre dei diritti umani” Louis Henkin (28), creatore della disciplina e della cattedra di Diritti Umani alla Columbia University - una "guerra umanitaria" è sempre quello che appare, un ossimoro e anche una sciocchezza. Mentre il conservatore Jack Goldsmith, della Chicago Law School, pur concordando che i critici dell'intervento umanitario “dispongono certo di forti argomenti giuridici”, ritenne che “esiste un'eccezione sul piano consuetudinario e pratico” (29). Certamente nel caso del terrorismo, quando ha santuari degli Stati. La filosofa Jeanne Hersch, che i diritti umanitari ha catalogato per le organizzazioni internazionali, ha taciuto, su questo come su ogni altro singolo caso, sapendo che il giudizio è unicamente politico.
I mezzi giusti
In questa incertezza assume rilievo il tema intermedio dei mezzi, anche per gli effetti devastanti che i nuovi armamenti possono avere. Ogni guerra pone, in diritto oltre che di fatto, il problema dei mezzi. L'interesse impone il principio economico, del minimo costo per il massimo effetto. Il diritto pone quello dei “mezzi giusti”, proporzionati cioè allo scontro. È un aspetto del concetto di guerra giusta, che propriamente indaga le cause della guerra, e quindi i fini. In questi termini, di cause e fini, assenti dalla guerra dell’Europa e degli Usa alla Serbia nel 1999, la guerra è stata animatamente discussa nel 1990-91, nel conflitto del Golfo.
Il tribunale di Norimberga e quello dell'Aja hanno istituzionalizzato il problema dei mezzi. Elisabeth Anscombe lo ha categorizzato ne 1957, nel celebre libello “Mr. Truman Degree”, contro l’uso della bomba atomica e per i mezzi proporzionati. Per proporzionati s’intende mezzi coerenti e diretti con l’obiettivo della guerra. Chi volesse fare guerra alla Macedonia, per ipotesi, invadendo l'Albania o la Bulgaria, uscirebbe evidentemente dal diritto. Gli Stati Uniti sono stati molto criticati su questo aspetto per aver combattuto il comunismo sovietico intervenendo direttamente in Guatemala, Grenada e Nicaragua, e indirettamente in Brasile e Cile. Il concetto di proporzionato o congruo è più semplice: non si può usare l'atomica per conquistare un fortino abbandonato. La guerra diventa ingiusta per la filosofa quando la Gran Bretagna prima e poi gli Stati Uniti d’America rigettano la convenzione di Ginevra del 1923 che vieta di bombardare le opere non militari e la popolazione.
Adeguatezza e congruità dei mezzi rimandano ai fini più che alle cause della guerra - alle intenzioni buone. Fine della guerra è ovviamente la vittoria. Ma sul concetto di vittoria gli Stati Uniti, che a lungo si erano tenuti volutamente fuori degli affari internazionali, in base al precetto di addio di George Washington nel 1796 (“la regola aurea dei nostri rapporti con le nazioni straniere sia di avere con loro i minimi rapporti politici”), hanno introdotto nella storia e nel diritto un concetto nuovo. Fortemente differenziato da quello tradizionale, a cui i governi e l’opinione europea si attengono, che è quello della cancellazione dell'offesa. Gli Stati Uniti hanno introdotto la “resa incondizionata”, o totale.
Fu il presidente Roosevelt a incardinare negli affari internazionali questa categoria. Alla conferenza di Casablanca, nel gennaio 1943, impose la “resa incondizionata” quale unica via d'uscita dalla guerra con la Germania e il Giappone, a un Churchill recalcitrante, per il quale la sconfitta tedesca era nei fatti e la guerra si poteva chiudere più rapidamente con meno danni. Compreso, tra questi, l’arrivo di Stalin a Berlino. L’annuncio di Rooesevelt a Casablanca offrirà materia alla storia revisionista: se non sarebbe stato possibile altrimenti evitare il sacrificio di altri 4-5 milioni di uomini, tra lager e fronte, la distruzione della Germania (con l'arrivo di Stalin a Berlino), i 13 milioni di tedeschi profughi dall'Est, le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Ma la vittoria fino all’annientamento dell’avversario è, sotto la leadership americana, principio dominante. Il Nemico è la Forza del male. E ogni discorso sui mezzi adeguati e proporzionati diventa superfluo.
