Il sindaco Domenici che chiede all’assessore “cosa si sta facendo” al Castello non è creduto dagli inquirenti. Ma solo perché non vogliono andare al fondo della verità: a Firenze governa il Partito, il sindaco può non sapere. Bisogna dunque dare (provvisoriamente) ragione al sindaco, che per questo si incatena davanti al portone dell’amato giornale - dopo avere tentato di scaricare tutto sul colorito Cioni.
Castello è la più grossa lottizzazione che si prepara a Firenze e il sindaco non può non sapere, arguiscono gli inquirenti. E invece è possibile: gli affari non si fanno in Comune, ma al Partito. Questo è il modello degli affari post Tangentopoli, illustrato a Roma dalla potente federazione del Partito col sindaco Rutelli, da essa peraltro inventato. Il Partito mantiene le promesse (delivers nel gergo della mala americana), il Partito garantisce, gli interessi non hanno avuto alcuna remora ad appoggiarsi al Partito vincente nella questione morale, e anzi lo hanno convenientemente appoggiato. La soluzione Partito, o responsabile unico e affidabile, è tanto più gradita agli interessi grigi, compresa la malavita in doppiopetto.
Il modello è stato replicato con tutta evidenza a Firenze, con l’analogo “bello guaglione” fiorentino – oltre che a Napoli con la famosa Rinascenza. La storia di Firenze, in particolare, dopo Tangentopoli è un boom immobiliare irresistibile, nell’ex Fiat, a Novoli, nel territorio contiguo a Sesto Fiorentino, mentre l’attenzione pubblica veniva deviata su Isozaki, la tettoietta sull’ingresso secondario degli Uffizi. Che gli amministratori pubblici, coordinati dal Partito, hanno favorito, spostandovi d’autorità gli uffici amministrativi, giudiziari, e l’università.
L’operazione Castello, l’ultima delle grandi lottizzazioni portata in dote a Ligresti da Fondiaria, è stata svelata a settembre dai della Valle, che, improvvidi e innocenti, vi hanno annunciato la prossima realizzazione del nuovo stadio (per il quale non hanno però ancora disposo neanche un disegno di massima). Tutti allora a chiedersi cosa si sta facendo al Castello. E perché no il sindaco?
Il re(gime) è nudo
Napoli e Firenze non sono il crollo di un regime, come usava dire, di un’epoca. Anche se Firenze è un modello di sottogoverno non più efficace che si replica ovunque in Toscana, a Siena e in tutto il senese (Montalcino non è un caso isolato), Viareggio, Livorno, Massa. Non ci sono barbari alle porte, tanto meno con la coscienza pulita. E se il postcomunismo non è più affidabile, gli altri non sono meglio.
Degli altri beneficiari di tangentopoli, gli ex missini dimostrano di non capirci nulla, come a Roma, e troppo spesso si fanno prendere con le mani nel sacco. Mentre i leghisti, risparmiati dalla pietas lombarda, l’autoindulgenza, sono preclari nelle loro province per le scemenze e gli sprechi, se non la corruzione, le opere malfatte. Tuttavia il modello Partito non regge più, per la logica stessa del partito Democratico, che ha più anime. I Della Valle, che a Firenze hanno messo alla gogna Domenici e i Ds, sono ben democratici.
sabato 6 dicembre 2008
Dopo Veltroni un cattolico, senza congresso
“La questione morale sta corrodendo il centrosinistra. La sua causa è il Pd, il mancato ricambio generazionale e al vertice la debolezza come partito”. La morale della favola l’ha tratta Gustavo Zagrebelsky a Maria Antonietta Calabrò sul “Corriere della sera” mercoledì: “Non bisogna invocare il centralismo democratico”. Tanto più che “al centro del Pd non c’è nulla e così a livello locale i cacicchi si sono scatenati”. I lettori di questo sito lo sanno da tempo, e ora la morsa si stringe, dell’ala confessionale del Pd contro lo zoccolo duro (ex) comunista. I popolari ne parlano ovunque, tra di loro e anche con gli estranei: i postcomunisti, come ora li chiamano, stanno portando il Pd alla rovina, i guai del Pd sono tutti diessini, Veltroni è un problema e non una risorsa, un giovane-vecchio togliattiano. La discontinuità s’impone per salvare e rilanciare il Partito, su un nome di estrazione non postcomunista.
Il nome non c’è – dovrebbe essere Fioroni, ma non si vuole bruciarlo - ma c’è un identikit: non può essere diessino. Il successore non può essere “uno di loro”. Ma questo è anche un problema, e non da poco: che in un congresso o nelle primarie lo “zoccolo duro” è imbattibile. E dunque bisogna evitare una scelta di tipo congressuale, i postcomunisti sono maestri nell’occupare i posti. La soluzione dev’essere politica, senza primarie né congresso.
Un esito del genere non è facile. Ma i popolari sono determinati. L’insofferenza si è acuita negli ultimi giorni, di fronte all’occupazione della scena dei comprimari tutti postcomunisti. E si traduce in una valanga di accuse, indiscrezioni, pettegolezzi. Con l’intento di accelerare il rcambio al vertice prima dei tempi lunghi di un congresso o di primarie. Tutti i machiavellismi della questione morale sono utilizzati, dagli appalti al semplice traffico delle influenze e ai nepotismi, per posti, carriere e affitti privilegiati. È cominciata con i Della Valle, che a Firenze a fine estate hanno annunciato il nuovo stadio nella zona di Castello. Di cui non avevano nemmeno un disegno in mano, ma che sarà il perno della Tangentopoli fiorentina. Tutti gli amici sono mobilitati, tra gli intellettuali, alla Rai, nelle redazioni, nelle Procure, tra i banchieri padroni dei giornali.
Il nome non c’è – dovrebbe essere Fioroni, ma non si vuole bruciarlo - ma c’è un identikit: non può essere diessino. Il successore non può essere “uno di loro”. Ma questo è anche un problema, e non da poco: che in un congresso o nelle primarie lo “zoccolo duro” è imbattibile. E dunque bisogna evitare una scelta di tipo congressuale, i postcomunisti sono maestri nell’occupare i posti. La soluzione dev’essere politica, senza primarie né congresso.
Un esito del genere non è facile. Ma i popolari sono determinati. L’insofferenza si è acuita negli ultimi giorni, di fronte all’occupazione della scena dei comprimari tutti postcomunisti. E si traduce in una valanga di accuse, indiscrezioni, pettegolezzi. Con l’intento di accelerare il rcambio al vertice prima dei tempi lunghi di un congresso o di primarie. Tutti i machiavellismi della questione morale sono utilizzati, dagli appalti al semplice traffico delle influenze e ai nepotismi, per posti, carriere e affitti privilegiati. È cominciata con i Della Valle, che a Firenze a fine estate hanno annunciato il nuovo stadio nella zona di Castello. Di cui non avevano nemmeno un disegno in mano, ma che sarà il perno della Tangentopoli fiorentina. Tutti gli amici sono mobilitati, tra gli intellettuali, alla Rai, nelle redazioni, nelle Procure, tra i banchieri padroni dei giornali.
La giustizia al Sud
Il feroce Saladino, nomen omen, c’è, massiccio, tenebroso. Uno che dai corsi di formazione, potenza della cultura, riusciva a mungere bei soldi. Tanti da pagare tutta l’Italia, da Prodi a Mastella, Mancino, Di Pietro, la massoneria, le banche svizzere, la Commissione di Bruxelles. Anche il suo nemico in commedia è quello che è: De Magistris di nome e di fatto, giudice da generazioni, e in quanto tale celebrato al tribunale Santoro (che anche lui vanta parentele magistrali), bello, elegante, fotogenico, un testimonial, il modello della giustizia al made in Italy. Non manca Gelli, con la P2. Manca però un personaggio fondamentale, ambientandosi la scena in Calabria: la ‘ndrangheta.
Il fatto è noto. Un atto d’accusa di 1.700 pagine, abbellito da una foto di Mancino, se il nome fosse sfuggito, e da sessantasei entrate e uscite del dottor De Magistris, e una compagnia dei carabinieri, 120 uomini, per circondare l’edificio e prenderlo all’alba di sorpresa, inviati con una corsa lampo di 400 chilometri, sull’autostrada accidentata che da Salerno porta a Catanzaro e ai sobborghi, fino a Soverato. Ma, questo è il punto: prendere d’assalto non le postazioni della ‘ndrangheta, ma gli uffici giudiziari deserti della capitale calabrese e le abitazioni di alcuni giudici. Con perquisizione corporale degli stessi, nonché degli uffici uno per uno. Dove nulla è stato trovato, né tesori né droghe, né altri pezzi di reato, né peraltro si cercavano, solo carte. E senza atti d’accusa né avvisi di reato per i tenutari degli uffici, né per i giudici investiti in brache a letto. Di che ubriacare i legulei per decenni, che infatti operosi si sono messi all’opera.
Da Catanzaro la colonna vittoriosa doveva poi risalire verso Napoli, per incolpare tutti i politici napoletani, tutti quelli di una certa corrente politica, da Mastella a Nicola Mancino, che è anche il capo del Csm. Questo il secondo giorno. Un attacco dissuasivo, insomma. Di paurosa efficienza, se non efficacia. Che al terzo giorno si dissolve, dopo il “fermo monito” del capo dello Stato. E questo fa più paura di tutto: il terzo giorno non è più successo nulla. Né il blitz in autostrada, né l’occupazione del Tribunale di Catanzaro, né il sequestro stanza per stanza di tutte le carte.
Mai nessuna azione di mafia ebbe risposta così massiccia e rapida, neppure le stragi dei magistrati.
Tutte le vittime della mafia indifese stanno ora a guardare, se non una compagnia almeno un plotone di carabinieri magari non arriverà un giorno a proteggerne la case, le fabbriche, le famiglie. Magari non da quattrocento chilometri di distanza, non per “dare l’esempio”. Anche a piedi. A meno che, coi carabinieri e tutto, quella di Catanzaro non sia stata un’azione di mafia. Non si diceva che la mafia punta a destabilizzare le istituzioni? Il delitto nella vicenda è la raccomandazione: questo Saladino avviava al lavoro anche i parenti degli amici.
E così, tra Napoli e Salerno, questo 2008 non è più del 1908. Gli anni di “Gente in Aspromonte”, che Corrado Alvaro rese celebre col famoso attacco idilliaco "Non è bella la vita dei pastori...". Ora però non più vera, i pastori, anche in Aspromonte, si urticano con la mala pianta del denaro, d'estate e d'inverno. Mentre altrettanto memorabile, e ancora vera, evidentemente, resta la chiusa. Così Antonello Argirò, cui i padroni hanno incendiato la stalla, vede arrivare in “Gente in Aspromonte” la giustizia, quando lui incendia il bosco dei padroni: “Aspettava la sua sorte. Quando vide i berretti dei carabinieri, e i moschetti puntati su di lui dietro agli alberi, buttò il fucile e andò loro incontro. «Finalmente», disse, «potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirlo, il fatto mio!»”
