martedì 25 novembre 2008

La "guerra" che piace a Andreotti

Che Manconi e Andreotti siano d’accordo per dire quella col terrorismo brigatista una “guerra” non è sorprendente. L’Italia è sempre vittima del compromesso storico. Sorprendente è la sorpresa di Morucci, che pure fu sbadato soldato delle Br, ma pur nella sua superficialità non pretende a tanto. E il coraggio, finalmente, di Virginio Rognoni. Che, dopo aver servito il compromesso storico fino a recente quale vice-capo del Csm, finalmente ha scritto al “Corriere della sera” che non fu una guerra.
È un coraggio non da poco, poiché mette l’ex ministro dell’Interno in urto con i “padri” della “guerra”, Cossiga e Andreotti, che su questo non l’hanno mai perdonata a nessuno. E potrebbe essere l’inizio di un po’ di verità su quegli anni terribili. Rognoni, che sicuramente la conosce, non la dice. Ma citando l’etica e il diritto internazionale di guerra indica dove e come il terrorismo si radica, e si nasconde. Che comincia, è bene ricordarlo, non con le Br ma con le bombe di Milano del 1969, quelle dimostrative alla Fiera e quelle mortali di piazza Fontana. Rimaste impunite per connessioni evidenti con i servizi segreti nazionali e per manipolazioni degli stessi.
Che fosse una guerra oppure no non è questione irrilevante. Nella lotta al dissenso interno, fino al terrorismo compreso, gli Stati hanno le mani legate: gli Stati non possono combattere il terrorismo con le armi del terrorismo, segretezza e violenza indiscriminata, sarebbe illegale e non è etico. È diverso se lo Stato è in guerra: ogni guerra si combatte per vincerla, con tutti i mezzi possibili.

Il Kossovo, Sicilia della Germania

I banditi del Kossovo mettono le bombe all’ufficio dell’Unione europea, e ne incolpano gli agenti segreti della Germania. Che sono consulenti dei loro servizi segreti. Era inevitabile, ed è anche giusto che sia così. La Germania, che per la tradizionale politica antislava - la Germania di Kohl come quella di Schröder e ora di Merkel - ha fortissimamente voluto la dissoluzione della Jugoslavia e le più cruente guerre civili del pur cruento Novecento, incontra, come si suol dire, pane per i suoi denti. Un po’ preoccupata del regime mafioso messo al potere a Pristina nell’ultimo atto della guerra slavica, voleva limitarne le pretese di finanziamento illimitato senza garanzie di democrazia. E la mafia ha reagito.
Non sarà difficile alla Germania liberare i suoi agenti segreti. Ma la reazione di Pristina ricalca noti modelli mafiosi, di cui difficilmente la Germania potrà liberarsi. Questo Kossovo insubordinato e irrispettoso sembra la Sicilia dal 1982 al 1993, quando Riina assassinava Dalla Chiesa, Lima e i migliori giudici, e attaccava con le bombe mezza Italia, per “avvertire” e ricattare i suoi protettori. Meno cruento, certo, ma con la forza di uno Stato.
Per una volta è la Germania che si prende le mafie dell’Est, non più l’Italia, come già con l’Albania e la Romania. E uno non può non complimentarsi, per lo scampato pericolo, e per la Schadenfreude. Ma il quesito ritorna: è il comunismo sovietico che, dopo quarant’anni di dura legge ha lasciato le società allo stato barbaro, o è l’Europa che è incapace di far fronte alle mafie? Per debolezza, per corruttela?