C’è dunque – c’era - fra Europa e Stati Uniti una diversa percezione del diritto. Fraintesa per un difetto di ottica: l'Europa continua a guardare gli Stati Uniti come a una sua proiezione, mentre gli Usa guardano all’Europa come a uno dei quattro o cinque scacchieri mondiali nei quali impegnano la loro leadership, a oriente e a occidente della dorsale americana. Si può anche dire degli Usa quello che Junius (Luigi Einaudi), nel tentativo di spiegarsi “il mistero dell'intervento americano in Europa”, diceva sul Corriere della sera della Germania nel 1918: “È una terribile creatrice di guerre, l’idea della libertà illimitata” (30). Tuttavia, se il discorso delle cause giuste - e dei fini - rimane vago, quello dei mezzi è sostanziale e univoco. Esso appare tuttavia inadeguato nel caso attuale della guerra al terrorismo.
La guerra al terrorismo
La guerra al terrorismo presenta cause condivise e legittime. È guerra di reazione, difensiva. Ma in questo quadro anche preventiva e cieca, essendo il nemico segreto, sfuggente, invisibile, agli stessi servizi segreti. Una guerra a oltranza, essendo il terrorismo estremista e impolitico. Una guerra assassina, essendo senza regole. La risposta al terrorismo non può che essere massiccia. Gli Stati non possono combattere il terrorismo con le armi del terrorismo, segretezza e violenza indiscriminata: sarebbe illegale e non è etico. La reazione britannica al terrorismo irlandese è stata quasi sempre illegale, anche se nessun tribunale se n’è mai occupato.
La guerra limitata del resto non esiste, commisurata all’effetto che si vuole raggiungere senza le “vittime innocenti” - la guerra è sempre un fatto di vita e di morte, di distruzione e di sangue, tutte le vittime di una guerra sono innocenti. La guerra è un’azione cieca, con l’obiettivo di mettere in campo sempre un po’ più di violenza del nemico, e la guerra migliore è quella che mette in campo il potenziale massimo.
Il problema che si può porre è: sono i bombardamenti espedienti e congrui alla guerra al terrorismo? Specie quelli americani, che per regolamento, per il principio della minima perdita di mezzi impone di sganciare le bombe da cinquemila metri di altezza. L’aviazione peraltro non ha mai vinto una guerra – può solo prepararla, o completarla con l’annientamento. Ma allora, con un impegno diretto sul terreno, di mezzi limitati e non spropositati, bisogna mettere in conto più vittime della propria parte che non nelle guerre per procura e a distanza.
O politica o guerra
Non c'è qualcosa come una guerra pacifica. Questa è una pretesa assurda e ipocrita, che solo dice la confusione in cui le potenze e le organizzazioni internazionali fingono di annegare. Si pretende di combattere guerre vere, in Iraq, in Afghanistan, col codice di pace - anche se con una differenza non marginale: gli eserciti europei con mandato Onu vi si attengono anche sul campo, gli Stati Uniti sul campo fanno invece la guerra come alla guerra. Ogni volta che c’è una vittima, anche lieve, nei contingenti italiani, i giudici italiani sequestrano tutti i mezzi e le armi coinvolte nell’“incidente” – senza peraltro mai procedere a un atto istruttorio. E non è una commedia in teatro.
Come sempre, la guerra, anche per fini umanitari, non sostituisce la politica – non ne copre l’assenza. La guerra e la pace sono - dovrebbero essere - decisioni diplomatiche, prese cioè nella pancia più fredda della pubblica amministrazione, e seguire regole precise, scacchistiche. Solo in queste senso la guerra può essere giusta, se ha uno scopo definito e accettabile, e ad esso indirizza impegni congrui, non necessariamente distruttivi.
L’intervento umanitario va peraltro definito, cioè delimitato. I diritti umanitari si vogliono genericamente sostituire a quelli naturali. Alla teodicea, si sarebbe detto un tempo, che il terrorismo islamico tenta di restaurare. Coprendo alcune mancanze dei diritti naturali, le tre virtù teologali della carità o compassione, la speranza, la fede. O la volontà di alleviare le sofferenze di tutti, di migliorare il mondo. E al diritto dei popoli alla liberazione assimilando i diritti individuali. Che però sono storicamente concreti. Nell’Occidente sono oggi il diritto all’aborto, l’eutanasia, la procreazione artificiale, la clonazione, l’adozione libera.
I diritti naturali non si possono opporre ai diritti umani. Né questi da considerare da meno dei diritti naturali – la medicina c’è anche in natura. È però vero che i diritti umani tendono all’annullamento (suicidio): a infrangere cioè la loro stessa natura vincolistica, di paletti e miglioramenti da introdurre nella natura bruta. Compresa quella che si ammanta di religione.