Il fatto è noto. Un atto d’accusa di 1.700 pagine, abbellito da una foto di Mancino, se il nome fosse sfuggito, e da sessantasei entrate e uscite del dottor De Magistris, e una compagnia dei carabinieri, 120 uomini, per circondare l’edificio e prenderlo all’alba di sorpresa, inviati con una corsa lampo di 400 chilometri, sull’autostrada accidentata che da Salerno porta a Catanzaro e ai sobborghi, fino a Soverato. Ma, questo è il punto: prendere d’assalto non le postazioni della ‘ndrangheta, ma gli uffici giudiziari deserti della capitale calabrese e le abitazioni di alcuni giudici. Con perquisizione corporale degli stessi, nonché degli uffici uno per uno. Dove nulla è stato trovato, né tesori né droghe, né altri pezzi di reato, né peraltro si cercavano, solo carte. E senza atti d’accusa né avvisi di reato per i tenutari degli uffici, né per i giudici investiti in brache a letto. Di che ubriacare i legulei per decenni, che infatti operosi si sono messi all’opera.
Da Catanzaro la colonna vittoriosa doveva poi risalire verso Napoli, per incolpare tutti i politici napoletani, tutti quelli di una certa corrente politica, da Mastella a Nicola Mancino, che è anche il capo del Csm. Questo il secondo giorno. Un attacco dissuasivo, insomma. Di paurosa efficienza, se non efficacia. Che al terzo giorno si dissolve, dopo il “fermo monito” del capo dello Stato. E questo fa più paura di tutto: il terzo giorno non è più successo nulla. Né il blitz in autostrada, né l’occupazione del Tribunale di Catanzaro, né il sequestro stanza per stanza di tutte le carte.
Mai nessuna azione di mafia ebbe risposta così massiccia e rapida, neppure le stragi dei magistrati.
Tutte le vittime della mafia indifese stanno ora a guardare, se non una compagnia almeno un plotone di carabinieri magari non arriverà un giorno a proteggerne la case, le fabbriche, le famiglie. Magari non da quattrocento chilometri di distanza, non per “dare l’esempio”. Anche a piedi. A meno che, coi carabinieri e tutto, quella di Catanzaro non sia stata un’azione di mafia. Non si diceva che la mafia punta a destabilizzare le istituzioni? Il delitto nella vicenda è la raccomandazione: questo Saladino avviava al lavoro anche i parenti degli amici.
E così, tra Napoli e Salerno, questo 2008 non è più del 1908. Gli anni di “Gente in Aspromonte”, che Corrado Alvaro rese celebre col famoso attacco idilliaco "Non è bella la vita dei pastori...". Ora però non più vera, i pastori, anche in Aspromonte, si urticano con la mala pianta del denaro, d'estate e d'inverno. Mentre altrettanto memorabile, e ancora vera, evidentemente, resta la chiusa. Così Antonello Argirò, cui i padroni hanno incendiato la stalla, vede arrivare in “Gente in Aspromonte” la giustizia, quando lui incendia il bosco dei padroni: “Aspettava la sua sorte. Quando vide i berretti dei carabinieri, e i moschetti puntati su di lui dietro agli alberi, buttò il fucile e andò loro incontro. «Finalmente», disse, «potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirlo, il fatto mio!»”
giovedì 4 dicembre 2008
La politica è "uscire" sul giornale
Come alla mula del Berni, a Berlusconi piace sollevare i sassi per inciamparvi dentro. Meglio se mediatici, sotto i riflettori. Se qualche italiano non si fosse accorto che sta dando la caccia all’infido Murdoch, allarga il tiro, includendo nel parterre dei nemici-amici dell’australiano i direttori della “Stampa” e del “Corriere”, Giulio Anselmi e Paolo Mieli - tanto onesti che si sono pure meravigliati dell'accusa. Berlusconi ama far drizzare le orecchie ai giornalisti. Col passato governo aveva messo nel mirino Biagi, Fazio e Santoro.
Viene da dire che Berlusconi ce l’ha col giornalismo. Ma non si può: è il maggior editore italiano, e anche grazie al giornalismo uno degli uomini più ricchi al mondo. Lui dirà che Anselmi e Mieli fanno campagna contro. Ma non è vero: Anselmi e Mieli, pur essendosi professati alle elezioni antiberlusconiani, non risparmiano gli apprezzamenti al governo per l’avvio, bene o male, di qualche riforma, per l’attenzione alla crisi delle banche e dell’economia, per l’equilibrata politica europea e internazionale. Per non dire del suicidio plurimo e insistito della sinistra, in questi giorni con il vaudeville democratico.
No, ciò che Berlusconi vuole è fare i titoli. Anche a costo di uccidere la mamma. Questo pericolo per fortuna è scongiurato. Ma fuori dalla famiglia ogni appiglio, anche turpe, è buono per occupare la scena e dettare l’agenda. E non si può farci nulla, è il trend, e la ricetta oggi della buona politica, apparire: l'informazione nell'età della informazione è "uscire" sui giornali, come usava al tempo degli imperatori e poi dei dittatori - Veltroni ha fatto il sindaco di Roma non per altro, per avere ogni giorno una uscita gratis sui giornali (si ricorderà il giorno che, non avendone altro pretesto, "dotò" una ragazza povera di borgata, una modella in stracci). Ora, dando per scontato che per gli antiberlusconiani nulla c’è di peggio di Berlusconi, si parlerà di libertà di stampa. E Berlusconi otterrà più rispetto, un po’ di più, per se stesso, per il governo, per il Milan, e magari per le sue ministre, da Sky Tg 24, che occupa l’etere per ventiquattro ore.
Nulla di eccezionale se si vuole. È il famoso “molti nemici molto onore” su cui, da “uomo del dialogo” quando si trattava dell’immobiliare e della tv pubblicità, ha invece scelto di costruire le sue fortune politiche. Il successo è stato perfino maggiore. Ma, nelle innegabili capacità di patrimonializzazione del personaggio, questa viene sempre trascurata: far fruttare il capitale negativo che, con i referendum, la Rai, i giudici e il conflitto d’interesse, e non escluso il fascismo, gli è stato cucito addosso. Qualsiasi cosa faccia o dica, Berlusconi non può che guadagnarci. L’unica cosa che non può fare, purtroppo, è tacere.
Viene da dire che Berlusconi ce l’ha col giornalismo. Ma non si può: è il maggior editore italiano, e anche grazie al giornalismo uno degli uomini più ricchi al mondo. Lui dirà che Anselmi e Mieli fanno campagna contro. Ma non è vero: Anselmi e Mieli, pur essendosi professati alle elezioni antiberlusconiani, non risparmiano gli apprezzamenti al governo per l’avvio, bene o male, di qualche riforma, per l’attenzione alla crisi delle banche e dell’economia, per l’equilibrata politica europea e internazionale. Per non dire del suicidio plurimo e insistito della sinistra, in questi giorni con il vaudeville democratico.
No, ciò che Berlusconi vuole è fare i titoli. Anche a costo di uccidere la mamma. Questo pericolo per fortuna è scongiurato. Ma fuori dalla famiglia ogni appiglio, anche turpe, è buono per occupare la scena e dettare l’agenda. E non si può farci nulla, è il trend, e la ricetta oggi della buona politica, apparire: l'informazione nell'età della informazione è "uscire" sui giornali, come usava al tempo degli imperatori e poi dei dittatori - Veltroni ha fatto il sindaco di Roma non per altro, per avere ogni giorno una uscita gratis sui giornali (si ricorderà il giorno che, non avendone altro pretesto, "dotò" una ragazza povera di borgata, una modella in stracci). Ora, dando per scontato che per gli antiberlusconiani nulla c’è di peggio di Berlusconi, si parlerà di libertà di stampa. E Berlusconi otterrà più rispetto, un po’ di più, per se stesso, per il governo, per il Milan, e magari per le sue ministre, da Sky Tg 24, che occupa l’etere per ventiquattro ore.
Nulla di eccezionale se si vuole. È il famoso “molti nemici molto onore” su cui, da “uomo del dialogo” quando si trattava dell’immobiliare e della tv pubblicità, ha invece scelto di costruire le sue fortune politiche. Il successo è stato perfino maggiore. Ma, nelle innegabili capacità di patrimonializzazione del personaggio, questa viene sempre trascurata: far fruttare il capitale negativo che, con i referendum, la Rai, i giudici e il conflitto d’interesse, e non escluso il fascismo, gli è stato cucito addosso. Qualsiasi cosa faccia o dica, Berlusconi non può che guadagnarci. L’unica cosa che non può fare, purtroppo, è tacere.
Il romanzo del Novecento
Un tuffo nel “secolo breve” che non può che rinvigorire anche i più restii. Un bilancio e una testimonianza, che è anche il racconto di una vita – non a caso dedicato al padre. Pedullà è stato e continua a essere l’ingegnere della letteratura, uno che non la scrive né la inventa ma la costruisce, con apporti solidi e vista acuta, con tutti i materiali, fino agli avanzi. In dieci righe riassumendo la propria vicenda a specchio del maestro Debenedetti, da Contini eletto a “maggior critico militante”. Giudizio che Contini più tardi “ribadì, attenuò ed estese: Debenedetti è anzitutto un grande prosatore. Grandezza non minore di quella degli altri grandi del Novecento, ottenuta stavolta attraverso la critica militante, genere marginale che lui ha collocato nel centro più alto, come una di quelle sue epifanie con cui un povero bambinello diventa Dio. La vita attraverso i libri altrui, un libro diverso al giorno, cento testimonianze brevi in attesa di costruire un romanzo, nella fattispecie Il romanzo del Novecento, che è un capolavoro della letteratura contemporanea”. E ancora: “La doppiezza del critico non è un episodio insignificante della realtà del Novecento”.
Il riferimento di questo bilancio del Novecento, anticipato nel 2007 con la silloge palazzeschiana E lasciatemi divertire!, è Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti, “il libro” mancante con cui i censori universitari angariavano Debenedetti (“Debenedetti ha insegnato quindici anni quasi gratuitamente e col pericolo del licenziamento”), che poté uscire solo postumo. Si va dal futurismo, che Pedullà recupera – oggi come cinquant’anni fa, in tempi sospetti - in chiara luce positiva, al postmoderno, il futuro che si sta scrivendo, in cui “trionfa l’avanguardia di massa, quella che ha trasformato in natura spontanea la cultura artificiale che ha previsto la nuova nascita”. Per la fisica dell’evento che trasforma la realtà.
Per la predilezione, che fu di Contini più che di Debenedetti, per la letteratura come invenzione, per l’invenzione della lingua, punto d’interesse quasi unico, e sempre stimolante. Come espressione fattiva, risolta anche se individuale, delle avanguardie. Che sono privilegiate in quanto ampliano il reale, la ricerca di senso. Per Pizzuto e D’Arrigo, quindi, e per una certa lettura di Palazzeschi, Svevo, Gadda, Malerba, il futurismo.
Anche se il siamo ciò che vogliamo non è più la misura di tutte le cose. Non gagliarda, nemmeno da retroguardia: “Il processo di estetizzazione del mondo è totale. È l’anarchia, ma è anche il massimo di democrazia” (o non: che è anche massimo di democrazia?). Il Novecento finisce come finì l’Ottocento, contento di sé, e irrintracciabile, inutile . “Siamo un paese in cui si pubblicano quaranta romanzi al giorno”. Quindicimila l’anno, dunque? Per chi? Perché?