Nella crisi meglio precario che stabile

In Alitalia, quello che ne resta, come in Telecom Italia, in banca, e nella stessa Fiat, non tremano le attività di servizio, quelle che impiegano i precari, ma le aree di produzione. A rischio non sono i venditori o i call center, i cinquecentomila di cui si parla, ma i lavoratori stabilizzati in azienda. Se la crisi dura e si aggrava una ristrutturazione s’imporrà radicale come quella di quindici anni fa per effetto della globalizzazione. Ma non si elideranno le attività di promozione e commerciali, che al contrario vanno intensificate.
Altri due motivi giocano a favore dei precari rispetto ai lavoratori stabili nella crisi: costano meno, e alla sommatoria offrono più professionalità. Se vanno addestrati alle procedure a alla mission dell’azienda, sono però di formazione più recente e aggiornata, e hanno più interesse alla crescita professionale propria, e quindi dell’azienda.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (26)

Giuseppe Leuzzi

A Milano “tutti terroni”. Dice bene Sgarbi col suo nuovo libro, Clausura a Milano, sull’amata-odiata “suor Letizia” (Moratti): “È in Sicilia che c’è da sempre la vera civiltà”. Da padano sindaco di Salemi, che ora “è meglio di Milano”. Dopo essere stato deputato della Locride, di cui è vero che ha risanato con pochi gesti molti borghi, Gerace, Ardore, Serra San Bruno.
Come padano è anche orgoglioso di avere coniato per Bossi la Padania. Che però vuole si dica Padanìa, con l’accento sulla i. E questa è terminazione castigliana, dei disprezzati spagnoli del famoso italico romanzo.

Bisogna parlar male di Milano. Ma è Milano che salva Napoli. Il milanese “migliore”, cioè peggiore, Berlusconi. Che, perseguitato da quindici anni nella sua città dai giudici napoletani, tentò nel 1994 di riportarci il Rinascimento col G 8. Poi, appena ne ha avuto l’occasione, l’ha ripulita della mondezza. E ora studia il ri-Rinascimento col museo Archeologico - che davvero è “troppo” (ricco, bello), non solo per Napoli. Da Napoli non ricevendo un grazie, e anzi solo le lacrimevoli intercettazioni con Agostino Saccà. Di cui nulla resta, molti giudici si sono dovuti pronunciare, sebbene a malincuore, per il nulla di fatto.
Nulla, eccetto la rovina di Saccà. Sempre Napoli si è fatta forte di iugulare i calabresi.

A Napoli lo squallore non è la povertà ma la perdita della grazia naturale. Dote visibile nell’arredamento della terra, i richiami di luce, la disposizione degli spazi (palazzi, piazze, strade, giardini), l’apparente naturalezza di ogni manufatto, dal bosco al fiore, dalla piazza al basso. Nella città, sul Vesuvio, nei Campi Flegrei, nella costiera, nelle isole – fin dove Napoli arrivava.
È una perdita del dopoguerra? Di ottant’anni fa? Di cent’anni fa? Per quale invasione? O mutazione genetica? A Napoli è arrivata l’Italia.

Per Mario Soldati, Fuga in Italia, “questi uomini”, gli italiani del Sud, “non sono ancora cristiani”. Cristiano è chi ha imparato “a distinguere tra il bene e il male: e a porre, in questa distinzione, la propria dignità”. Al Sud “manca proprio questa educazione e questa dignità”. Gli uomini del Sud “adorano l’astuzia, e il peggior giudizio che diano di un loro simile non è già quello di malvagio, bensì quello di «fesso»”. Al Nord, com’è noto, invece no.
Così nasce l’antropologia.
Soldati, in questo nuovo millennio, lo pubblica un’editrice del Sud, Sellerio. Si dev’essere cristianizzata.
O forse con “questi uomini” del Sud Soldati intendeva proprio i maschi, escludendo le donne.

Di tutti i compagni alle elementari, una trentina, solo cinque sono rimasti in paese, e due delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o ritardatario. Della famiglia, i figli sono stati da quarant’anni a Roma, due per lavoro, una per matrimonio. Dei nutriti collaterali per parte paterna – quarantuno primi cugini - tre famiglie, genitori e figli, si sono trasferite a Roma, per studio e per lavoro, una al Nord, e una sola è rimasta in paese.

“Così e non peggio”, era un modo di dire in Calabria. Di rassegnazione o di saggezza?