NOTE
(1) Discorso alla Camera dei deputati, Sala della Lupa, 25 gennaio 1999, in occasione del convegno Iai-Cespi (Istituto Affari Internazionali-Centro Studi di Politica Internazionale) “Il cinquantesimo anniversario dell’Alleanza Atlantica: una nuova Nato per una nuova Europa”.
(2) V.Franca Gusmaroli, a cura di, I sì e i no della difesa europea, Bologna, Mulino, 1974, p.12.
(3) V. J.B.Duroselle, Histoire diplomatique de 1919 à nos jours, Parigi, Dalloz, 1962, p. 537.
(4) “Il nostro impegno è di usare le nostre forze in modo controllato e deliberato”: discorso di Robert McNamara all’American Bar Foundation, 17 febbraio 1962.
(5) Memorandum francese del 10 marzo 1966, in cui De Gaulle comunicava le sue decisioni ai paesi membri della Nato, dopo la lettera del 7 marzo al presidente americano Johnson. V.Paolo Vittorelli, “La conferenza europea”, in Mondo Operaio marzo 1967.
(6) Sull'aggrovigliata trattattiva v. Henry A. Kissinger, The troubled partnership, New York, 1965, e Lo Spettatore Internazionale, gennaio-febbrao 1967, “Sommario delle proposte di riforma della Nato”.
(7) V. “The Washington Summit”, in International Herald Tribune 26 aprile 1999. Dopo il vertice Nato a Washington del 23-25 aprile le regole furono cambiate per semplificare le operazioni: gli ambasciatori approvavano una lista d'insieme degli obiettivi e il comandante in capo generale Clark decideva quando e come colpirli.
(8) Gli argomenti degli ottimisti erano sintetizzati da Friedbert Pflüger, l’allora presidente cristiano-democratico della Commissione affari europei del Bundestag, in Géopolitique n.45, marzo 1999.
(9) V. “The Path to Crisis”, in International Herald Tribune, 19 aprile 1999, e François Heisbourg, “New Division of Labor”, contributo al convegno Iai-Cespi “Una nuova Nato per una nuova Europa”. A proposito della scelta di Blair scriveva Il Foglio, 20 aprile 1999: “Bisogna risalire agli inizi del Settecento per trovare un'altra aggressione militare di Londra nei confronti di un paese europeo”.
(10) I termini degli accordi sono quelli resi pubblici da Daniel Vernet su Le Monde del 20 marzo 1999.
(11) V.Altiero Spinelli, “La farsa della difesa europea”, ottobre 1950, articolo ripreso in Id., L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Mulino, 1960, raccolta di scritti pubblicati fra il 1951 e il 1955.
(12) L’intervento di Eisenhower è vividamente riferito da A. Spinelli nell'articolo “Eisenhower contro le mezze misure”, ripubblicato in Id., L’Europa non cade dal cielo, cit.,pp.125-127. Disse Eisenhower: “L'Europa non potrò raggiungere la grande statura che le sarebbe possibile conseguire per le capacità e lo spirito dei suoi popoli finché sarà divisa da rabberciate barriere territoriali che favoriscono gli interessi locali a danno di quelli comuni, e moltiplicano tutti i prezzi con percentuali agli intermediari, tariffe doganali, tasse e sovrapprezzi... Nel campo politico le barriere favoriscono la diffidenza e il sospetto, servono interessi particolaristici a spese dei popoli, impediscono un’azione efficacemente coordinata per l'evidente e esclusivo bene dell'Europa. Con gli oneri connessi a una divisione forzosa, è evidente che anche un minimo sostanziale sforzo di difesa intaccherà seriamente le risorse dell'Europa”.
(13) Questa e altre citazioni senza diverso riferimento bibliografico sono riprese dai Keesing's Contemprary Archives, la documentazione periodica degli affari internazionali.
(14) “Propongo che l'incontro di Casablanca sia chiamato l’Incontro della Resa Incondizionata”, disse il presidente Franklin D.Roosevelt nella conferenza stampa conclusiva. Alla lunga serie di incontri parteciparono gli Stati maggiori dei due paesi. La conferenza aveva lo scopo di programmare azioni di guerra che alleggerissero il fronte sovietico. Stalin non partecipò all'incontro per gli impegni nella controffensiva antitedesca.
(15)V. Le Nouvel Observateur, 15 luglio 1983.
(16)V.Williams, Geoffrey Lee e Allan Lee, The European Defence Initiative, Londra, MacMillan, 1986, in cui si mette in parallelo la costruzione di un potenziale nucleare anglo-franco-tedesco con la realizzazione dell'Europa politica. Si ipotizzava perfino una sorta di parità nucleare di questo asse con l’Urss, avendo esso un potenziale distruttivo della quasi totalità dell’apparato industriale sovietico e di due terzi della popolazione.