Ma il bilancio è attivo. Se non altro perché il viaggio di Pedullà dentro il secolo è avvincente. Il passo è sicuro, gli scarti regolati da solida briglia, senza nulla togliere allo slancio, e le scelte realistiche, specie sullo sfondo del confuso ribellismo dell’ultimo quarto di secolo, come si conviene a un bilancio. Di cui Pedullà, che è stato anche manager della cultura, alla Rai e al Teatro di Roma, è un esperto tanto quanto dell’innovazione, dello spirito di avventura che o appassionano.
Il secolo non mostra peraltro di essere chiuso: il secolo che si vuole tanto breve non è ancora finito. Ma certo si tratta di un bilancio, di ciò che il secolo è stato. In termini di libro mastro, le assenze sono cospicue. Papini, con i suoi racconti fantastici , Il tragico quotidiano, 1903, Il pilota cieco, 1907, e le sue riviste piene di cose e fermenti. Prima del futurismo su “Le Figaro”. Quando ancora l’attore mancato Palazzeschi, alla sua terza raccolta di poesie, era fermo a “Rio Bo”. Che, certo, è parolibero, ma non di più. E poi Sciascia, Calvino, Primo Levi, Buzzati, Soldati, per restare al filone dell’invenzione della realtà. Ma Pedullà può vantare l’anticipo, in un pamphlet del 1995, Sappia la sinistra quello che fa la destra, del genere che oggi invade le librerie, sui ritardi, le divisioni, l’inconsistenza della sinistra politica: “In Italia la voglia di cambiamento, se non la rivoluzione, arriva con l’antica cadenza dell’Anno Santo. In questo secolo è dunque arrivata due volte, nel 19943 e nel 1993”…. “Chi tiene la destra va diritto, ma a sinistra non sappiamo dove si sta andando”. Dunque bisogna fidarsene.
È l’altro Novecento, comico, fantastico, inventivo. Da un secolo che si voluto dannunziano, rondista sempre, e neorealista, Pedullà estrae il “fantastico del naturalistico”, una scoperta che fa ascendere a una lezione di Debenedetti nel 1953, per la forza del simbolismo. Il comico e il fantastico, quindi, come chiavi di lettura e non generi, magari minori. La intima natura, la più resistente, la più produttiva, di secolo “inquieto, ambizioso, radicale”, da Palazzeschi a Malerba, con l’amato Sud, Alvaro, Domenico Rea, Bonaviri e D’Arrigo, l’autore di Horcynus Horca di cui sta per restaurare l’opera omnia. Partendo da Marinetti, perché “in realtà si costruisce distruggendo”. Su autori e movimenti che Pedullà ha nel suo ormai mezzo secolo di critica indagato a fondo, con monografie e scorribande. Il morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia (1975), Alberto Savinio (1979), Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio (1983), con tre ampi saggi (tre libri) sugli amati D’Arrigo, Pizzuto e Zavattini, Il ritorno dell’uomo di fumo (1987), Lo schiaffo di Svevo (1990), Carlo Emilio Gadda (1997), Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti (2004), E lasciatemi divertire! (2007).
Maestro buono
Nell’aspetto e nelle intenzioni Pedullà è il vecchio maestro - vecchio nel senso che non usa più. Magisteriale, come sottintende peraltro il suo costante filiale riferimento al suo proprio maestro Debenedetti. Anche se pedagogico e non padronale. Pedullà all’“Avanti!” e all’università esercitava, ancora negli anni post-68, disincantati, con maestria la pazienza. Frequente era questo tipo di conversazione con una studentessa:
- Professore, volevo chiederle se posso fare la laurea con lei.
- Lei è appassionata di letteratura?
- Sì, molto.
- Cosa intende fare dopo la laurea? Insegnare?
- Ah se possibile sì, mi piacerebbe molto.
- Bene, e su quale autore si orienterebbe per la tesi?
- Mi piace Pavese. Se fosse possibile vorrei fare Pavese.
- Bene. Su quale opera di Pavese intende lavorare, su che aspetto?
- Non saprei.
- Il Pavese narratore, il poeta, l’editore?
- Direi il narratore.
- C’è un romanzo di Pavese che voleva indagare, un racconto?
- No, niente di particolare.
- Che cosa ha letto di Pavese che l’ha colpita di più?
- Ecco, questo volevo chiedere appunto a lei: che cosa mi consiglia di leggere?
Una conversazione estensibile ma non migliorabile. Per esempio:
- Lei ha già fatto l’esame di Letteratura contemporanea?
- Non ancora, sto completando la preparazione. - Niente smontava il Professore.
Poi magari la signorina si appassionava, e ce n’è che sono rimaste all’università, hanno approfondito gli studi. Gli autori invece Pedullà li correggeva con l’ironia. Di chi li aveva letti e capiti, o anche soltanto fiutati, ma carpendone le ragioni. Ai recensori che volevano smontare il mondo proponeva poche righe: “È essenziale entrare nell’opera e nell’autore. E per dirlo bastano poche righe, meglio non indisporre il lettore”. Tutto, insomma, meno che un ideologo. Ma ha avuto e ha una passione dominante, per la letteratura non solo come invenzione, che è di tutte le espressioni, anche infantili, ma come esercizio innovativo. E questo spiega le preferenze e le assenze del suo Novecento.
Il Novecento ha amato il nonsenso. Ma metaforicamente: non per gioco ma a rappresentazione filosofica del nulla. Esercizio “tragicamente tragico” per dirla alla Fantozzi, che si preclude la lievità che proclama. E tuttavia “non si è mai goduto della letteratura come nel Novecento”, “non si è mai riso tanto nei secoli precedenti quanto con la letteratura del Novecento”. Che il saggio sul comico di Pirandello apre. È la “falsificazione globale” di Campanile: “È dal versante del riso che la letteratura del Novecento ha ottenuto i più imprevedibili risultati”. Per il linguaggio, che “resta fondamentale, purché non si creda che «tutto è linguaggio»”. Gadda, per esempio, non s’illuse mai, che fu un ricercatore e un organizzatore: “La struttura linguistica non è intransitiva, anche se prova a vivere da single che basta a se stessa”.
La ricostruzione è severa ma divertita, briosa sempre e bonaria: “Ha vinto il cerchio, concluderebbe Savinio, che lo odiava come figura della ripetizione e della contemplazione”. Se non che “il Novecento ha fatto il vuoto ma ha fatto pure il pieno”. Che sembra Epimenide il cretese, che tutti i cretesi diceva bugiardi: il novecentista dice che il Novecento è un gran secolo. Ma Pedullà ha pezze d’appoggio. Non solo teoriche, quali piacciono alla critica (ma quelle degli scrittori del Novecento appaiono, bisogna riconoscerlo, eccezionali: mai secolo ha saputo di più quello che faceva), anche narrative, drammaturgiche, poetiche.
Molte emozioni a una rilettura “non tornano”, è inevitabile, il critico segue anche in questo l’autore, non si può sempre “lavorare per la storia”. Anche per alcune presenze. Alvaro, per esempio, che si racconta “una favola per non disperare troppo delle sorti della sua Calabria: Gente in Aspromonte”. Dove la passione fa male, in Alvaro e in Pedullà, al punto da rendere ingenerosi – bisognerà rivedere la scoperta del Sud, compresa la letteratura del Sud sul Sud. O gli anni Settanta, che Pedullà trova oscuri, forse per la nigredo politica, e pure videro la pubblicazione postuma di Morselli e Satta, scrittori che tengono, ottimi Montale, Calvino, Pasolini, Campanile, Parise, Sciascia, Manganelli, buoni Moravia, Chiara, Primo Levi, due Volponi, il debutto del giallo italiano, il genere poi di maggior fortuna, con Fruttero e Lucentini in coppia, nonché, a fine decennio, Il nome della rosa, con cui per la prima volta un libro italiano fece mercato internazionale. E tuttavia, facendo il bilancio, è vero che “il Novecento vanta il migliore fra quelli presentati dagli altri secoli della modernità”. Si può qui leggere il Novecento, Pedullà ci porta anche a questo, sulle tracce di due lombardi cui ha dedicato molti studi, il realista Bontempelli e l’espressionista Gadda, “quello che «usa le parole con le gobbe», disse Moravia”.
Fra le pezze d’appoggio teoriche si leggono con gusto le sorprendenti tecniche, piane, ragionate, dell’insofferente Gadda. Dal celebre “barocca è la vita” a “ha una tecnica anche la Bibbia”, “organizzare significa sempre organizzare qualcosa”, “sostanza e mutamento sono connaturati”, “il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e così guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se stesso”. O del neorealismo: “Dirmi che una scarica di mitra è la realtà mi va bene; ma io chiedo che dietro a quei due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operosa, un mistero, forse le ragioni o irragioni del fatto” – irragioni è meglio che tradimento.
Pedullà è anche qui il critico sempre militante, decano dei contemporaneisti, attento, impegnato sull’oggetto. Mentre potrebbe ambire, come fa dire a Svevo, all’autobiografia, seppure non di se stesso. Benché storico, per ironia, del Novecento che è il secolo del soggetto: “È lui sempre, a sentire Carlo Dossi, il protagonista in una narrazione regolata dall’ironia”. È la sua natura, di critico. Il critico come lettore. Che accompagna la narrazione, la sottolinea, la commenta. La fa in qualche modo rivivere. Si entusiasma, è perplesso, interroga, si interroga, come fa il lettore, e presumibilmente l’autore. Il critico come prosseneta. Col gusto insopprimibile per il Witz - “la critica che si fonda sul fiuto” e “quella che si fonda sul fiato”… Che apre una finestra tra le “strutture”, i “metaforicamente” e le “linee di fuga” che hanno consumato l’ultimo Novecento. La critica che è creativa.
La scena di Pedullà non è quella delle epifanie, da Debenedetti scoperte e praticate, il richiamo, la coesistenza, tra l’immaginazione e il reale, la vista, la parola, gli eventi. Tra le cose e le idee delle cose. Critico del suo tempo, vive e fa rivivere il linguaggio, di necessità storico. E tuttavia questo “Novecento” è un libro d’autore. La scrittura saprofitica, per procura, può essere un privilegio – l’autore non è il suo critico? Per il piacere di stare in compagnia degli autori più che per l’esercizio dell’autorità. Poiché, non detto, il critico in questo tornante di millennio è singolarmente solo, specie se “militante”.
Walter Pedullà, Per esempio il Novecento, Rizzoli, pp. 570 €22,10
Il riferimento di questo bilancio del Novecento, anticipato nel 2007 con la silloge palazzeschiana E lasciatemi divertire!, è Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti, “il libro” mancante con cui i censori universitari angariavano Debenedetti (“Debenedetti ha insegnato quindici anni quasi gratuitamente e col pericolo del licenziamento”), che poté uscire solo postumo. Si va dal futurismo, che Pedullà recupera – oggi come cinquant’anni fa, in tempi sospetti - in chiara luce positiva, al postmoderno, il futuro che si sta scrivendo, in cui “trionfa l’avanguardia di massa, quella che ha trasformato in natura spontanea la cultura artificiale che ha previsto la nuova nascita”. Per la fisica dell’evento che trasforma la realtà.
Per la predilezione, che fu di Contini più che di Debenedetti, per la letteratura come invenzione, per l’invenzione della lingua, punto d’interesse quasi unico, e sempre stimolante. Come espressione fattiva, risolta anche se individuale, delle avanguardie. Che sono privilegiate in quanto ampliano il reale, la ricerca di senso. Per Pizzuto e D’Arrigo, quindi, e per una certa lettura di Palazzeschi, Svevo, Gadda, Malerba, il futurismo.