La Sicilia è vittima – costante, senza eccezioni, anche nei siciliani intelligenti – del suo spirito “tragediatore”: da Lampedusa allo stesso Sciascia, e a Riina naturalmente, Badalamenti, Inzerillo e altri balordi. Si può essere certi che tutti i siciliani ci cascano, anche quelli di maggior fortuna all’estero, come Sindona e Dell’Utri – solo Cuccia vi si sottrasse, dicendosi siciliano ma tenendosi a distanza. La sindrome del potere che la mafia rappresenta come opera dei pupi. Quel delirio innecessario e inutile di onnipotenza, tanto più in una terra cui la natura vuole bene. Perfino i terremoti, che hanno preservato le antichità.

La Sicilia non è irrilevante, malgrado la retorica.
È porta del mito, che per i siciliani è realtà: l’eccesso. Ed è mentale, malgrado i turgori e la natura amica. Malgrado vini, i dolci, i mari.

Le isole hanno buona memoria, si conservano bene.

Discorso sulla mafia
Il modello metropolitano (Arlacchi, Saviano) meglio si attaglia alla criminalità organizzata che quello arcaico. La stessa faida è quasi sempre una violenza avida, o disperata.

Riletto dopo quindici anni, Giorgio Galli, La regia occulta, è la demenza “perfetta”. O perfetta sindrome del complotto: la storia della Repubblica fatta dalla mafia. La mafia (Gioia, Lima, forse Gullotti) vota Fanfani al congresso Dc di Firenze, ottobre 1959, quindi vota il centro-sinistra. Centocinquanta pagine. Sulla fonte di un articolo, per un settimanale illustrato, di Pietro Zullino. Il quale però si chiama fuori. Un articolo vecchio di venti e passa anni.
Per quanto, lo storico è probabilmente sopravvalutato. Ha scritto una biografia di Fanfani, per Feltrinelli, senza mai incontrarlo. Era lo storico che doveva provare la mafiosità di Andreotti al processo di Palermo, e lo ha fatto assolvere, e ora Andreotti non è più il capo di Lima. La miseria del Sud è anche nei suoi interpreti, senza colpa.

Si può dire la mafia l’opera dei pupi della malvivenza. Senza serietà. I Riina e i John Gotti sono terribili, truculenti, smisurati, e purtroppo reali, i loro morti squartati, mutilati, dilaniati, sono veri. Ma non hanno altro spessore che quello di un cattivo teatro. Non hanno effetti, non lasciano traccia, protagonisti da trovarobato dela cronaca indigente.
La mafia è in questo la Sicilia: un linguaggio scomposto, di marionette sfuggite al teatrino.

È la minaccia quotidiana – la barbarie. Delitti avvengono ovunque, e sono più numerosi e spesso più efferati altrove che nelle aree mafiose. Ma in queste aree sono una rete, minacciosa anche quando non si attua. Che condiziona il modo di essere prima che gli eventi.
L’antimafia al contrario può solo essere sugli eventi. Ma non è per questo debole o indifesa. E anzi potrebbe salvarci: la mafia si distrugge colpendo – impedendo, prevenendo, condannando – il reato. Ma si atteggia anch’essa a rete, a specchio della mafia, ed è così improduttiva e anzi glorificatoria. Aggiunge condizionamento a condizionamento. Tipica la condanna di chi paga il pizzo piuttosto che del mafioso che lo impone: si toglie il respiro alla libertà, riducendola al compimento di un obbligo procedurale.

È la democrazia andata a male. Una democrazia radicale, senza regole.
È eversiva come la democrazia non regolata. È il lato debole della democrazia, in cui inevitabilmente vince il peggiore, anche soccombendo. Ance soccombendo, monopolizza e svilisce le forze migliori, sempre tiene in scacco le forze costruttive.

Uccidere e farsi uccidere è il proprio del mafioso. Non per arricchimento, se non come mascheratura di questa forma di annientamento: nove mafiosi su dieci muoiono poveri, sporchi, selvaggi. L’annientamento è sfrontato come manifestazione di potere, e in effetti lo è: è il terrore, destino eccezionale, infliggere paura, subirla. È l’equivalente del rivoluzionarismo latinoamericano (messicano, colombiano, peruviano): non un disegno politico o un progetto, ma il potere che dà l’annientamento.
Il controrerrore è l’antimafia vincente, come lo è stato contro il terrorismo, con le stesse controindicazioni. Uno sfogo alternativo a questa energia di annientamento non è agevole. Facendoli sbirri, come si è visto, sotto forma di pentiti, non muta il gene del vizio. L’istruzione e l’arricchimento non hanno mai funzionato.
Teoricamente, in alternativa all’annientamento c’è la presa del potere: la mafia si sconfigge facendola classe dirigente. Alla sommatoria finale si perderebbero meno vite, tempo e risorse che nella normale, repressiva, azione di contrasto. Il potere di nuocere è infinito e mette in scacco, bruciandole, seccandole, le risorse migliori.