(17) Spinelli divenne europeista leggendo Einaudi. Mentre era confinato a Ponza, dopo essere stato arrestato dalla polizia fascista nel 1927 (nel 1943 sarà l'italiano che ha subito la più lunga detenzione politica), e “dopo l'uscita dal Pci nell’estate del 1937”, ha confidato a Sonia Schmidt, “ho meditato a lungo intorno ai problemi della democrazia senza giungere a conclusioni soddisfacenti per circa un paio d’anni. Nella prima metà del 1939 la lettura degli articoli che Einaudi aveva pubblicato nel 1918 contro la Società delle nazioni e per una federazione europea”, accompaganata dalla lettura di alcuni federalisti inglesi, lo convinsero che la federazione era per l’Europa la via d'uscita dalla cronica bellicosità intestina. V.Sonia Schmidt, “Intervista con Altiero Spinelli”, in A.Spinelli, E.Rossi, Il Manifesto di Ventotene, ried., Napoli, Guida, 1982. Il Manifesto di Ventotene fu redatto da Spinelli a Ventotene, dove era stato al confino, nel 1941 insieme con Ernesto Rossi, altro confinato, e fu discusso con Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, allora marito e moglie (poi Ursula si unirà con Spinelli), che lo pubblicherano clandestinamente a Roma nel gennaio 1944. “Alla lettura dei federalisti inglesi siamo giunti così”, ha spiegato Spinelli ancora nell’intervista: “Luigi Einaudi, allora professore di economia a Torino, che, insieme a Benedetto Croce, era fra i pochissimi grandi intellettuali liberali, cui il fascismo riconosceva una certa libertà di espressione, era autorizzato a corrispondere con Ernesto Rossi, anch’egli professore di economia, benché questi fosse in carcere, e a mandargli anche qualche libro di economia in italiano o in altra lingua”. Poterono così leggere anche le Lettere politiche che Einaudi aveva inviato al Corriere della sera di Luigi Albertini nel 1917-18 con lo pseudonimo di Junius, ripubblicati da Laterza nel 1920. La raccolta è essenzialmente anti-giolittiana - contro il Giolitti che proclamava “a sinistra, sempre più a sinistra”, per il recupero politico dei socialisti. Solo un terzo di paginetta ipotizza l'Europa unita, per sottolineare “l’impensabile” di una Società delle Nazioni: uno Stato europeo sarebbe “uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irraggiungibile”.
(18) Oltre al Movimento federalista di Altiero Spinelli, e alla proiezione italiana del Movimento europeo, vanno ricordati in questo ambito culturale le pubblicazioni Comprendre di Umberto Campagnolo, rivista edita a Venezia dalla Société Européenne de Culture, il Bulletin Européen di C.Dragan diretto da Giorgio Del Vecchio, Iniziativa Europea di Mario Zagari.
(19) “Vi è un’Europa ma è difficile definirla, difficile come definire la luce oppure l'amore”, dirà De Gasperi alla Tavola rotonda sull’Europa che si tenne a Roma dal 13 al 16 ottobre 1954 con Robert Schuman e vari studiosi: “L'Europa esiste nella sua assenza”. Cit. in Carlo Curcio, Europa, storia di un'idea, Firenze, Vallecchi, 1958, vol.II, p.946.
(20) In A.Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, cit.,p.140.
(20) V. Pietro Nenni, Discorsi parlamentari, Camera dei deputati, 1978, p.443, discorso del 21 dicembre 1954. Contro la Ced erano, oltre ai comunisti italiani e francesi, i socialisti italiani e tedeschi. Ma con argomenti differenti. Carlo Schmid sostenne al Bundestag che la Ced avrebbe mantenuto per la Germania lo stato di Paese occupato, a sovranità limitata, e propose di dare la precedenza alla piena associazione della Repubblica federale alla Nato. A favore votarono i socialisti in Belgio, naturalmente, su impulso del grande europeista Paul-Henri Spaak, e in Olanda. In Francia i socialisti di Guy Mollet andarono oltre, finendo per essere i soli decisi assertori della Ced: un congresso speciale tenuto a Puteaux il 40 maggio 1954 decise, con 1.969 voti a favore, 1.215 contrari e 285 astensioni, la ratifica della Ced, e con 2.414 voti a favore contro 972, e 68 astensioni, sanzioni disciplinari contro i membri del partito che avessero votato contro.
(21) V.Pietro Nenni, I nodi della politica estera italiana, Milano, Sugar, 1974, p.218.
(22) V.Altiero Spinelli, “Note sulla non proliferazione”, in Lo Spettatore internazionale, marzo-aprile 1967, p.110.
(23) V. articolo cit.
(24) V. “The Washington Summit”, cit.
(25) V.Helmut Schmidt, “Die Nato gehört nicht America” (la Nato non appartiene all’America), in Die Zeit, 22 aprile 1999. L’intervento di H.Schmidt è stato riprodotto da La Repubblica il 24 aprile 1999 sotto il titolo “L'Europa e il padrone americano”.
(26) Nel saggio "Alcune riflessioni sulla guerra e sulla pace", 2002, ora nella raccolta A passo di gambero.
(27) Cit. in Roccella-Scaraffia, Contro il cristianesimo – l’Onu e l’Unione Europea come nuova ideologia, Piemme 2005, p. 48.
(28) Ora in Human Rights, supplemento 2003, p.7.
(29) Cit. in International Herald Tribune, 29 marzo 1999. Goldsmith, ora a Harvard, consulente alla Giustizia dell’amministrazione Bush, è l’autore di The Terror Presidency, un libro sugli aspetti legali della guerra al terrorismo e della guerra in Irak: l’applicabilità della Convenione di Ginevra che regola i conflitti, l’uso della tortura, la detenzione senza giudizio, le intercettazioni telefoniche senza mandato.
(30) Gli articoli di Einaudi “Junius”, in forma di lettere a Luigi Alberini, direttore del “Corriere della sera”, sono state ripubblicate in Lettere politiche, Laterza 1920. Junius era lo pseudonimo usato da Rosa Luxemburg nel 1915 per La crisi della socialdemocrazia, o Junius Pamphlet, forse in riferimento al cesaricida Lucius Junius Brutus, nel quale stabilisce l’alternativa “o il socialismo o la barbarie”, scritto in carcere contro il voto socialista al finanziamento della guerra.