Anche se il siamo ciò che vogliamo non è più la misura di tutte le cose. Non gagliarda, nemmeno da retroguardia: “Il processo di estetizzazione del mondo è totale. È l’anarchia, ma è anche il massimo di democrazia” (o non: che è anche massimo di democrazia?). Il Novecento finisce come finì l’Ottocento, contento di sé, e irrintracciabile, inutile . “Siamo un paese in cui si pubblicano quaranta romanzi al giorno”. Quindicimila l’anno, dunque? Per chi? Perché?
Ma il bilancio è attivo. Se non altro perché il viaggio di Pedullà dentro il secolo è avvincente. Il passo è sicuro, gli scarti regolati da solida briglia, senza nulla togliere allo slancio, e le scelte realistiche, specie sullo sfondo del confuso ribellismo dell’ultimo quarto di secolo, come si conviene a un bilancio. Di cui Pedullà, che è stato anche manager della cultura, alla Rai e al Teatro di Roma, è un esperto tanto quanto dell’innovazione, dello spirito di avventura che o appassionano.
Il secolo non mostra peraltro di essere chiuso: il secolo che si vuole tanto breve non è ancora finito. Ma certo si tratta di un bilancio, di ciò che il secolo è stato. In termini di libro mastro, le assenze sono cospicue. Papini, con i suoi racconti fantastici , Il tragico quotidiano, 1903, Il pilota cieco, 1907, e le sue riviste piene di cose e fermenti. Prima del futurismo su “Le Figaro”. Quando ancora l’attore mancato Palazzeschi, alla sua terza raccolta di poesie, era fermo a “Rio Bo”. Che, certo, è parolibero, ma non di più. E poi Sciascia, Calvino, Primo Levi, Buzzati, Soldati, per restare al filone dell’invenzione della realtà. Ma Pedullà può vantare l’anticipo, in un pamphlet del 1995, Sappia la sinistra quello che fa la destra, del genere che oggi invade le librerie, sui ritardi, le divisioni, l’inconsistenza della sinistra politica: “In Italia la voglia di cambiamento, se non la rivoluzione, arriva con l’antica cadenza dell’Anno Santo. In questo secolo è dunque arrivata due volte, nel 19943 e nel 1993”…. “Chi tiene la destra va diritto, ma a sinistra non sappiamo dove si sta andando”. Dunque bisogna fidarsene.
È l’altro Novecento, comico, fantastico, inventivo. Da un secolo che si voluto dannunziano, rondista sempre, e neorealista, Pedullà estrae il “fantastico del naturalistico”, una scoperta che fa ascendere a una lezione di Debenedetti nel 1953, per la forza del simbolismo. Il comico e il fantastico, quindi, come chiavi di lettura e non generi, magari minori. La intima natura, la più resistente, la più produttiva, di secolo “inquieto, ambizioso, radicale”, da Palazzeschi a Malerba, con l’amato Sud, Alvaro, Domenico Rea, Bonaviri e D’Arrigo, l’autore di Horcynus Horca di cui sta per restaurare l’opera omnia. Partendo da Marinetti, perché “in realtà si costruisce distruggendo”. Su autori e movimenti che Pedullà ha nel suo ormai mezzo secolo di critica indagato a fondo, con monografie e scorribande. Il morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia (1975), Alberto Savinio (1979), Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio (1983), con tre ampi saggi (tre libri) sugli amati D’Arrigo, Pizzuto e Zavattini, Il ritorno dell’uomo di fumo (1987), Lo schiaffo di Svevo (1990), Carlo Emilio Gadda (1997), Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti (2004), E lasciatemi divertire! (2007).
Maestro buono
Nell’aspetto e nelle intenzioni Pedullà è il vecchio maestro - vecchio nel senso che non usa più. Magisteriale, come sottintende peraltro il suo costante filiale riferimento al suo proprio maestro Debenedetti. Anche se pedagogico e non padronale. Pedullà all’“Avanti!” e all’università esercitava, ancora negli anni post-68, disincantati, con maestria la pazienza. Frequente era questo tipo di conversazione con una studentessa:
- Professore, volevo chiederle se posso fare la laurea con lei.
- Lei è appassionata di letteratura?
- Sì, molto.
- Cosa intende fare dopo la laurea? Insegnare?
- Ah se possibile sì, mi piacerebbe molto.
- Bene, e su quale autore si orienterebbe per la tesi?
- Mi piace Pavese. Se fosse possibile vorrei fare Pavese.
- Bene. Su quale opera di Pavese intende lavorare, su che aspetto?
- Non saprei.
- Il Pavese narratore, il poeta, l’editore?
- Direi il narratore.
- C’è un romanzo di Pavese che voleva indagare, un racconto?
- No, niente di particolare.
- Che cosa ha letto di Pavese che l’ha colpita di più?
- Ecco, questo volevo chiedere appunto a lei: che cosa mi consiglia di leggere?
Una conversazione estensibile ma non migliorabile. Per esempio:
- Lei ha già fatto l’esame di Letteratura contemporanea?
- Non ancora, sto completando la preparazione. - Niente smontava il Professore.
Poi magari la signorina si appassionava, e ce n’è che sono rimaste all’università, hanno approfondito gli studi. Gli autori invece Pedullà li correggeva con l’ironia. Di chi li aveva letti e capiti, o anche soltanto fiutati, ma carpendone le ragioni. Ai recensori che volevano smontare il mondo proponeva poche righe: “È essenziale entrare nell’opera e nell’autore. E per dirlo bastano poche righe, meglio non indisporre il lettore”. Tutto, insomma, meno che un ideologo. Ma ha avuto e ha una passione dominante, per la letteratura non solo come invenzione, che è di tutte le espressioni, anche infantili, ma come esercizio innovativo. E questo spiega le preferenze e le assenze del suo Novecento.
Il Novecento ha amato il nonsenso. Ma metaforicamente: non per gioco ma a rappresentazione filosofica del nulla. Esercizio “tragicamente tragico” per dirla alla Fantozzi, che si preclude la lievità che proclama. E tuttavia “non si è mai goduto della letteratura come nel Novecento”, “non si è mai riso tanto nei secoli precedenti quanto con la letteratura del Novecento”. Che il saggio sul comico di Pirandello apre. È la “falsificazione globale” di Campanile: “È dal versante del riso che la letteratura del Novecento ha ottenuto i più imprevedibili risultati”. Per il linguaggio, che “resta fondamentale, purché non si creda che «tutto è linguaggio»”. Gadda, per esempio, non s’illuse mai, che fu un ricercatore e un organizzatore: “La struttura linguistica non è intransitiva, anche se prova a vivere da single che basta a se stessa”.
La ricostruzione è severa ma divertita, briosa sempre e bonaria: “Ha vinto il cerchio, concluderebbe Savinio, che lo odiava come figura della ripetizione e della contemplazione”. Se non che “il Novecento ha fatto il vuoto ma ha fatto pure il pieno”. Che sembra Epimenide il cretese, che tutti i cretesi diceva bugiardi: il novecentista dice che il Novecento è un gran secolo. Ma Pedullà ha pezze d’appoggio. Non solo teoriche, quali piacciono alla critica (ma quelle degli scrittori del Novecento appaiono, bisogna riconoscerlo, eccezionali: mai secolo ha saputo di più quello che faceva), anche narrative, drammaturgiche, poetiche.
Molte emozioni a una rilettura “non tornano”, è inevitabile, il critico segue anche in questo l’autore, non si può sempre “lavorare per la storia”. Anche per alcune presenze. Alvaro, per esempio, che si racconta “una favola per non disperare troppo delle sorti della sua Calabria: Gente in Aspromonte”. Dove la passione fa male, in Alvaro e in Pedullà, al punto da rendere ingenerosi – bisognerà rivedere la scoperta del Sud, compresa la letteratura del Sud sul Sud. O gli anni Settanta, che Pedullà trova oscuri, forse per la nigredo politica, e pure videro la pubblicazione postuma di Morselli e Satta, scrittori che tengono, ottimi Montale, Calvino, Pasolini, Campanile, Parise, Sciascia, Manganelli, buoni Moravia, Chiara, Primo Levi, due Volponi, il debutto del giallo italiano, il genere poi di maggior fortuna, con Fruttero e Lucentini in coppia, nonché, a fine decennio, Il nome della rosa, con cui per la prima volta un libro italiano fece mercato internazionale. E tuttavia, facendo il bilancio, è vero che “il Novecento vanta il migliore fra quelli presentati dagli altri secoli della modernità”. Si può qui leggere il Novecento, Pedullà ci porta anche a questo, sulle tracce di due lombardi cui ha dedicato molti studi, il realista Bontempelli e l’espressionista Gadda, “quello che «usa le parole con le gobbe», disse Moravia”.
Fra le pezze d’appoggio teoriche si leggono con gusto le sorprendenti tecniche, piane, ragionate, dell’insofferente Gadda. Dal celebre “barocca è la vita” a “ha una tecnica anche la Bibbia”, “organizzare significa sempre organizzare qualcosa”, “sostanza e mutamento sono connaturati”, “il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e così guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se stesso”. O del neorealismo: “Dirmi che una scarica di mitra è la realtà mi va bene; ma io chiedo che dietro a quei due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operosa, un mistero, forse le ragioni o irragioni del fatto” – irragioni è meglio che tradimento.
Pedullà è anche qui il critico sempre militante, decano dei contemporaneisti, attento, impegnato sull’oggetto. Mentre potrebbe ambire, come fa dire a Svevo, all’autobiografia, seppure non di se stesso. Benché storico, per ironia, del Novecento che è il secolo del soggetto: “È lui sempre, a sentire Carlo Dossi, il protagonista in una narrazione regolata dall’ironia”. È la sua natura, di critico. Il critico come lettore. Che accompagna la narrazione, la sottolinea, la commenta. La fa in qualche modo rivivere. Si entusiasma, è perplesso, interroga, si interroga, come fa il lettore, e presumibilmente l’autore. Il critico come prosseneta. Col gusto insopprimibile per il Witz - “la critica che si fonda sul fiuto” e “quella che si fonda sul fiato”… Che apre una finestra tra le “strutture”, i “metaforicamente” e le “linee di fuga” che hanno consumato l’ultimo Novecento. La critica che è creativa.
La scena di Pedullà non è quella delle epifanie, da Debenedetti scoperte e praticate, il richiamo, la coesistenza, tra l’immaginazione e il reale, la vista, la parola, gli eventi. Tra le cose e le idee delle cose. Critico del suo tempo, vive e fa rivivere il linguaggio, di necessità storico. E tuttavia questo “Novecento” è un libro d’autore. La scrittura saprofitica, per procura, può essere un privilegio – l’autore non è il suo critico? Per il piacere di stare in compagnia degli autori più che per l’esercizio dell’autorità. Poiché, non detto, il critico in questo tornante di millennio è singolarmente solo, specie se “militante”.
Walter Pedullà, Per esempio il Novecento, Rizzoli, pp. 570 €22,10
lunedì 1 dicembre 2008
Multilateralismo, con chi?