Con la mafia non si tratta anche perché è anarchica. Per questo è sbagliata la politica degli informatori in cambio di soldi o favori, qual è la prassi nelle aree mafiose, dove tutti si denunciano: c’è sempre un altro mafioso nuovo e incontrollato. Qualcuno, è vero, è anche incontrollabile.

domenica 23 novembre 2008

Come l'imbonitore B. divenne "Lo statista"

Il debutto è in sordina per un vice-direttore e opinionista di “Repubblica”, nonché direttore di “Affari & Finanza”. Forse perché non lascia scampo alla sua parte politica. Massimo Giannini non nega più fatti ormai innegabili, mettendosi sul piano storico, come ormai è possibile, e comunque fuori della ormai quotidiana polemica. “Queste ultime cinque legislature saranno ricordate come il Ventennio berlusconiano”, esordisce la presentazione. Il sottotitolo non è lusinghiero, “Il ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo”. Ma di fronte al contenuto sembra una captatio benevolentiae del lettore naturale del saggio. Giannini fa carico di Berlusconi alla sinistra: che un venditore, bravo quanto si vuole ma insomma un imbonitore, sia diventato uno statista, che detta l’agenda politica, e la risolve anche, è soprattutto una sconfitta della sinistra. In regime democratico, poiché l’Italia, malgrado il fascismo di qualche giornale di buona reputazione, è ben un paese democratico.
Berlusconi è uno specchio della sinistra. Una scimmia allo specchio, che ripete e accentua i movimenti che vede, l’approssimazione, l’ipocrisia, il gigionismo, in una scena ridotta a vaudeville. E tuttavia mancano alla requisitoria di Giannini, così solida nell’etica, alcuni dei fatti più importanti, tra quelli innegabili. Berlusconi intanto è nato alla politica con Mani Pulite. Che è stata ed è “obbiettivamente” un golpe di destra, anche se l’ex Pci ha pensato e s’illude di governarlo: l’uso politico della giustizia è di destra. Ed è specchio della sinistra anche nella corruzione. Con la sua coorte di avvocati a vario titolo imputati e condannati. Essi fanno il paio dei procuratori col coltello tra i denti, che la funzione superiore della giustizia riducono ad arma di corrente politica: la lotta alla corruzione non può essere selettiva, altrimenti è corruzione.
Sposta milioni di voti
Il fatto più importante che manca è quello politico. Di cui già da tempo si doveva fare il bilancio, ce ne sono tutti gli elementi. Il dato è che domina la politica italiana un uomo d’affari in combutta con i fascisti e con i leghisti. Quanto di più deprecabile. Ma di due partiti violenti, che minacciavano di monopolizzare l’Italia e spaccarla, dopo il disastroso golpe giudiziario, ha fatto due pilastri, bene o male, dell’ordinamento costituzionale. Dopo aver riportato al voto i laici e i socialisti, e aver catturato una buona metà del voto democristiano che altrimenti sarebbe andato a Fini e Bossi. Spostando a destra a ogni elezione fra i due e i cinque milioni di voti, fra i quattro e i dieci punti percentuali. Questo non è fascismo.
La contemporanea pubblicazione da parte di Berlusconi del suo manuale pubblicitario “La forza di un segno” conferma che l’effetto è ricercato. Moderno e argomentato, quindi, e non agitatorio. Non un fenomeno da Luna Park, e nemmeno populista, come Giannini presume. Forse per il residuo snobismo del suo giornale, che considera gli italiani un popolo di cialtroni. O forse manca pure a lui, malgrado i buoni propositi, come a tanti delusi dalla sinistra la tranquillità d’animo necessaria a mettere Berlusconi a fuoco prima che nel mirino.
Miglior milanese
Ma sarebbe anche il tempo di fare i conti col quarto dato di fatto berlusconiano, che non il solo Giannini omette, benché il più evidente di tutti, anche se arduo da documentare. Che Berlusconi è il “miglior milanese”, per quanti nasi arricciati possa incontrare nella sua città. Avido cioè e abile, costante, profittatore, e buono. Molto buono.
L’Italia è governata da quindici anni da Milano, di cui quest’uomo astuto e capace è l’esito migliore. Eccezionale se confrontato agli altri milanesi illustri: gli interisti Moratti e Tronchetti Provera, i Guidirossi moralisti fallimentari, i becchini di Mediobanca, i banchieri pelosi della Curia. Con tutti i “789 giudici alle calcagna”, che lamenta con De Benedetti, l’editore di Repubblica. Da quindici anni i napoletani di Milano lo oberano di accuse, Borrelli, D’Ambrosio, Boccassini, Di Pasquale, Greco, anche di mafia e di droga, ottenendo sempre comprensive condanne dai tribunali della città. Ma è che Milano è misericordiosa. Infatti ha tolto a Napoli la spazzatura dalle strade, vecchia di un paio d’anni. Che storia, se questa Milano frou-frou, o fregnacciara, non avesse disintegrato l’Italia. Nel mentre che si arricchisce.
Massimo Giannini, Lo statista, Bcd, pp. 260, € 17,50

