Aggiornato negli Oscar a un anno e mezzo dalla prima uscita, la storia del gruppo dirigente postcomunista ha già bisogno di un nuovo aggiornamento. Di Veltroni Romano dice, come degli altri postcomunisti, che è un millenarista, si sente un predestinato. Gli è mancato di vederli all’opera nel partito Democratico col rozzo centralismo sovietizzante (hanno pure commissariato le federazioni… ), oltre che con la consueta mancanza di un profilo politico e di un’idea delle cose da fare. Romano lo sapeva, che ne sottolinea nell’aggiornamento “il peculiare intreccio di familismo e tribalismo”. Ma la faziosità è diventata oltraggiosa, indirizzandosi sugli stessi alleati, i popolari, i prodiani, i laici, i residui socialisti, che si sono svenati per dare un futuro al postcomunismo.
È questa una storia certo non agiografica, come i compagni di scuola sono abituati a scrivere e a farsi scrivere: la parabola della famiglia berlingueriana, dice Romano in apertura, “si avvia a concludersi senza lasciare un’eredità politica vitale”. Ma nemmeno anodina: pur con taglio storico, attento a tutte le fonti, Romano delinea un percorso postcomunista all’insegna dell’opportunismo, con le note giravolte. Soprattutto di D’Alema e di Veltroni (l’accoppiata di riferimento Bob Kennedy-Berlinguer merita di restare negli annali, oltre a quella più nota del viaggio nei morti, le tombe di Rossetti e don Milani, le Fosse Ardeatine, Bobbio agli ultimi giorni, la Bolognina, tomba del Pci, e la Einaudi quando era passata a Berlusconi). Partendo dalla conclusione che la Fgci di Berlinguer, di questo si tratta, ha perpetuato in realtà il vetero comunismo: Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino “tutti insieme hanno fatto in modo di essere percepiti ancora oggi come eredi del vecchio Pci, a quasi vent’anni dal suo scioglimento”.
Le pezze giustificative sono numerose, alcune anche esilaranti, a ogni passo. Da ultimo D’Alema che va nella City e scopre le virtù del capitalismo, poi se ne dimentica e torna al linguaggio cominformista. O, ricalcando Berlinguer, dice nel 2003 la sinistra nemica: “La sinistra è un male, solo l’esistenza della destra rende questo male sopportabile” - Berlinguer di cui si può aggiungere che resta nella storia per la faziosità estrema, nel demenziale sacrificio di ogni sinistra, compresa la sua, a non si sa bene che cosa. O la doppia verità: contro la Serbia è lecita e anzi opportuna la guerra attiva, con i bombardamenti, benché senza l’avallo dell’Onu, mentre in Iraq, mancando l’avallo dell’Onu, la semplice partecipazione alla ricostruzione è criminosa. O il buonista Veltroni, terzomondista e anti global, che giustifica e anzi esalta i black blok e l’inferno di Genova per il G8.
Questi postcomunisti sono tutto e il contrario di tutto, perché sono sempre berlingueriani, integralisti: “Il morto infine è riuscito ad afferrare il vivo”, nota curialmente Romano. Compreso il culto della personalità, si può aggiungere, che avvinse Berlinguer da vivo ben prima che da morto (gli editoriali sdolcinati di Scalfari, e quante iperboli). Che Veltroni sindaco ha rinverdito con i vecchi sistemi: ogni giorno ha avuto la sua mezza pagina nei grandi giornali romani - un giorno che non aveva argomenti “dotò” un’orfanella di periferia, che invece era una aspirante attrice. O il collateralismo con la Cgil, oltre che con la Lega delle cooperative. E la gestione di Unipol, con il Monte dei Paschi.
Romano salva la “coscienza repubblicana” di D’Alema - della cui Fondazione ItalianiEuropei è stato il direttore. Il solo in effetti che avesse un progetto, quello del ritorno alla politica, del paese normale, e ha tentato di realizzarlo. Ma, poi, dietro D’Alema, Veltroni, Fassino, è il deserto: se hanno evitato di restare seppelliti nelle macerie del Pci, non lasciano a loro volta che rovine. Specie la circonvenzione dell’opinione pubblica, messa in opera dai grandi imprenditori e banchieri proprietari dei giornali, cui si deve in realtà lo tsunami dell’antipolitica, dai postcomunisti cauzionata. I postcomunisti hanno avuto e hanno in gestione una trentina di giornali, almeno due televisioni più il Tg 1, una diecina di radio, e una rigorosa organizzazione delle campagne di stampa (dossier, riprese, rilanci), un centralismo democratico molto attivo e quasi da spionaggio. Che, peraltro, è la loro parte migliore: non si può fare a meno di notare la brillantezza degli interventi di D’Alema (discorsi, libri, interviste) quando glieli scrivevano Rondolino e Velardi – gli altri semplicemente disprezzano l’opinione. Anche su questo D’Alema aveva visto bene. Romano rileva che già nel 1993 affermava: “Un grande partito ha il dovere di dirsi, di comunicare se stesso, di non farsi comunicare dagli altri”. Ma poi anche lui ha creduto di poter gestire i media, mentre ne è stato gestito, osannato nelle cose sbagliate, dannato in quelle buone (“dalemone”). Quanto a Veltroni, ha perso tutte le elezioni che ha gestito come capo partito: le europee del 1999, le regionali del 2000, le politiche del 2001, quando il suo partito scese al minimo storico, le politiche del 2008, le regionali e amministrative in Sardegna e altrove.