Si presenta la scelta di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato come un ritorno degli Usa al multilateralismo. Ma solo in Europa. Anzi in Italia. Per il motivo che il marito aveva una politica multilaterale. Mentre invece Clinton, come già Reagan, aveva abbadonato di proposito ogni approccio multilaterale agli affari internazionali. Bush jr. l'ha in parte ricostituito, obbligato dalla lotta al terrorismo. Ma Reagan e Clinton, sull'onda del crollo del sistema sovietico, avevano proceduto come bulldozer. Schierando talvolta gli alleati, ma a comando - non c'è buon ricordo nelle cancellerie di Madeleine Allbright, arrivava spesso e non diceva nulla, Powell e la Rice se non altro hanno riportato un po' di grazia.
Bisogna d’altra parte che più soggetti siano attivi perché si abbia una politica estera multilaterale. Questo non avviene più da tempo. L’Europa non ha mai avuto una politica estera e di difesa, ed è immobile da un decennio, il decennio di Maastricht, sul piano commerciale. Il Sud America non ha alcun peso. L’Asia continentale vive in simbiosi stretta con gli Stati Uniti, politica e commerciale: è l’asse dalla globalizzazione. La Russia di Putin scalcia, ma il ridicolo dell’asse con Chàvez ne dice i limiti: può solo ambire ad essere un partner tra gli altri, degli Usa, non ci sono altri ambiti.
È dai tempi di Kissinger, quindi da un trentennio abbondante, che il multilateralismo è stato abbandonato come dottrina da Washington. Kissinger sembrava postularne il rilancio, con documenti e studi pubblicizzati. Nel mentre che lo affossava, scegliendo la via degli accordi con Mosca e con Pechino, una volta rotta l’unità occidentale con l’inconvertibilità del dollaro. Multilateralismo era per l’europeo Kissinger avere l’inconcludente Europa tra i piedi, tanto pretenziosa quanto inconcludente. Non è ancora abbastanza valutato il sardonico “anno dell’Europa” con cui Kissinger bollò il 1974, l’anno della fine dell’Europa, che la crisi del petrolio scoprì inerme.
La crisi economica sembra destinata a moltiplicare le assise internazionali. A cinque, a otto, a dodici, a venti, o ventuno. E magari anche le riunioni periodiche. Tutte però destinate a interinare le decisioni che Washington propone e dispone, come ben sa chi prepara queste assise: i capi di Stato e di governo si riuniscono non per discutere e gestire gli affari del mondo ma per varare un comunicato.
Bisogna d’altra parte che più soggetti siano attivi perché si abbia una politica estera multilaterale. Questo non avviene più da tempo. L’Europa non ha mai avuto una politica estera e di difesa, ed è immobile da un decennio, il decennio di Maastricht, sul piano commerciale. Il Sud America non ha alcun peso. L’Asia continentale vive in simbiosi stretta con gli Stati Uniti, politica e commerciale: è l’asse dalla globalizzazione. La Russia di Putin scalcia, ma il ridicolo dell’asse con Chàvez ne dice i limiti: può solo ambire ad essere un partner tra gli altri, degli Usa, non ci sono altri ambiti.
È dai tempi di Kissinger, quindi da un trentennio abbondante, che il multilateralismo è stato abbandonato come dottrina da Washington. Kissinger sembrava postularne il rilancio, con documenti e studi pubblicizzati. Nel mentre che lo affossava, scegliendo la via degli accordi con Mosca e con Pechino, una volta rotta l’unità occidentale con l’inconvertibilità del dollaro. Multilateralismo era per l’europeo Kissinger avere l’inconcludente Europa tra i piedi, tanto pretenziosa quanto inconcludente. Non è ancora abbastanza valutato il sardonico “anno dell’Europa” con cui Kissinger bollò il 1974, l’anno della fine dell’Europa, che la crisi del petrolio scoprì inerme.
La crisi economica sembra destinata a moltiplicare le assise internazionali. A cinque, a otto, a dodici, a venti, o ventuno. E magari anche le riunioni periodiche. Tutte però destinate a interinare le decisioni che Washington propone e dispone, come ben sa chi prepara queste assise: i capi di Stato e di governo si riuniscono non per discutere e gestire gli affari del mondo ma per varare un comunicato.
Obama scacciafantasmi
Nessun conservatore avrebbe potuto fare le scelte di governo che Barack Obama preannuncia, lui sì, e per più ragioni. La prima è che la sua elezione è stata una scelta estremista. La più estremista possibile, non solo in America: di un giovane, senza esperienza, di colore, e senza famiglia, si sarebbe detto nell’Ottocento, il figlio della nonna. Obama lo sa, e si mette solidamente al centro. Per scongiurare il suo assassinio. La stessa sua indicazione alle primarie si può dire conservatrice, alla gattopardo: meglio un nero che una donna, se rivoluzionare è proprio necessario. Un nero peraltro molto "bianco", o allineato sulla parte dominante dell'opinione pubblica: giovanilismo sì, ma attenzione alle banche, e alla guerra umanitaria, la dottrina della pax americana. La sua scelta non è tanto una scommessa, si sapeva cosa farà, quanto uno scongiuro.
Per la banche i giochi sono ormai fatti: sono state salvate, senza pagare pegno, e senza alcun vincolo. La parte militare è la più difficile. L’America uscirà dall’Irak a metà 2010, dice Obama. Ma non è detto: per ora ciò significa soltanto che l’America non uscirà dall’Irak. E c’è comunque l’Afghanistan sullo sfondo, una guerra perduta più che in Irak. Obama dovrà ridisegnare le forze armate Usa, ristrutturarle e anche riqualificarle. E ridare vigore alla politica estera, di cui la massima potenza mondiale si trova dopo l’11 settembre sprovvista.
Bush ha fatto le guerre in Afghanistan e in Irak perché erano i due soli paesi contro i quali i suoi stati maggiori avevano pronti dei piani di battaglia. Il risultato è negativo, per l’impreparazione, militare e morale, delle forze di terra, e per la singolare incapacità dei vari comandanti, militari e civili, che si sono succeduti prima del generale Petraeus.
Le guerre d’altra parte, che non sono d’aiuto contro il terrorismo (non quelle aeree), non sarebbero state necessarie. Se l’America avesse saputo mobilitare con l’11 settembre il mondo politicamente, come avrebbe potuto agevolmente. Il duello al sole non ha pagato, e Obama, che non è texano ed è cresciuto in Indonesia, ne può vedere il danno, oltre che il ridicolo. Da qui la scelta più contraddittoria, di caricarsi di Hillary Clinton, personaggio ingombrante, con quel suo marito putativo sempre tra i piedi. Ma è a una sfida che chiama la candidata sconfitta: ricucire la slabbrata coalizione dei volenterosi su obiettivi possibili, per una vittoria politica.
Per la banche i giochi sono ormai fatti: sono state salvate, senza pagare pegno, e senza alcun vincolo. La parte militare è la più difficile. L’America uscirà dall’Irak a metà 2010, dice Obama. Ma non è detto: per ora ciò significa soltanto che l’America non uscirà dall’Irak. E c’è comunque l’Afghanistan sullo sfondo, una guerra perduta più che in Irak. Obama dovrà ridisegnare le forze armate Usa, ristrutturarle e anche riqualificarle. E ridare vigore alla politica estera, di cui la massima potenza mondiale si trova dopo l’11 settembre sprovvista.
Bush ha fatto le guerre in Afghanistan e in Irak perché erano i due soli paesi contro i quali i suoi stati maggiori avevano pronti dei piani di battaglia. Il risultato è negativo, per l’impreparazione, militare e morale, delle forze di terra, e per la singolare incapacità dei vari comandanti, militari e civili, che si sono succeduti prima del generale Petraeus.
Le guerre d’altra parte, che non sono d’aiuto contro il terrorismo (non quelle aeree), non sarebbero state necessarie. Se l’America avesse saputo mobilitare con l’11 settembre il mondo politicamente, come avrebbe potuto agevolmente. Il duello al sole non ha pagato, e Obama, che non è texano ed è cresciuto in Indonesia, ne può vedere il danno, oltre che il ridicolo. Da qui la scelta più contraddittoria, di caricarsi di Hillary Clinton, personaggio ingombrante, con quel suo marito putativo sempre tra i piedi. Ma è a una sfida che chiama la candidata sconfitta: ricucire la slabbrata coalizione dei volenterosi su obiettivi possibili, per una vittoria politica.
Tutto sempre in mano ai ladri
Banche d'affari e società di rating ancora protagoniste
Si possono comprare obbligazioni Goldman Sachs 2012 con un rendimento di due punti sopra i titoli di Stato Usa. Grazie alla garanzia federale Usa. Se c’è ancora disponibilità: il prestito, fra i 2 e i 3 miliardi di dollari, lanciato dieci giorni fa, ha ricevuto adesioni massicce, i fondi pensione non sanno dove altro mettere la liquidità che comunque continua ad affluire. Analoghe emissioni di Morgan Stanley e JP Morgan, con la garanzia federale Usa, rendono l’1,8 per cento più dei bond Usa.
La Bank of Ireland ha raccolto due miliardi di euro, con obbligazioni a due anni, con garanzia dello stato irlandese. Ma pagando solo uno 0,65 per cento in più sopra il tasso fisso swap di analoga durata. Questo perché lo Stato irlandese che garantisce Bank of Ireland ha il voto massimo, la triplice A, da tutt’e tre gli istituti di rating, di controllo dell’affidabilità. L’Italia, per dire, che non ha emesso nessuna garanzia per nuovi prestiti di favore, ha meno di due A, è poco affidabile. L’Irlanda ha in corso un piano di salvataggio delle banche che equivale al pil. Per una ricapitalizzazione ormai quasi a punto di tutte le banche irlandesi – per molto meno l’Italia scenderebbe sotto la A semplice.
Banche d’affari per i manager
Gli stessi global player con le stesse tecniche sono all’opera nelle varie dighe che si stanno apprestando per arginare la crisi. Le banche d’affari predatrici, e gli istituti di rating in funzione di compari, al solito gioco delle tre carte. Banche d’affari che, come già nella crisi, mantengono la loro ultima identità, di strumenti a favore dei superbonus dei loro manager. Le banche d’affari usavano lavorare per pochi selezionati clienti, per affari che bene o male investivano il complesso dell’economia, creavano qualche valore aggiunto. Da una diecina d’anni sono solo lo strumento per migliorare i ratings, i profili di reddito di brevissimo termine, e con essi i benefici dei furboni che le gestiscono. Dotati evidentemente di poteri immensi, se il presidente americano, che è l’uomo più potente del mondo, non fa che i loro interessi. Poteri che hanno acquisito col controllo dell’informazione economica, dal “Financial Times” al “Wall Street Journal”, attraverso l’indiscrezione. Quanto agli istituti di rating si sa: il controllore scelto e pagato dal controllato è solo ridicolo, segno dell'avidità senza limiti che si contrabbanda per ideale.
Dappertutto si varano piano multimiliardari a sostegno della economia, per scongiurare il crack e la depressione. Ma non c’è un risanamento del credito. C’è la stessa crescita incontrollata di prima. Con un’aggravante: profittare degli aiuti di Stato. È una ricetta, anche questa, e perfino risolutiva: come di un malato di sifilide che la migliore cura trovasse al bordello. Da romanzo dell’Ottocento, l’epica che ancora ci sovrasta, un tempo si sarebbe detta borghese. Pinocchio si sarebbe sorpreso, di trovare un vero albero del danaro, seppure bacato.
