martedì 17 marzo 2009

Porte aperte

Un giorno di primavera di questo anno di crisi 2009, che a Roma è sempre solare e lieta, fate richiesta di copia di un atto alla XVIma circoscrizione a Roma, quella della Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi, che avrebbe potuto essere la vera rivoluzione italiana e non fu per l’invidia francese, popolare e democratica, il vero Risorgimento, un atto pubblico qualsiasi, e avrete, protocollata, con oggetto e tutto, la seguente risposta prestampata: “Si comunica che, nell’istanza prodotta dal Sig. X non viene compiutamente dimostrato l’interesse concreto, diretto ed attuale, né viene evidenziata la situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto. Pertanto – non risultando idonea la motivazione addotta – lo scrivente Ufficio non può dar seguito all’istanza di cui all’oggetto”. F.to: Il Dirigente Architetto E.C.
Una riposta prestampata, frutto di consolidata giurisperizia, ineccepibile. Evocatrice anche: la prosa dell’architetto E.C, sigla di fantasia, risuscita come fosse oggi la prima volta che la Repubblica tentò di farsi pubblica, e sono già dodici anni, la realtà talvolta è immutabile. Anche se dodici anni, o sono già quindici, di porte aperte nella Pubblica Amministrazione, che per questo ha creato forniti uffici di rapporti con il pubblico, e di saracinesche calate dalla Pubblica Amministrazione contro le porte aperte, che per questo ha promosso e ottenuto dai rigorosi giudici amministrativi le complesse formulazioni dell’architetto E.C., sono da ritenere un pieno impiego del tempo da parte della stessa, che ingiustamente dunque il ministro Brunetta accusa di nonfarnientismo.
È un giovedì, il giorno che il ministro Treu ha decretato dei ministeri aperti per i cittadini. Di prima mattina, un giorno che la frescura promette di scacciare l’afa di luglio. L’ingresso del ministero a via Pagano è pulito e sgombro, pronto per le visite. Si lascia via XX Settembre, col traffico ininterrotto, le puzze, i rumori, e la pace subentra immediata, col decoro delle istituzioni. Le poche persone che entrano salgono al quarto piano. Dove si trova l’ufficio per i rapporti con i cittadini. Tenuto da due funzionari che sono già al loro posto, nella stessa stanza ampia, a due grandi scrivanie ordinate, senza i soliti ingombri di scartoffie, vuote.
L’orario di apertura è dalle nove, e bisogna attendere. Si attende in piedi, leggendo le bacheche, scambiando sorrisi con gli altri visitatori che invece vanno, tutti con una valigetta rigida, per le loro pratiche negli altri uffici al piano, non soggetti a orario se non quello di lavoro, il corri-doio trasformando in open space ben milanese, d’accenti e operosità. Alle nove in punto i due funzionari ascoltano la richiesta e, senza consultarsi, all’unisono chiedono: “Lei è sindacalista?” Perché, spiegano, un dipendente non può avere l’atto richiesto: “La dichiarazione dello stato di crisi è pubblica", l’atto richiesto è una dichiarazione di crisi aziendale, “ma possono averne copia i rappresentanti dell’azienda e i sindacalisti”.
I due, sempre all’unisono, non oppongono però resistenza: “Quali sindacalisti? Anche uno confederale, sì”. Renato della Cgil, che si occupa della stampa, sicuramente si presterà. Ma Renato non risponde. Sarà presto, conviene ritentare, aspettando nel corridoio vuoto. Solo animato dai primi visitatori che escono dalle stanze, sorridenti, e scambiano saluti, mentre altri subentrano, a incastro perfetto, tutti simili, con la ventiquattrore.
Quando il compagno Renato non risponde alla seconda o terza chiamata, l’idea viene di chiedere in segreteria. Renato c’è, ma è in riunione. Fino a quando la segretaria non sa: “Non sarà breve. Chiama fra un’ora. Fra mezzora, se vuoi”. Insomma, è più che altro una sensazione sgradevole, come quando in mare un cirro lontano porta burrasca. L’idea di recuperare qualcuno della rappresentanza sindacale aziendale contribuisce anch’essa al nervosismo: sono tutti aziendalisti. Uno di quelli che entrano ed escono con la valigetta fa la sua parte, un rosso, che la butta in braccio al suo compagno e urla sarcastico: “È leggerina, neh!”, cercando con l’occhio complicità alla sua involuta insinuazione.