giovedì 13 novembre 2008

È la fine del ciclo del mercato

Con Obama, e anche prima di lui, è la fine del ciclo del mercato che stiamo vivendo. Il quarto di secolo trascorso da Reagan e la Thatcher, all’insegna del privato è bello. Non c’è altro in agenda per il presidente americano neo eletto che un intervento pubblico per sanare fallimenti e correggere distorsioni. Sui salari, le tasse, l’industria dell’auto, il tessile, l’assistenza medica. Si tratta di ridare compattezza ai ceti medi (allargarli) e ricostituirne il potere d’acquisto. L’effetto deteriore del liberismo è di avere indebolito il corpo della nazione, come si dice in americano. Con l’illusione dei guadagni facili dell’assets inflation da un lato (fino alla quinta o sesta ipoteca sullo stesso immobile), e dell’ideologia individualistica.
Il punto di crisi e di svolta ha peraltro preceduto il voto americano, e anzi l’ha determinato, con i salvataggi delle banche e il pacchetto Paulson, la riserva di 700 miliardi di dollari da iniettare nell’economia Usa, e con i tagli precipitosi dei tassi di sconto. Una seconda crisi in pochi mesi, dopo quella dei mutui immobiliari, che vede ancora i fondi di ricopertura, hedge funds, annaspare ancora nella tempesta che hanno provocato, e il credito interbancario sempre in surplace, e con esso il credito alle imprese: Le banche insomma stanno ancora a guardare, non sapendo se e quanto sono malate.
Non è il disastro ma potrebbe essere, e comunque le regole vanno riadattate. Sui mercati internazionali è a una nuova regolamentazione che l’amministrazione americana è impegnata. Già prima di Obama, e forse malgrado Obama. A opera della Cina, seppure con cautela, e soprattutto dell’Unione Europea.
L’Unione ha chiesto nuove regole, e tiene aperta questa prospettiva contro le reticenze americane. Soprattutto a iniziativa del premier britannico Brown, sul quale l’Italia potrebbe allinearsi, smarcandosi dall’attivismo inconcludente di Sarkozy. L’assenza del governo Merkel dalla scena europea, a partire dal rifiuto del fondo di stabilizzazione comune proposto dall'Italia, riduce il peso contrattuale dell’Ue, ma i fatti ne ripropongono il ruolo.
La globalizzazione finanziaria ha surrogato il potere che il dollaro aveva perduto con l’inconvertibilità, e gli Stati Uniti non intendono naturalmente rinunciare al ruolo guida. La redazione delle nuove regole sarà quindi difficile. Ma non c’è alternativa.

Una spallata sindacale a Veltroni

La divisione dei sindacati è un fatto e non uno sberleffo o uno scatto di umore. Ed è un sfida a Veltroni più che a Epifani, a quello che rimane del vecchio Pci. Che si dilania a sinistra (non si sa più chi deve scindersi da chi), ed è sfidato ormai a viso aperto dalle componenti non Pci del partito Democratico. Il Pd è nato con questa stimmata, centralista, fazioso, antisocialista, antidemocristiano (la scelta di Di Pietro), che ora si rivolta contro Veltroni. Anche per l’evidente successo della governabilità (Napoli, banche, crisi, pubblico impiego, scuola, finanziaria) che depone per la durata di Berlusconi. Bonanni e Angeletti non sono le cinghie di trasmissione delle componenti non Pci del partito Democratico, ma si muovono per una scissione.
A lungo adagiata sulla “morte di Berlusconi”, sul recupero per bacchetta magica dei voti sottratti dall’usurpatore, l’ex Dc ragiona ora in termini di durata - con i pochi laici sparsi, usciti dallo zoo. La scelta di Casini, di smarcarsi dal suo scomodo padrone, tenta sempre più l’altra Dc, da Bonanni allo stesso Prodi (vedi Parisi). L’Ulivo non c’è più, per lo squagliamento della sinistra e dei moderati di Mastella e Rotondi. Mentre il partito Democratico non decolla. Non tanto a Roma, dove l’apparato propagandistico è ancora efficace, ma nella realtà delle province. Analoga impazienza sembra aver preso ultimamente i placidi Fioroni e Marini, analoga a quella del Roadrunner Veltroni - il runner è il personaggio preferito dei cartoons, quello che va di fretta. Ridono del referendum contro il grembiulino, e delle barzellette sulle barzellette su Obama, e ragionano come se fossero già in un altro partito.