In italiano i libri valgono doppio?

“Il calore del sangue”, l’ultimo romanzo di Irène Némirovsky, si vende in Francia a 5 euro (5,50 nelle librerie francesi in Italia), e in italiano a 11, sempre in edizione economica. Perfino il vendutissimo Camilleri costa in francese la metà che in italiano: Montalbano si vende, tradotto, a 5-6 euro, contro i 12-14 dell’Italia. “I Puritani” cantati dalla Bartoli all’uscita si comprava a 23 euro su Amazon.fr, a 37 in Italia. Un libro scientifico che su Amazon.fr si vende a 95 euro, su analoga libreria italiana online si vende a 126. Per non dire di Amazon.com, dove lo stesso libro è disponibile a 111 dollari, appena 86 euro. Il confronto con i libri italiani lo reggono solo quelli inglesi – non però se si elimina la differenza di valore di cambio fra sterlina e euro.
Quello dei libri americani e di Amazon.com è tutto un caso particolare, al di là anche del cambio di favore sul dollaro. La “cultura” in America è disponibile a prezzi talmente bassi che la Dogana e Poste Italiane la tassano nuovamente con l’Iva e la gabellano di nuove spese di spedizione, in modo da metterla fuori mercato. Certamente preoccupati di proteggere il petrimonio culturale nazionale. Fatto certo apprezzabile: si può apprezzare che la “cultura” sia in Italia così apprezzata da diventare cara. Ma perché proteggerla, se è così robusta?
Non si vede peraltro dove e in cosa è migliore. Non sono migliori l’arte tipografica, la carta, la legatura. E d’altronde la stampa sempre più spesso si fa delocalizzata, in Albania, in Romania, perfino in Cina (molti libri illustrati per bambini). Il risultato è che, almeno quest’anno, si comprano meno libri. In recessione il prezzo fa molto. Il libro non pesa come l’automobile, e tuttavia è anch’esso un “consumo” elastico, in rapporto con il reddito e con il prezzo: subito si contrae a una variazione negativa dei parametri. Le catene librarie e le librerie online si affannano in promozioni e sconti in serie, ma il prezzo cosiddetto industriale è malthusiano.