Si possono comprare obbligazioni Goldman Sachs 2012 con un rendimento di due punti sopra i titoli di Stato Usa. Grazie alla garanzia federale Usa. Se c’è ancora disponibilità: il prestito, fra i 2 e i 3 miliardi di dollari, lanciato dieci giorni fa, ha ricevuto adesioni massicce, i fondi pensione non sanno dove altro mettere la liquidità che comunque continua ad affluire. Analoghe emissioni di Morgan Stanley e JP Morgan, con la garanzia federale Usa, rendono l’1,8 per cento più dei bond Usa.
La Bank of Ireland ha raccolto due miliardi di euro, con obbligazioni a due anni, con garanzia dello stato irlandese. Ma pagando solo uno 0,65 per cento in più sopra il tasso fisso swap di analoga durata. Questo perché lo Stato irlandese che garantisce Bank of Ireland ha il voto massimo, la triplice A, da tutt’e tre gli istituti di rating, di controllo dell’affidabilità. L’Italia, per dire, che non ha emesso nessuna garanzia per nuovi prestiti di favore, ha meno di due A, è poco affidabile. L’Irlanda ha in corso un piano di salvataggio delle banche che equivale al pil. Per una ricapitalizzazione ormai quasi a punto di tutte le banche irlandesi – per molto meno l’Italia scenderebbe sotto la A semplice.
Banche d’affari per i manager
Gli stessi global player con le stesse tecniche sono all’opera nelle varie dighe che si stanno apprestando per arginare la crisi. Le banche d’affari predatrici, e gli istituti di rating in funzione di compari, al solito gioco delle tre carte. Banche d’affari che, come già nella crisi, mantengono la loro ultima identità, di strumenti a favore dei superbonus dei loro manager. Le banche d’affari usavano lavorare per pochi selezionati clienti, per affari che bene o male investivano il complesso dell’economia, creavano qualche valore aggiunto. Da una diecina d’anni sono solo lo strumento per migliorare i ratings, i profili di reddito di brevissimo termine, e con essi i benefici dei furboni che le gestiscono. Dotati evidentemente di poteri immensi, se il presidente americano, che è l’uomo più potente del mondo, non fa che i loro interessi. Poteri che hanno acquisito col controllo dell’informazione economica, dal “Financial Times” al “Wall Street Journal”, attraverso l’indiscrezione. Quanto agli istituti di rating si sa: il controllore scelto e pagato dal controllato è solo ridicolo, segno dell'avidità senza limiti che si contrabbanda per ideale.
Dappertutto si varano piano multimiliardari a sostegno della economia, per scongiurare il crack e la depressione. Ma non c’è un risanamento del credito. C’è la stessa crescita incontrollata di prima. Con un’aggravante: profittare degli aiuti di Stato. È una ricetta, anche questa, e perfino risolutiva: come di un malato di sifilide che la migliore cura trovasse al bordello. Da romanzo dell’Ottocento, l’epica che ancora ci sovrasta, un tempo si sarebbe detta borghese. Pinocchio si sarebbe sorpreso, di trovare un vero albero del danaro, seppure bacato.
Guerra per bande postcomuniste
Prima ancora che lo sciogliete le fila democristiano si è manifestato il colpo di coda dell’ex Pci. È un modulo ricorrente nella decadenza: tutti vogliono tutto, in pretto stile post impero romano, o post sovietico. Si va per bande, che si compongono e si dissolvono nelle ventiquattro ore, ogni capetto essendo senza bussola, e impaziente. Con la differenza, certo, che qui non si spara, come già a Mosca. Anche il tesoro è limitato, niente banche, miniere, pozzi di petrolio. Solo lo zoccolo duro, il blocco da sessant’anni immutabile del voto. Da D’Alema a Cofferati, Chiamparino, Domenici, non c’è ex Pci di una qualche consistenza che non schieri la sua banda.
Il fatto era visibile già prima della sconfitta elettorale, nelle sedi locali del Pd. Il centralismo democratico era ovunque sfidato localmente, specie al cuore del quadrilatero rosso, in Toscana e in Romagna. Analogamente era sfidato ogni maggiorente locale, la logica del migliore essendosi democratizzata: ognuno si crede migliore dell’altro.
Gli ex Dc non hanno mutato natura, sempre camaleonti. Remano contro, per ultimo sull’appartenenza europea del Partito (no ai socialisti), e stanno a guardare gli effetti. Tra i duri e puri invece il linguaggio è diretto. Ed è da resa dei conti: quanto a me? La dissoluzione avviene all’insegna della corruzione. Non tanto per le inchieste giudiziarie, tarde e limitate. Quanto per il modo d’essere politico, anche nei casi in cui solo il traffico delle influenze è accertabile e non il passaggio di denaro. Peggio ancora se le accuse sono pretestuose, armi di una corrente o cordata contro le altre.
A Firenze la corruzione è perfino dichiarata: ogni assessore si candida a sindaco perché non sopporta che gli immobiliaristi, l’unica cosa che in città si muove dopo trent’anni di governo rosso, abbiano come unico punto di riferimento l’(ex) federazione Ds – sono sul fronte della lotta al monopolio. Quattro partiti si sono dati la staffetta con nomi diversi ma senza cambiare sentimento, nonché dirigenza, strategie e programmi. E l’ipocrisia non può che generare corruzione, è come l’emofilia nei gruppi chiusi.
Il fatto era visibile già prima della sconfitta elettorale, nelle sedi locali del Pd. Il centralismo democratico era ovunque sfidato localmente, specie al cuore del quadrilatero rosso, in Toscana e in Romagna. Analogamente era sfidato ogni maggiorente locale, la logica del migliore essendosi democratizzata: ognuno si crede migliore dell’altro.
Gli ex Dc non hanno mutato natura, sempre camaleonti. Remano contro, per ultimo sull’appartenenza europea del Partito (no ai socialisti), e stanno a guardare gli effetti. Tra i duri e puri invece il linguaggio è diretto. Ed è da resa dei conti: quanto a me? La dissoluzione avviene all’insegna della corruzione. Non tanto per le inchieste giudiziarie, tarde e limitate. Quanto per il modo d’essere politico, anche nei casi in cui solo il traffico delle influenze è accertabile e non il passaggio di denaro. Peggio ancora se le accuse sono pretestuose, armi di una corrente o cordata contro le altre.
A Firenze la corruzione è perfino dichiarata: ogni assessore si candida a sindaco perché non sopporta che gli immobiliaristi, l’unica cosa che in città si muove dopo trent’anni di governo rosso, abbiano come unico punto di riferimento l’(ex) federazione Ds – sono sul fronte della lotta al monopolio. Quattro partiti si sono dati la staffetta con nomi diversi ma senza cambiare sentimento, nonché dirigenza, strategie e programmi. E l’ipocrisia non può che generare corruzione, è come l’emofilia nei gruppi chiusi.
Contro i giudici, difesa della politica
C’è un che di eroico nella politica. C’era, e su questo il consenso è probabilmente unanime: ci vuole molto impegno (dedizione, fede, sacrificio). E c’è tuttora, anche all’epoca della politica da salotto in tv, tra grandi dame e giornaliste veline, quando non sculettanti, che da sole sembrano un premio: il facile esibizionismo è pagato col generale sospetto di corruzione, che la magistratura tra tutti corrottissima agita sulla politica da un ventennio, dal caso Sofri all’assessore napoletano che per questo si è ucciso. Quando non di mafia, nepotismo, dissoluzione.
C’è bisogno di governo: ci vogliono scelte, ci vuole un luogo dove esse si possano fare, che è appunto quello politico. Sia esso il Parlamento, il consiglio comunale, o il talk show. Scelte che, per quanto riduttive o anche meschine, sono però sempre di qualità e d’impegno più cospicui che quelle di ogni altro ordine. Sulle piccole come sulle grandi cose, dalle quote del latte alla legge sulla buona morte. C’è quindi un che di eroico nella scelta di fare politica. Non solo perché spesso si conclude, sotto i colpi dei rinvii a giudizio, col suicidio.
Non c’è altro cursus più faticoso, pervasivo, perfino pericoloso. Lo era anche prima del golpe giudiziario, e tanto più dopo. Nella aree della criminalità organizzata e in quelle “babbe”, perfino in Val d’Aosta per dire, o in Alto Adige. Mentre i giudici sono quelli che erano, la sola istituzione non defascistizzata (si dice corporativa, ma è propriamente fascista), che anche la Costituzione usa come randello. Il potere si acquista ugualmente facendo l’editore di giornale, anche del solo giornale cittadino. O il presidente della squadra di calcio. I soldi si fanno di più con un buon negozio di ferramenta al Tiburtino Terzo. Per fare la politica l’ambizione dev’essere molto selettiva, oltre che radicata.
La politica sarà anche corrotta, mafiosa, nepotista e dissoluta, come i corrotti dissoluti vorrebbero. Ma con un fine. E mediocre. Ma non si può essere giganti tra i nani, se non in "Gulliver", solo un po' più alti. Si potrebbe argomentare che è una delle forme della follia. In effetti non ha altra ratio, dovendo averne una. Se la passione è follia.
C’è bisogno di governo: ci vogliono scelte, ci vuole un luogo dove esse si possano fare, che è appunto quello politico. Sia esso il Parlamento, il consiglio comunale, o il talk show. Scelte che, per quanto riduttive o anche meschine, sono però sempre di qualità e d’impegno più cospicui che quelle di ogni altro ordine. Sulle piccole come sulle grandi cose, dalle quote del latte alla legge sulla buona morte. C’è quindi un che di eroico nella scelta di fare politica. Non solo perché spesso si conclude, sotto i colpi dei rinvii a giudizio, col suicidio.
Non c’è altro cursus più faticoso, pervasivo, perfino pericoloso. Lo era anche prima del golpe giudiziario, e tanto più dopo. Nella aree della criminalità organizzata e in quelle “babbe”, perfino in Val d’Aosta per dire, o in Alto Adige. Mentre i giudici sono quelli che erano, la sola istituzione non defascistizzata (si dice corporativa, ma è propriamente fascista), che anche la Costituzione usa come randello. Il potere si acquista ugualmente facendo l’editore di giornale, anche del solo giornale cittadino. O il presidente della squadra di calcio. I soldi si fanno di più con un buon negozio di ferramenta al Tiburtino Terzo. Per fare la politica l’ambizione dev’essere molto selettiva, oltre che radicata.
La politica sarà anche corrotta, mafiosa, nepotista e dissoluta, come i corrotti dissoluti vorrebbero. Ma con un fine. E mediocre. Ma non si può essere giganti tra i nani, se non in "Gulliver", solo un po' più alti. Si potrebbe argomentare che è una delle forme della follia. In effetti non ha altra ratio, dovendo averne una. Se la passione è follia.
Torna l'estremismo liberale
Berlusconi insiste con la liquidazione dell’università. Come già nel 1994, con analoga supermaggioranza, dà via libera all’ideologia liberistica. Che allora fu sconfitta sulle pensioni e sull’euro, oltre che dalla presidenza golpista di Scalfaro. Alcuni segnali, molto dirigistici e quasi dittatoriali, quali la guerra alla prostituzione o al libero deambulare delle persone nei giardini pubblici, rimandano al vecchio istinto impositivo dei conservatori. Ma la riforma che caratterizza il terzo Berlusconi è quella della scuola, e qui l’unica ratio è il liberalismo estremo.