Il giallo dell'eurocomunismo

I comunisti come già i fascisti. I reduci dell’idea, in realtà del Capo. Per la convinzione di essere la Storia, di fare la Storia. Che i miti danno, anche i semplici riti, come saltare il cerchio di fuoco, o battere la clandestinità. Riuscendo per questa identificazione totale a farlo credere anche ai nemici, e questo fa la loro forza. Anche attraverso i loro nemici.
In questo giallo del 1981 Vázquez Montalbán fa l’esame in tempo reale all’eurocomunismo. Quando cioè ancora si celebravano in Italia Andreotti e Berlinguer. All’eurocomunismo o “eurosborra”: “I comunisti fanno dichiarazioni pubbliche contro l’Urss perché all’Urss fanno gioco”. Attraverso il mistero della stanza chiusa, per fare autocoscienza. La stanza è quella del Comitato Centrale del Partito. In cui viene fatto fuori il capo Fernando Carrigo, quasi un anagramma di Santiago Carrillo, il capo del vero Partito comunista spagnolo.
È un libro dopo quasi trent’anni attuale. C’è il duplice gioco incancellabile. C’è già il gergo “vaffa”. C’è perfino la bomba alla stazione Atocha. Con la Spagna delle autonomie di Zapatero, ognuno è la sua tribù - le autonomie sono come il vino, “la Spagna sarà un giorno una federazione a denominazione d’origine controllata”. Con la deriva di tutto l’eurocomunismo verso la cucina d’artista e i vini – i paesi dell’eurocomunismo sono paesi del vino. Con l’expertise estesa anzi alle acque minerali, che non hanno specialità: tutto deve fare soldi. O la rivoluzione sempre, sia pure del gambero rosso, e del pranzo a cento euro.
Vázquez Montalbán era un socialista, pubblicato in Italia tardi, da Beppe Costa, benché già premio Planeta, il Viareggio della Spagna, e poi per il patrocinio di Sciascia, e volentieri dimenticato, non fosse per il Montalbano del tardo Camilleri. Questo “Assassinio” si vende al Remainder’s.
L’assassinio di Carrigo è quasi un suicidio, senza altra ragione. La fine del comunismo vene apparentata a quella di Cavallo Pazzo, degli indiani che si ribellarono per essere confinati nelle riserve. Ma una previsione è sbagliata: “L’ora della verità arriverà nel giro di quindici o venti anni, quando non ci saranno più eroi della lotta contro il franchismo e le basi saranno tornate definitivamente antiliturgiche”. Neppure Montalbán prevedeva Zapatero.
Manuel Vázquez Montalbán, Assassinio al Comitato Centrale

Montalbano innamorato

Camilleri salta subito in testa alla classifica. Sempre con Montalbano, anche se il commissario è appesantito – ma beneficia stabilmente, perché non dirlo, dei film che Carlo Degli Esposti e Alberto Sironi ne hanno tratto, con le ultime serie dei quali esce in contemporanea (le prime serie, quelle a budget non punitivo, resteranno nelle teche Rai come gli insigni sceneggiati di una volta, “La baronessa di Carini“ et al.). Questa volta però una novità c’è: Montalbano si innamora. Sul serio, non ci dorme la notte.
Camilleri, narratore scettico e anzi irridente, come il suo maestro Vázquez Montalbán, il suo protagonista lo tiene fidanzato, da trent’anni, con una signorina ormai cresciuta e anch’essa astinente che sta a Boccadasse, a duemila chilometri di distanza. Questa volta lo “squasi sissantino” commissario invece s’innamora. Il plot non è dei migliori. Anche perché Montalbano è innamorato ma stanco, perfino in trattoria non ha più “gana”, gli manca solo il fritto di calamari e gamberi. Ma finalmente i personaggi si toccano.
Persiste e si rinnova il fenomeno Camilleri. Che scrive in siciliano, anzi in un suo siciliano che per molti siciliani è arduo. Che è latino per costruzione - gerundio, consecutio, ottativo, terminazioni, radicali. In parte anche intuitivo: “Scassare i cabbasisi”, “che camurria”. Ma è pur sempre un vernacolo. Inoltre, è volgare e farsesco: un Catarella è inesistente, tanto è analfabeta e semplice. Montalbano stesso non è tanto normale, così fisso ormai da quindici anni nella stessa situazione, di vita, di lavoro, di affetti. È un non affettivo, non è nemmeno antifemminista. Sarà per questo che è molto popolare.
Montalbano pratica la ritenzione. Che non corrisponde a nessun tipo umano, neanche al Sud. Se non nell’epica antimatrimonio. Che Camilleri vorrà corretta, eticamente, politicamente, e invece è ipocrisia a tutti gli effetti benché introiettata, neanche più avvertita, questa ammuina costante in funzione di amore. Ma è comprensibile e piace evidentemente, poiché Montalbano scala sempre le classifiche. E non repelle, come il vernacolo. È la solitudine saggia dell’uomo nato stanco – anche nel lavoro entra a ritroso, tirato dagli eventi.
Ma è pure, propriamente, il mondo del Sud. Nei personaggi più che nei luoghi che i film magnificano. Per il modo di essere più che per quello che dicono: personaggi diversi, fuori norma, fuori schema. Con spessore, anche se fuori del “tipo” psicologico. E il contesto, anch’esso fuori dagli “schemi” sociologici, ma reali.
Andrea Camilleri, L’età del dubbio, Sellerio, pp.267, € 13