Il sesso è il male

Il “calore del sangue” è il sesso, che è nefandezza e morte. Questo romanzo, perduto e ricostruito dopo quasi settant’anni, fa emergere l’orrore del reale fisico che è il filo dell’opera di Irène Némirovsky. Qui alleviato dalla suspense, di storie che contengono (nascondono) altre storie, sempre compreso e perdonato nella curiosa-dolente concezione della vita.
Il romanzo è un “enigme à tiroirs” per i biografi Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt, che lo hanno ricostruito. Questo per la tecnica narrativa. Il sentimento è tragico. “Il più grande servizio che possiamo fare ai nostri figli è di lasciargli ignorare la nostra propria esperienza”, dice la forte-debole protagonista. È l’ingombro personale della scrittrice, l’ingombro della genealogia e della tradizione. Prima della morte a Auschwitz, che niente lasciava presagire.
Irène Némirovsky ha messo a disagio i suoi lettori ebrei, nell’attuale fase di diffidenza che attraversa il mondo ebraico, e ne è rimasta presto vittima. Lasciando diffidenti anche gli estranei alla querelle. Il successo di “Suite francese” si può dire già seppellito con la ripubblicazione di “David Golden”. Strano destino, essere incompresa dopo il lungo oblio, per quello che è stato il suo dramma personale, nella sua intima coerenza. E tuttavia è scrittrice che non si può cancellare.
Némirovsky, Il calore del sangue, Adelphi, pp. 155, €11.

Calvino l'ordinatore

Si conferma che Calvino è piacevole “ordinatore” – la sua opera più stabile rimarrà la raccolta delle fiabe, alla Perrault, alla Grimm. È miglior analista che scrittore: sa quello che vorrebbe scrivere meglio di quanto riesce a dire narrando, vivace nella critica quanto noioso nel racconto. Ma anche nella critica arriva dopo: non inventa ma dà ordine. È piacevole perché è colto e educato, preciso e chiaro, nelle schede, gli articoli, i saggi, in queste lezioni. O meglio, è acuto. Quanto a scrittura, anche qui è faticoso: “Prima ancora che la scienza avesse ufficialmente riconosciuto che l’osservazione interviene a modificare in qualche modo il fenomeno osservato, Gadda sapeva…”, si potrebbe dire, forse con più esattezza, sicuramente con più pregnanza, con metà delle parole.
Italo Calvino, Lezioni americane

I giovani letterati settantenni

Per una coincidenza vengono alla lettura cinque testi di ultrasettantenni, che si gustano come i più nuovi. L’ultimo Camilleri, 1925, della serie Montalbano, le tre memorie del Novecento di Citati e Pedullà, 1930, e di Magris, 1939, uno storico della letteratura, un contemporaneista (“critico militante”) e un filologo, e l’ennesimo vagabondaggio del social scientist Arbasino, 1930, nel futuro dell’Italia, la gioventù. Se si rifacessero i campionati letterari per anni, non si troverebbero ultimamemente tanti libri di maggiore interesse.
Sono autori del resto che sempre hanno un libro nuovo, l’incontinente Camilleri è a uno al mese, Citati, Pedullà, Magris e Arbasino uno l’anno. Ma non deludente, e anzi solitamente innovativo e fantasioso. Un libro da leggere anche nel trito genere della collettanea, della raccolta di scritti sparsi e d’occasione. Senza dover litigare, come usa fra i giovani all’anagrafe, per imporsi in qualche modo all’attenzione, fino a imitare il reality, imitazione dell’imitazione.
Sono autori creativi, imprevedibili cioè e non scontati, ognuno diverso dall’altro, che fa il bello della lettura. E a uno sguardo anche trepido sulla contemporaneità sembrano esaurirla. Con pochi innesti – tra cui almeno un altro paio di settantenni, Merini, Eco. Hanno anticipato e meglio esprimono l’Uno dei Wu Ming, l’unidentified narrative object.
Magris, certo, non è (ancora) settantenne. Ma chi ha più filo più fila, si diceva una volta, mentre le scuole di scrittura vanno solo bene per le editrici di Milano, le loro amiche agenti letterarie, e i remainders. Con le fanciullezze, l’individuo diviso, i linguaggi insignificanti, e ora i gialli e i libri di viaggio. Camilleri, quindici milioni di copie vendute di Montalbano, è anche l’artefice del rinnovato interesse dell’editoria internazionale per gli autori italiani, da solo.