La differenza col primo Berlusconi è che il liberalismo era allora dei vecchi liberali, oggi di Comunione e Liberazione, e più propriamente è privatizzazione dell’insegnamento. Ovvero no, un’altra differenza c’è, ancora più sostanziale, ed è che oggi non si vedono segni di debolezza, la chiusura della scuola e dell’università pubblica è una sorta di marcia trionfale: dopo il blocco quasi decennale imposto al rinnovamento da Letizia Moratti, Gelmini marcia come un carro armato. Solo si copre d’innocenti grembiulini a scuola, e della giusta lotta al nepotismo e ai corsi di karaoke all’università. Ma già l’anno venturo si potrebbe avere un dimezzamento delle iscrizioni alle scuole pubbliche, se ci fossero sufficienti istituzioni private, le famiglie hanno bisogno di certezze, e hanno capito che la scuola pubblica sarà da baraccati.
Una terza differenza anzi c’è, ed è che il terzo Berlusconi è favorito in questa materia dall’opposizione. Che si accontenta della sterile mobbilitazzione, di studenti capetti, che non sanno neanche vincere le elezioni all’università, e per il resto lascia fare. Mobbilitazzione che ogni giorno occupa Roma, senza alcun risultato. Se non quello di stancare ormai anche le mamme trepide. Il video dell’irruzione alla Sapienza sul sito dell’“Unità” nel week-end era perfino farsesco, dove il rettore Frati giganteggiava, mentre i contestatori che avevano appena perduto le elezioni non sapevano che dire, urlavano contro l’aria sporca, o l’aria sporca.
Gli appigli non mancherebbero, la maggioranza non è compatta sullo sfascio dell’università, né mancherebbero i buoni argomenti. Quelli della Rete nazionale precari, per esempio, sulla riforma della ricerca e degli accessi. Di essi si può sapere leggendo “Science”, anche in rete. Ma non se ne trova traccia in Parlamento, per non dire nella stampa nazionale, né nei talk show che surrogano il Parlamento. Non c’è altra posizione che l’estremismo liberale, anche se non dichiarato, per l’universale corruzione: si privatizza per fare soldi.
Privatizzazione, privatizzazione
Si penserebbe la privatizzazione fuori tempo, in una fase storica il cui il cosiddetto mercatismo è nudo coi denti aguzzi dell’avidità. Ma l’ideologo non tiene conto della storia. Si pretesta il modello americano dell’insegnamento, in cui l’economicità della gestione è nell’interesse di tutti, compresa la ricerca avanzata o teorica, e non c’è posto per la corruttela, nemmeno nella forma del familismo. È la parte nobile del fatto, su cui obiettare è difficile. Ma l’ideologo sa bene che un modello di libertà non s’impone.
Le società si formano per concrezione e non si cambiano per decreto. L’insegnamento “pubblico” americano, cioè privato, ha fatto un rodaggio di secoli, ed è sorretto da una serie di pilastri tanto solidi quanto tradizionali. La mobilità anzitutto (territoriale, sociale, economica), e poi il fund raising, le fondazioni, i privilegi fiscali, le borse di studio, il sistema premiale. La società pubblica in senso proprio ha dei costi, e anche degli sprechi, ma non si può abbatterne il carattere pubblico senza abbattere la società stessa.
Ma poi si sa cosa si vuole, il governo e anche l’opposizione: che una serie inestimabile di affarucci si creino. Per amici e anche compagni. Magari con il contributo dello Stato. Come succede per la sanità, che non per questo ha ridotto gli sprechi e anzi li moltiplica. Per l’“accoglienza” agli immigrati. Per tutte le forme di assistenza. Il liberismo come la gramigna, una forma di micragnosa corruzione.
La differenza col primo Berlusconi è che il liberalismo era allora dei vecchi liberali, oggi di Comunione e Liberazione, e più propriamente è privatizzazione dell’insegnamento. Ovvero no, un’altra differenza c’è, ancora più sostanziale, ed è che oggi non si vedono segni di debolezza, la chiusura della scuola e dell’università pubblica è una sorta di marcia trionfale: dopo il blocco quasi decennale imposto al rinnovamento da Letizia Moratti, Gelmini marcia come un carro armato. Solo si copre d’innocenti grembiulini a scuola, e della giusta lotta al nepotismo e ai corsi di karaoke all’università. Ma già l’anno venturo si potrebbe avere un dimezzamento delle iscrizioni alle scuole pubbliche, se ci fossero sufficienti istituzioni private, le famiglie hanno bisogno di certezze, e hanno capito che la scuola pubblica sarà da baraccati.
Una terza differenza anzi c’è, ed è che il terzo Berlusconi è favorito in questa materia dall’opposizione. Che si accontenta della sterile mobbilitazzione, di studenti capetti, che non sanno neanche vincere le elezioni all’università, e per il resto lascia fare. Mobbilitazzione che ogni giorno occupa Roma, senza alcun risultato. Se non quello di stancare ormai anche le mamme trepide. Il video dell’irruzione alla Sapienza sul sito dell’“Unità” nel week-end era perfino farsesco, dove il rettore Frati giganteggiava, mentre i contestatori che avevano appena perduto le elezioni non sapevano che dire, urlavano contro l’aria sporca, o l’aria sporca.
Gli appigli non mancherebbero, la maggioranza non è compatta sullo sfascio dell’università, né mancherebbero i buoni argomenti. Quelli della Rete nazionale precari, per esempio, sulla riforma della ricerca e degli accessi. Di essi si può sapere leggendo “Science”, anche in rete. Ma non se ne trova traccia in Parlamento, per non dire nella stampa nazionale, né nei talk show che surrogano il Parlamento. Non c’è altra posizione che l’estremismo liberale, anche se non dichiarato, per l’universale corruzione: si privatizza per fare soldi.
Privatizzazione, privatizzazione
Si penserebbe la privatizzazione fuori tempo, in una fase storica il cui il cosiddetto mercatismo è nudo coi denti aguzzi dell’avidità. Ma l’ideologo non tiene conto della storia. Si pretesta il modello americano dell’insegnamento, in cui l’economicità della gestione è nell’interesse di tutti, compresa la ricerca avanzata o teorica, e non c’è posto per la corruttela, nemmeno nella forma del familismo. È la parte nobile del fatto, su cui obiettare è difficile. Ma l’ideologo sa bene che un modello di libertà non s’impone.
Le società si formano per concrezione e non si cambiano per decreto. L’insegnamento “pubblico” americano, cioè privato, ha fatto un rodaggio di secoli, ed è sorretto da una serie di pilastri tanto solidi quanto tradizionali. La mobilità anzitutto (territoriale, sociale, economica), e poi il fund raising, le fondazioni, i privilegi fiscali, le borse di studio, il sistema premiale. La società pubblica in senso proprio ha dei costi, e anche degli sprechi, ma non si può abbatterne il carattere pubblico senza abbattere la società stessa.
Ma poi si sa cosa si vuole, il governo e anche l’opposizione: che una serie inestimabile di affarucci si creino. Per amici e anche compagni. Magari con il contributo dello Stato. Come succede per la sanità, che non per questo ha ridotto gli sprechi e anzi li moltiplica. Per l’“accoglienza” agli immigrati. Per tutte le forme di assistenza. Il liberismo come la gramigna, una forma di micragnosa corruzione.
Non moriremo per Murdoch
Ci mancava anche questa, la trincea in difesa del monopolista più sgradevole degli ultimi trent’anni, più di Bill Gates, un Berlusconi dieci volte più grande e insolente, cento volte. Ma è solo una partita di giro: il tg di Murdoch in Italia finirà di fare campagna contro Berlusconi, e il governo magari manterrà il raddoppio dell’Iva al 20 per cento, ma magari ne posporrà l’entrata in vigore. La nota pastetta del togliere per dare, o viceversa (i finanziamenti ai giornali di partito, i posti all'università, gli aiuti all'auto).
Uno però non sa complimentarsi per lo scampato pericolo, andare in guerra per difendere Murdoch. Già c’erano indigeribili avvisaglie. Sul “Corriere della sera”, per esempio, Giancarlo Radice che intervista Tom Mockridge, l’uomo di Murdoch, in questi termini.
Il decreto anticrisi del governo raddoppia l'iva solo per gli abbonati alle pay tv, ma non fa altrettanto per gli utenti dei programmi in pay per view, in primo luogo i possessori dei 2 milioni di 400 mila smart card distribuite da Mediaset, cioè il gruppo controllato dalla famiglia Berlusconi. Solo una coincidenza?
«Non posso vedere alcuna connessione fra le due questioni ».
Si stima che per i 4,7 milioni di abbonati a Sky il raddoppio dell'iva rappresenta un aggravio complessivo di 210 milioni di euro. Si va da un aumento di 1,2 euro al mese per chi ha un abbonamento di base da 15 euro, fino ai 6 euro mensili per gli abbonati al pacchetto più costoso, destinato a salire a 68 euro. Ma quale sarà l'impatto sui conti dell'emittente?
«Possiamo parlare di un aggravio fiscale di circa 500 milioni. Ma in realtà sono molti gli elementi in gioco…. ».
Sky oggi dà lavoro in Italia a circa 5300 fra dipendenti e collaboratori, oltre a un indotto di quasi 4500 addetti. Con l'aumento dell'iva c'è il rischio di una ricaduta sull'occupazione?
«Al momento non vedo alcun motivo per preoccuparsi ».
Sky investe attualmente in Italia circa un miliardo di euro l'anno. Il decreto sull'iva vi farà cambiare idea?
«Non è questione di cambiare idea. Siamo una compagnia privata che opera in base alle leggi della domanda e dell'offerta».
Ora, non c’è una legge, o è un decreto, Carfagna che proibisce l’adescamento dei passanti? Mockridge sa di trovarsi in un passaggio delicato, avendo appena imposto agli abbonati un aumento del 15 per cento. Con una programmazione vecchia e ripetitiva di film e filmati. E uno sport che non si riprende dalla caccia suicida alla Juventus. Berlusconi ha scelto bene il momento per la sua sventola. Il privilegio della tassa sul valore aggiunto dimezzato non poteva peraltro durare sempre, lo aveva deciso Dini una dozzina di anni orsono per fare un piacere allo stesso Berlusconi. Al quale ricordarsene è venuto tempestivo e dirimente.
Il ritorno dell’Iva al 20 per cento va collegato alla campagna di Sky Tg 24, che questo sito inorridito ha dovuto registrare più volte, contro Berlusconi, sulla scuola, l’Alitalia, il Milan, il G8 di Genova, insomma su qualsiasi argomento. Perfino su Bush, cioè contro Bush - che in America Murdoch difende e osanna come un grande fratello. Tutto ciò solo perché Berlusconi impenitente, nonché non risolvere il suo conflitto d’interesse vendendo Fininvest, non ha voluto vendere nemmeno Mediaset, che Murdoch assolutamente voleva. Appellandosi, e questo Murdoch non l’ha digerito, un altro che “tiene” più famiglie, alla “volontà dei figli”.