martedì 11 novembre 2008

La mobbilitazzione

Ogni settimana c’è un viaggio a Roma per il Centro Italia. In media. Un’organizzazione di bus e treni speciali a opera delle federazioni sempre in piedi dell’ex Pci, e della Cgil. Che portano a Roma fra il mezzo milione e, finora, i tre milioni di persone, più di tutti i romani, Ostia e Fiumicino comprese. Si dice che vengano da tutta Italia. E qualche vagonata di napoletani c’è. Ma è residua, i napoletani non ne hanno più voglia, benché la gita sia gratis. Mentre non ci sono i lombardi, i piemontesi e i liguri, non i triveneti, né i pugliesi, i siciliani e i sardi.
Cinquanta-sessanta gite politiche di massa costellano la vita a Roma ogni anno. Specie a ottobre-novembre, per la famigerata finanziaria, ormai sinonimo di tagli e tasse. Sabato 24 ottobre 2008 Veltroni ha mobbilitato i suoi, due milioni e mezzo di persone, anch’essi più di tutti i romani, per venire da ascoltarlo, anche se non ha nulla da dire. Giovedì 30 i sindacati hanno mobbilitato i loro, un milione di persone. Venerdì probabilmente altrettanti torneranno. Roma c’è abituata, ha milioni di turisti, e quindi sa incassare le folle. Anche se, purtroppo, la mobbilitazzione è invenzione mussoliniana, l’adunata oceanica – in questo Asor Rosa ha ragione, stiamo peggio che nel fascismo: almeno lì il nemico era dichiarato.
Tra una mobbilitazzione e l’altra il centro di Roma è comunque occupato un giorno su due: dagli studenti, dalle mamme con i bambini dell’asilo, dai gay, dalle prostitute, dai difensori dei rom, e dai nemici dei rom. E anche a questo la città è abituata: sono un maniera diversa di trovarsi insieme, forme festose. È pure commovente che, mentre il mondo cambia ("crolla"), i riti in Italia restino immutabili. Anche se, ogni azione tende a un fine, si sa, ma la gita a Roma che effetti produce? Abbatte il governo? Lo scuote? Abbatte i baroni? Porta più soldi? Il blocco dela didattica a Scienze a Firenze, locale, limitato, ma vero sciopero, che ha ributtato indietro all'università i (pochi) soldi dei precari, ha creato e crea più problemi che le adunate.
Il solo effetto che si vede è la formazione dei quadri politici attraverso la mobbilitazzione. Forse i ragazzi hanno sentito che l’età dei capolista alle elezioni si abbassa sempre più, siamo ai venticinquenni. Forse i partiti nascenti puntano ai giovanissimi. Fatto è che da quasi un mese, tra manifestazioni e contromanifestazioni, un volta si sarebbe detto tra sinistra e destra, piccoli gruppi di ragazzi s’inventano ogni giorno una forma di protesta per andare sui giornali. Pensando di rifare il Sessantotto, ma quello che ripetono è il linguaggio di “Porta a porta” e di Santoro. Che è il linguaggio della politica, certo.
Ecco, la novità è che la politica non si può più permettere i funzionari. E utilizza la mobbilitazzione per averli gratis. È il mercato.

L'avventura è la lettura

È scrittore-questore il letterato più colto del secolo, che legge Tucidide in greco, il tedesco, l’inglese, pratica la filosofia, è esperto di retorica. E per questo è isolato: lo scrittore italico si vuole romanticamente all’attacco della sapienza, costituita a muro contro i sentimenti e la “vita” – da ragazzi di vita, uomini di vita. Non è uno che possieda i suoi mezzi – vedi Tolstòj e gli altri russi, Dumas e gli altri francesi, Fielding e gli inglesi – anche se talvolta li rinviene. Per un successo che intende non creativo ma “mondano”, cioè sociale. È uno cioè che non sa nemmeno del mondo – semplicemente non sa. Questi scrive. Quello che sa non scrive, o si avvita imperscrutabile, leggendo e imparando si è già divertito molto – il secondo scrittore più colto, con meno greco e più attenzione al mondo, è Carlo Emilio Gadda, il quale però, essendo ingegnere e non uomo di legge, ha calcolato bene le forze, puntando sulla “funzione Gadda” di Contini, una cifra che è un mondo (legge leggendosi).
Antonio Pizzuto, Lezioni del maestro

domenica 9 novembre 2008

Il racconto del Novecento

Una summa della capacità di Citati di criticare narrando. È un’antologia personale, che parte dalle prime esperienze di critico scrittore. Molto selettiva: severo nelle letture, Citati lo è anche con se stesso, molto ha tralasciato dei suoi scritti in questa raccolta, che dice “mediocri”. La scelta è quanto di più vicino è probabilmente a un’autobiografia - che Citati, biografo sensibile, ci risparmia, l’epoca è allo sbrodolamento, sembrava impossibile dopo le tante zie, ma ora la cifra è il “Grande Fratello”. Ne “Il male assoluto” Citati aveva dato nel 2000 una summa tra le più significative dell’Ottocento. Qui ripercorre il suo Novecento. Partendo da Conrad, come ne “Il male assoluto” da Goethe, i precursori del nuovo secolo. E tutto o quasi tutto si rilegge come nuovo. I tanti ricordi degli amici, Gadda, Fellini, il ritratto di Tomasi di Lampedusa, l’inquietissimo Bertolucci, alla fine padre del proprio figlio, le lettere di Pirandello a Marta Abba. Senza dimenticare Hofmannsthal, per più aspetti il doppio dello stesso autore, Pessoa, il poeta del desassossego, Blixen, Citati è a più di un titolo cittadino europeo.
L’inappartenenza è il filo conduttore della narrativa di Citati, sottile e robusto, l’estraneità. Talvolta insidiosa, traditrice. Perfino Bassani, dice Citati, l’autore più tranquillo e “normale”, viene sommerso dall’inquietudine, scoprendosi quello che non sapeva e non immaginava, “un ebreo, un paria, uno straniero”. Più spesso professata dagli stessi protagonisti e quasi una bandiera. La voglia di essere altrove che viene dalla scoperta dell’imperfezione – la quale, però, fu fatta prima di Gesù Cristo.
Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Mondadori, pp.560, € 22

Il 68 no, ma il 67, signora mia...

