Giuseppe Leuzzi
Si rievoca periodicamente la Repubblica romana, ma sottacendo l’essenziale: che era la Rivoluzione Italiana quale avrebbe dovuto essere, repubblicana, democratica e ben governata, in parallelo con i moti di indipendenza del Nord. Col suffragio universale e una costituzione. Solo fu possibile invece il Risorgimento sabaudo, col sostegno decisivo della stessa Francia di Napoleone III che aveva represso la Repubblica.
L’ultima rievocazione, la “Storia avventurosa della rivoluzione romana” di Stefano Tomassini, benché ingombra dei noti paradossi (Roma senza papa, Mazzini al governo, etc.), e ancora di più di aneddoti e curiosità, fa intravedere la verità: Roma conobbe “un periodo di disciplinato fermento tra i rocamboleschi anni precedenti e la confusione che contribuì alla sua caduta”.
AspromonteIl personaggio alvariano Argirò giura-bestemmia “per la Montagna!”. E così è: l’Aspromonte giace sotto “Gente in Aspromonte”. Sotto questo titolo fortunato, come una disgrazia. Tanto più per avere il racconto influenzato molti narratori successivi, fino al “Prete bello”, Elsa Morante, Pasolini, Pavese, e il troppo neo realismo. È il caso della realtà che copia l’autore – l’unico così potente nella letteratura italiana dopo la Milano di Manzoni.
Innumerevoli sono i rimandi di Alvaro al suo mondo originario, nei racconti, nei romanzi, nei diari, tra la Montagna e il mare Jonio. Della Calabria scrisse anche un sussidiario, non cupo, riportato alla luce da Antonio Delfino. Ma la sua Montagna resta quella di “Gente in Aspromonte”, che appare perfetta e invece è falsa – manca il silenzio, la religiosità, la tradizione, la resistenza, non disperata. Una realtà dolente. Di un’umanità che, per essere povera, è anche miserabile. Anche quando fa festa: si sa che “c’è la festa”, ma nessuno festeggia. Anche nell’infanzia, che invece è sempre spensierata. E la natura si confà, è triste come l’umanità. Mentre invece di suo la Montagna è cristallina e sorniona.
Alvaro muore nel 1956. È celebre, importante e agiato, con casa a Roma in piazza di Spagna e buen retiro in campagna a Vallerano, dove vuole essere sepolto. Il padre, che lo ha voluto ragazzo educato nel collegio esclusivo dei gesuiti a Mondragone, muore a gennaio del 1941. Una morte che (“Memoria e vita”) impone “tregua alle invidie del paese”, tra gente “fuori dal mondo”, in una casa rattoppata, col prete ubriaco: “La notte dormimmo tutti con la madre e le sorelle nella stanza dove figli siamo nati. I vetri erano rotti, i muri lesionati ancora dal terremoto (del 1908? n.d.r.), le finestre cadenti. Entrava il freddo nevoso dell’Aspromonte ed io lo riconoscevo nel sonno come un paesaggio mio”. Una presenza riconosciuta e rifiutata.
Il ritorno a casa può essere ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Una plaquette pubblicata nel 2004 che capita di leggere in coincidenza con la plaquette alvariana di Ocra Gialla, “Testi inediti e rari del Novecento”, in cui Aldo Maria Morace presenta due racconti di Alvaro “novecentista”, sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”.
Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”.
Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”.
Il racconto bello della plaquette di Morace, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dal volume “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Da più parti è stato detto, Pedullà, che l’ha frequentato, lo definisce “il desiderio di scappare”. Da una terra peraltro “dove non si può rimanere e da dove è impossibile fuggire” (Walter Pedullà, “Per esempio il Novecento”, p. 417). Da qui, forse, un “complesso di colpa, ma anche l’urto rinnovato, il disprezzo se non l’odio”. La fuga è una condanna, risentita. Che perpetuamente si rinnova.
“Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino”, dice Pedullà (id., p.426). No, Alvaro è cresciuto a San Luca fino ai dieci anni, gli anni “miei più vasti e lunghi e popolati”. Tornò in Calabria a quindici anni, per fare la quinta ginnasio e poi il liceo a Catanzaro. Dove pubblicò le sue prime cose, “Polsi” con poesiole e articoli per due riviste cittadine, “Il nuovo birichino calabrese” e “Rivista d’oggi”. Senza peraltro riuscire a prendere la licenza liceale. Tornerà a San Luca per l’ultima volta ai primi del 1941, per la morte del padre (lui ricorda nel 1940 in “Un treno nel Sud”, p.123: “L’ultima volta che avevo veduto la Calabria era stato alla vigilia della seconda guerra mondiale”). Ma sarà spesso a Caraffa del Bianco, dalla madre, che sta col fratello sacerdote Massimo. No, è lui stesso la Melusina del suo famoso racconto, come ha scoperto Walter Pedullà: “Si sente anche lui in carcere quando sta in Calabria”.
Dei Casamonica e dei Tredicine, clan del sottobosco affaristico di Roma, si dice in questura e nei giornali che sono abruzzesi. Il politicamente corretto non consente di dire che sono (ex) nomadi. Ma possono essere indifferentemente abruzzesi. Il politicamente corretto è scorretto.
Battisti, un killer freddo, è patrocinato dalla sorelle Bruni, le esiliate d’Italia, protetto da Lula, il presidente compagno del Brasile, sostenuto dai giornali impegnati, si sente tra le righe. È il genere Tarantino, o camorra napoletana, del killer che sghignazza mentre spara. deprecato ma evidentemente condiviso.
Dove sono i confini della barbarie, sia pure tra “noi e loro”, bene e male, legge e crimine? Grosse falle si dovrebbero aprire nel discorso delle mafie.
Nel centenario, non celebrato, del terremoto del 1908, si riscoprono soprattutto i soccorsi specifici, di questa o quella città o provincia, o organizzazione del resto d’Italia, la Croce Rossa fiorentina, i Lombardi, eccetera. Di cui alcuni hanno voluto conservare il ricordo ribattezzando i toponimi; ponte Toscano, Martirano Lombardo, eccetera. Non c’era ancora la divisione tra Nord e Sud, o perlomeno non la squalifica del Sud. L’intervento era delle persone, non dello Stato.
È un altro Sud, diretto e felice, quello che esce dall’album di ricordi e fotografie di Alan Lomax, l’etnomusicologo texano che negli anni 1950 registrò i canti popolari in Italia. “L’anno più felice della mia vita”(Saggiatore, pp.40, € 29) è un libro che è la felicità dell’essere, dell’autore. Ma anche di un Sud visto da occhi vergini, vissuto e non “scoperto”, dai prefetti e i carabinieri sabaudi, e dalla sociologia di caserma. Che ne sarebbe stato della “questione meridionale” se gli interlocutori fossero stati tanti Lomax, non necessariamente texani come lui?
leuzzi@antiit.eu
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