Il giudizio di Romano tuttavia non è scontato. La storia di questo gruppo potrebbe anche essere quella di un successo: avendo essi trasformato una bancarotta storica e politica, fino al dimezzamento del voto elettorale, in una vittoria, a loro si potrebbe anche ascrivere speciale sagacia, se non genialità politica. È un fatto: nel 1979 il Pci perde le elezioni, dopo avere avviato l’Italia al declino con cinque anni di compromesso storico, con i governicchi Moro e Andreotti. Nel 1989 scompare il sovietismo, e quindi anche il Pci. Nel 1999 D’Alema a palazzo Chigi chiude il Lungo Golpe di Scalfaro e Borrelli: non è il primo uomo di sinistra a capo del governo, ma è pur sempre il primo postcomunista. Questa è la storia. Nel 2009 l’ex Pci si è trasformato in Pd, annettendosi i democristiani di sinistra, mentre Napolitano è presidente della Repubblica - Napolitano che gli stessi dioscuri di oggi, Veltroni e D’Alema, estromisero dalla successione a Berlinguer, e da un possibile cambiamento del Pci che avrebbe risparmiato tanti lutti all’Italia e alla sinistra. Non sarà l’eredità integrale di Berlinguer, ma è una capacità manovriera superiore.
E d’altra parte non si può fare colpa a loro, benché corresponsabili, di Berlinguer, della sua faziosità eretta a politica. Il cui Pci vive e combatte insieme a noi, ancora dopo vent’anni. Al centro della sua storia-requisitoria, Romano nota che, quando D’Alema va a palazzo Chigi, a ottobre del 1998, sa già che potrà governare il paese ma non il suo partito. Ancora nel 1990 il Pci era filosovietico, ancora nel 1991, fino al golpe di agosto di Gorbaciov con la dissoluzione dell’Urss. Ancora oggi l’Italia è per molti aspetti postsovietica, per l’antiamericanismo, il burocratismo irriformabile, l’inefficienza sindacalizzata negli ospedali, la scuola, i comuni (trasporti, spazzatura, decentramento), anche se i suoi santi non sono solo postcomunisti.
C’è anche da dire che i berlingueriani vengono da lontano, la tradizione giacobina è sempre stata forte nel Pci – la tradizione del mozzare le teste solo perché invise al partito. A partire dal Gramsci leninista in morte di Lenin, che celebra come “il Capo”, nel presupposto che “ogni Stato è una dittatura”. Avendo a suo tempo su “Ordine nuovo” stabilito, dopo Livorno: “Il partito Comunista continua le tradizioni dei giacobini della Rivoluzione francese contro i girondini. I comunisti sono giacobini, ma per l’interesse del proletariato e delle masse rurali tradite dai socialisti”. Ma questa è storia che sarà difficile da scrivere.
Se è possibile una prova d’appello, si può notare che l’eredità immutata del vecchio Pci - di Togliatti oltre che di Berlinguer o della supponenza - viene bene nel regime elettorale plebiscitario che l’antipolitica ha via via costruito, ma l’applicazione è insufficiente o errata. Si può dire che il berlusconismo non ha altro fondamento che l’insufficienza di D’Alema, Veltroni, Fassino, i tre “compagni di scuola” Fgci? Sì, si deve: Berlusconi ha vinto le sue primarie nel 1994, e da allora, malgrado i fendenti ricevuti, dai giornalisti e i giudici compagni, è sempre al comando: ha domato Bossi e Fini, il razzismo e il fascismo, e batte i postcomunisti, largamente, a ogni elezione. L’avversario del postcomunismo in tutti questi anni è stato un imprenditore. Pieno di sé, ma pur sempre limitato nella visione e nel linguaggio. Che un uomo solo, Prodi, è riuscito a battere più volte. Veltroni si è detto trionfatore in primarie di poco conto (settantacinquemila attivisti si sono mobilitati, per trentacinquemila candidati: quattro milioni di votanti per centomila professionisti della politica non sono nemmeno i parenti - e non erano quattro milioni… ), nelle quali in realtà non ha vinto niente, e non si è legittimato dopo, a parte il culto della personalità – la sua galleria di foto su “Repubblica” è da regime sovietico puro.
Ma non c’è solo Berlusconi. I nipoti del Pci si distinguono, al meglio, come grilli parlanti. Che gestiscono in continua perdita l’enorme patrimonio del Partito. Incapaci cioè, non antipatici, forse nemmeno ipocriti. Ochetto era riuscito a salvare il Pci da Mani Pulite. Degli ex giovani, D’Alema si distingue per il tentativo di tesaurizzare il passato, invece di buttarlo, ma poi è quello che suscita le maggiori ripulse e secessioni. Protagonisti della politica rimangono, da quindici anni ormai, gli avanzi di Mani Pulite, Bossi, Fini, Berlusconi e Di Pietro, i meno che mediocri eroi della “rivoluzione italiana”, o milanese. I postcomunisti hanno seccato l’albero della sinistra, che non cresce più e anzi marcisce. Si vede ora che si discute del dopo: non c’è nessuno. Questi postcomunisti sono, come Berlusconi, giganti nella tebaide. Nel deserto che il Lungo Golpe dell’antipolitica ha lasciato in Italia.
Andrea Romano, Compagni di strada, Oscar Mondadori, pp. 181, € 9
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