Arbasino vuole continuare a essere il social scientist della cultura, e dell’Italia. Con il consueto insight, teorico e pratico. A p. 13 in tredici righe c’è tutta la letteratura italiana: le ultime parole famose di patrioti sotto i patiboli, le guerre, fatte e non fatte, i piccoli maneggi culturali, gli affetti domestici, con le malattie di mamme e nonni, le vite ermetiche al caffé, il transito dai Littoriali al Soviet tramite la Resistenza, le storie attorno a Mamma Rai. Se non tutta, per tre quarti c’è tutta la narrativa. Con gli elenchi rabelaisiani prediletti. Con l’incredibile, pittorica, memoria. Ma ora con tristezza, camuffata da nostalgia, per l’irrimediabilità – non c’è limite al peggio.
Arbasino, seppure affettato, scrive per il lettore: chi ama leggere, anche meno di un libro al giorno, anche solo una pagina, un capoverso. Brillante, arguto. Specie nella mimesi dei linguaggi correnti, per l’ossessione della non significanza – e allora dove va la società, la politica? È da un trentennio il poeta “civile” della contemporaneità – lo snobismo sarà il migliore punto di osservazione di una decadenza democratica. Seppure misconosciuto, per non essere un compagno di strada, non affidabile, pervicace solitario. Riottoso, benché beneducato. È la sola voce laica in circolazione, e senza ammiccamenti, a differenza dei suoi coetanei, anzi severo, benché scherzoso.
Questo nella prima metà, proseguendo le serie di “Rap!” e l’appassionato “Paesaggio italiano con zombi” di fine millennio. Nella seconda, “Memorial”, Arbasino prosegue implacabile il campionario, avviato su “Repubblica” nel nuovo millennio e proseguito con Gadda (“L’Ingegnere in blu”), degli anni 1950 e 1960. L’ennesima riscrittura, a rate, di “Fratelli d’Italia”. Con una chiave di verità, seppure non voluta: lo fa in polemica col Maggio. Secondo il principio che il Sessantotto no, non si può. Non solo il quarantennale, ma nemmeno l’evento. Mentre il Sessantasette invece… La nostalgia è della cultura come vita dello specialissimo ventennio, suo e dell’Italia. Il genere di giornalismo in auge con la Fallaci, senz’altro preferibile alle paginate da ufficio stampa di questa o quella velina, tutte peraltro integerrime, col loro robusto calciatore. Sempre per la morale: al peggio non c’è limite.
La nostalgia è di “Sessanta posizioni”, i vagabondaggi in Francia, Germania, a San Francisco, che sempre sorprende Arbasino per l’ingegnosità del farsi, e nella London ex swinging, tra i saggi del secolo. Un panorama che, rivisitato oggi, appare deserto. Quello sì kitsch, o cheap, insomma sciocco, tanto è pretenzioso e vacuo. Il problema di Arbasino, dopo i “Rap!” e gli “Zombi”, è che non c’è più niente da irridere. L’Italia è inconsistente. È un corpo morto, seppure imbrillantato. E non nelle “vite basse” ma nelle migliori famiglie, nelle quali l’autore si è costretto. E dunque la satira graffia a vuoto, punge sul grasso, per essere Swift ci vuole una società ben solida da aggredire. Klaus Wagenbach, quivi citato, lamentava a Torino vent’anni dopo, nel 1992, o era il 1994, che “la letteratura è fatta qui dai giornalisti”, qui in Italia, lo lamentava con lo “scrittore giornalista”, uno dei tanti. È tempo più che altro di tebaide.
Le vite basse ci sono sempre state, è la loro natura, il trito della vita, e non urtano nessuno. Sia le “signora mia” e le casalinghe di Voghera, che le loro figlie: sono modeste e non contano. A meno di non farle lievitare, con le cattive amicizie e il democraticismo d’obbligo, a Paese, che per di più si pretende civile. Anche se al loro desco si mangia male, arricciando il naso. Il Sessantotto sarebbe piuttosto Arbasino - lo scrittore è sempre incinto prima del tempo giusto. Meno il birignao, o con un birignao diverso.
Alberto Arbasino, La vita bassa, Adelphi, pp.112, € 5,50

Se la mafia induce demenza

Un testo, purtroppo non isolato, che è la demenza “perfetta”. O perfetta sindrome del complotto: la storia d’Italia fatta dalla mafia. La mafia (Gioia, Lima, forse Gullotti) vota Fanfani al congresso di Firenze, ottobre 1959, quindi vota il centro-sinistra. Centocinquanta pagine, e la revisione della storia, su un articolo di Pietro Zullino, che si chiama fuori. Un articolo vecchio di venti e passa anni.
Per quanto, lo storico è probabilmente sopravvalutato. Ha scritto una biografia di Fanfani, per Feltrinelli!, senza mai incontrarlo. Era lui che doveva provare la mafiosità di Andreotti al processo di Palermo, e lo ha fatto assolvere, e ora Andreotti non è più il capo di Lima. La miseria del Sid è anche qui, senza colpa.
Giorgio Galli, La regia occulta