Uno però non sa complimentarsi per lo scampato pericolo, andare in guerra per difendere Murdoch. Già c’erano indigeribili avvisaglie. Sul “Corriere della sera”, per esempio, Giancarlo Radice che intervista Tom Mockridge, l’uomo di Murdoch, in questi termini.
Il decreto anticrisi del governo raddoppia l'iva solo per gli abbonati alle pay tv, ma non fa altrettanto per gli utenti dei programmi in pay per view, in primo luogo i possessori dei 2 milioni di 400 mila smart card distribuite da Mediaset, cioè il gruppo controllato dalla famiglia Berlusconi. Solo una coincidenza?
«Non posso vedere alcuna connessione fra le due questioni ».
Si stima che per i 4,7 milioni di abbonati a Sky il raddoppio dell'iva rappresenta un aggravio complessivo di 210 milioni di euro. Si va da un aumento di 1,2 euro al mese per chi ha un abbonamento di base da 15 euro, fino ai 6 euro mensili per gli abbonati al pacchetto più costoso, destinato a salire a 68 euro. Ma quale sarà l'impatto sui conti dell'emittente?
«Possiamo parlare di un aggravio fiscale di circa 500 milioni. Ma in realtà sono molti gli elementi in gioco…. ».
Sky oggi dà lavoro in Italia a circa 5300 fra dipendenti e collaboratori, oltre a un indotto di quasi 4500 addetti. Con l'aumento dell'iva c'è il rischio di una ricaduta sull'occupazione?
«Al momento non vedo alcun motivo per preoccuparsi ».
Sky investe attualmente in Italia circa un miliardo di euro l'anno. Il decreto sull'iva vi farà cambiare idea?
«Non è questione di cambiare idea. Siamo una compagnia privata che opera in base alle leggi della domanda e dell'offerta».
Ora, non c’è una legge, o è un decreto, Carfagna che proibisce l’adescamento dei passanti? Mockridge sa di trovarsi in un passaggio delicato, avendo appena imposto agli abbonati un aumento del 15 per cento. Con una programmazione vecchia e ripetitiva di film e filmati. E uno sport che non si riprende dalla caccia suicida alla Juventus. Berlusconi ha scelto bene il momento per la sua sventola. Il privilegio della tassa sul valore aggiunto dimezzato non poteva peraltro durare sempre, lo aveva deciso Dini una dozzina di anni orsono per fare un piacere allo stesso Berlusconi. Al quale ricordarsene è venuto tempestivo e dirimente.
Il ritorno dell’Iva al 20 per cento va collegato alla campagna di Sky Tg 24, che questo sito inorridito ha dovuto registrare più volte, contro Berlusconi, sulla scuola, l’Alitalia, il Milan, il G8 di Genova, insomma su qualsiasi argomento. Perfino su Bush, cioè contro Bush - che in America Murdoch difende e osanna come un grande fratello. Tutto ciò solo perché Berlusconi impenitente, nonché non risolvere il suo conflitto d’interesse vendendo Fininvest, non ha voluto vendere nemmeno Mediaset, che Murdoch assolutamente voleva. Appellandosi, e questo Murdoch non l’ha digerito, un altro che “tiene” più famiglie, alla “volontà dei figli”.
L'autorile può dire ciò che vuole
Buttafuoco è giovan(ile), siciliano, di destra, fa personaggio, è sbrigativo, e può dire ciò che vuole. Che Khomeini è un uomo di fede e un mistico, quando tutti sanno che era un politico durissimo. Che la ricca tradizione iraniana dimezzò, anzi atterzò, anche la modernità faceva parte dell’Iran. E la ricca religione di Qom - razionalità e fede - ridusse a “oppio dei popoli”. Ma non bisogna esagerare, Buttafuoco va di corsa. E la difesa della tradizione accredita al khomeinismo: Ahmadinejad come Heidegger (e Gadamer). Dice anche che l’islam ha il culto della Vergine. Il che è vero, in un certo senso.
Si acquista con le comparsate un’autorità indiscussa, un tempo si sarebbe detto una unzione, quella dell’autore. Sia esso poeta, pittore, architetto, filosofo, scienziato, o semplice giornalista. Non l’autorevolezza, che viene con gli studi e l’esperienza, ma il fatto di essere. Il tipo “con quella bocca può dire ciò che vuole”. Per l’autorilità, se ce ne fosse una, che deriva dalla (bella) presenza. Con la dedica a Giuliano Ferrara, a garanzia del miglior giornalismo. E il titolo preso a Duby, Le Goff, a garanzia della migliore storia.
Un tempo c’erano i santi ignoranti, e i pazzi. Ma non facevano male a nessuno. Del resto, lo stesso Buttafuoco lo dice: vogliamo conquistare l’islam sbattendogli la fica sul muso? Quanta scurrilità non ha provocato quel Voltaire.
Pierangelo Buttafuoco, Cabaret Voltaire. L’islam, il Sacro e l’Occidente. Bompiani, pp. 226, €18
Si acquista con le comparsate un’autorità indiscussa, un tempo si sarebbe detto una unzione, quella dell’autore. Sia esso poeta, pittore, architetto, filosofo, scienziato, o semplice giornalista. Non l’autorevolezza, che viene con gli studi e l’esperienza, ma il fatto di essere. Il tipo “con quella bocca può dire ciò che vuole”. Per l’autorilità, se ce ne fosse una, che deriva dalla (bella) presenza. Con la dedica a Giuliano Ferrara, a garanzia del miglior giornalismo. E il titolo preso a Duby, Le Goff, a garanzia della migliore storia.
Un tempo c’erano i santi ignoranti, e i pazzi. Ma non facevano male a nessuno. Del resto, lo stesso Buttafuoco lo dice: vogliamo conquistare l’islam sbattendogli la fica sul muso? Quanta scurrilità non ha provocato quel Voltaire.
Pierangelo Buttafuoco, Cabaret Voltaire. L’islam, il Sacro e l’Occidente. Bompiani, pp. 226, €18
Il vero realismo era "favola moderna"
Zavattini esce e va al mercato. Cioè no, esce in sonno e rifà il viaggio di Dante, accompagnato da se stesso, in volo a caso da spirito libero. È lui, il libro, il compagno di trasvolata, che “pur vivendo … in mezzo al romanzo”, non è mai stato protagonista di “un fatto notevole”, se non occasionale. Lungo il filone metafisico, ora definito surreale, aperto da Papini a inizio secolo con i racconti “Il tragico quotidiano” e “Il Pilota cieco”, quando Palazzeschi scriveva ancora “Rio Bo”, poi sviluppato dal futurismo e il dadaismo.
È la tipica moralità fantastica dell’autore che più è stato nel tempo del mondo, con i tanti Oscar. Per il folleggiare lieve del celta, malgrado l'ingombro redentorista. Con Malerba, Tonino Guerra, Delfini, D’Arzo, Cavazioni Fellini naturalmente, e l’emiliano di complemento De Sica, arruolato via neo realismo. Il celta dalla testa quadrata e il culo grosso, bonario e fantasioso. Che però “senza Petrolini non si capisce”, dice Silvana Cirillo nell’introduzione. Zavattini stesso cita Petrolini e il varietà – li cita contro Campanile, ma valgono per se stesso. Anche Sergio Tofano si può ricordare, “Il Signor Bonaventura”, altro riferimento non irriverente.
Zavattini ultimamente non ci teneva più, attestava venticinque anni fa, per i 77+1 dello scrittore, Walter Pedullà, il suo critico e sodale forse più affine: "A Zavattini piacciono di meno le "buffonate"; anzi non gli piacciono affatto... Non è successo solo a lui tra quelli che hanno frequentato e praticato la controcultura e lo sperimentalismo degli anni Sessanta fino alla contestazione" (Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio, 1983). Sarà stato dunque un grande scrittore malgrado se stesso, se ha perduto adulto la protezione di una vita contro le ideologie.
Qui è tuttavia sempre prosa degli anni trenta, rondista, calligrafica. Benché di uno scrittore che sarà il padre del neorealismo. Per il soggetto però – i poveri – e non per i linguaggi: tutti i suoi film che diceva di scrivere “con faciloneria”, chiamava “favole moderne”. E questo è da rivedere: il neorealismo, almeno quello di Zavattini, come una favola moderna.
“Parliamo tanto di me” dimostra che il pretesto (l’intreccio, i personaggi, i temi) sono irrilevanti, si può scrivere anche dell’acqua che scorre, o dei pesci nell’acqua, e perfino della canna da pesca, poiché si è fatto con ottimi risultati. Ma non si legge più di corsa. Né ridendo, come quando apparve nel 1931. Zavattini è come la sua conversazione, svia. Le storie sono fulminanti, poche righe e via. Ma nessuna storia è esemplare, né memorabile. Un ghirigoro di eventi e nomi improbabili, come è nella più tenace tradizione della letteratura italiana, anche contemporanea. In Zavattini con il grano di follia (coraggio) che fece grande il cinema e l’Italia tutta, che usciva dalla distruzione e la miseria.
Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me
È la tipica moralità fantastica dell’autore che più è stato nel tempo del mondo, con i tanti Oscar. Per il folleggiare lieve del celta, malgrado l'ingombro redentorista. Con Malerba, Tonino Guerra, Delfini, D’Arzo, Cavazioni Fellini naturalmente, e l’emiliano di complemento De Sica, arruolato via neo realismo. Il celta dalla testa quadrata e il culo grosso, bonario e fantasioso. Che però “senza Petrolini non si capisce”, dice Silvana Cirillo nell’introduzione. Zavattini stesso cita Petrolini e il varietà – li cita contro Campanile, ma valgono per se stesso. Anche Sergio Tofano si può ricordare, “Il Signor Bonaventura”, altro riferimento non irriverente.
Zavattini ultimamente non ci teneva più, attestava venticinque anni fa, per i 77+1 dello scrittore, Walter Pedullà, il suo critico e sodale forse più affine: "A Zavattini piacciono di meno le "buffonate"; anzi non gli piacciono affatto... Non è successo solo a lui tra quelli che hanno frequentato e praticato la controcultura e lo sperimentalismo degli anni Sessanta fino alla contestazione" (Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio, 1983). Sarà stato dunque un grande scrittore malgrado se stesso, se ha perduto adulto la protezione di una vita contro le ideologie.
Qui è tuttavia sempre prosa degli anni trenta, rondista, calligrafica. Benché di uno scrittore che sarà il padre del neorealismo. Per il soggetto però – i poveri – e non per i linguaggi: tutti i suoi film che diceva di scrivere “con faciloneria”, chiamava “favole moderne”. E questo è da rivedere: il neorealismo, almeno quello di Zavattini, come una favola moderna.
“Parliamo tanto di me” dimostra che il pretesto (l’intreccio, i personaggi, i temi) sono irrilevanti, si può scrivere anche dell’acqua che scorre, o dei pesci nell’acqua, e perfino della canna da pesca, poiché si è fatto con ottimi risultati. Ma non si legge più di corsa. Né ridendo, come quando apparve nel 1931. Zavattini è come la sua conversazione, svia. Le storie sono fulminanti, poche righe e via. Ma nessuna storia è esemplare, né memorabile. Un ghirigoro di eventi e nomi improbabili, come è nella più tenace tradizione della letteratura italiana, anche contemporanea. In Zavattini con il grano di follia (coraggio) che fece grande il cinema e l’Italia tutta, che usciva dalla distruzione e la miseria.
Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me