I due funzionari dell’ufficio rapporti con i cittadini stanno sempre ai loro posti, immobili, muti. Sulle loro teste leonine due ritratti danno carattere ieratico alla scena: da una parte il presidente moralista, col suo piglio monacale, non si sa cioè se più semplice o più furbo, dall’altra il presidente del consiglio, che per distrazione, e per l’apprensione crescente, rimanda per un attimo al cantante Drupi, del resto suo anagramma, senza naturalmente la capigliatura cavallina. Un tentativo di fare conversazione per ingannare l’attesa, essendo l’unico visitatore, cade: i funzionari rimangono composti, con gli occhi bassi. Finché la decisione di porre urgenza sulla segreteria alla Cgil s’impone e riesce, Renato viene al telefono.
Renato è rassicurante, ci penserà lui, “ma non subito, in tarda mattinata”. Consiglia di aspettare al ministero: “Appena ho un minuto scappo: da qui sono due minuti”. E insomma, la cosa si risolve. Se non che, fra una cosa e l’altra, sono già le undici, e la targhetta alla porta dell’ufficio rapporti con i cittadini è precisa: l’orario è fino alle 12,30. Lo scoramento quindi rigurgita. Tanto più che, alla richiesta alla romana di conferma dell’orario, “allora c’è tempo solo fino alle 12,30?”, uno dei due precisa: “L’orario di lavoro è fino alle 14, fino alle 12,30 quello di sportello”. Che non si sa se è un limite o una possibilità.
Si dice in questi casi che ci si sente come un animale in gabbia. Ma chissà cosa sente un animale in gabbia. Mentre il rovello insorge di cercare una via d’uscita nella segreteria del buon ministro, che in fondo è un compagno pure lui, seppure del partito del presidente del consiglio, e ha un addetto stampa amico. È farsi violenza, non è un’esagerazione, e l’indecisione vince. Il riserbo impone di non disturbare la segreteria oberata dai tanti stati di crisi che il buon ministro avalla – Treu in tedesco è leale, uno che sta alla parola. In Italia, come si sa, l’articolo 18 proibisce i licenziamenti. Con lo stato di crisi invece si può licenziare liberamente, non c’è neanche la giusta causa, la difficoltà di trovare una giustificazione. Per cui gli stati di crisi si moltiplicano.
La tentazione della raccomandazione vince infine con la stanchezza, poiché si aspetta in piedi, il corridoio è lindo e vuoto. C’è lo spettacolo di chi entra e chi esce, per chiedere lo stato di crisi, o sollecitarne l’iter. Ora a buon ritmo, segno che i funzionari sono diligenti e operosi. Ma la stanchezza prevale, e con essa la tentazione della raccomandazione. Anche per darsi fiducia: con l’addetto stampa del ministro abbiamo condiviso la “creazione” politica del ministro stesso, con articoli e interviste, quale giuslavorista eminente.
Non si tratta peraltro proprio di una raccomandazione. E comunque non si può fare. L’addetto stampa non c’è, non viene, ma il capo della segretaria è svelto e chiaro: “Sollecitare è inutile, hanno deciso che può avere le carte solo chi può dimostrare un interesse diretto. Può dimostrarlo legalmente. Hanno fatto una causa per questo, una vertenza di lavoro, il sindacato li ha assistiti. Possiamo solo autorizzarne lo straordinario di sportello fino alle 14. C’è un’indennità di sportello, sa?” E ha disposto l’autorizzazione allo straordinario.
L’ultima attesa è stata nervosa. I due funzionari erano sempre al loro posto, le facce sempre di marmo, non fosse stato per gli occhi, in qualche modo mobili, sarebbero stati busti policromi dell’Archeologico di Napoli, erano di moda nel secondo Ottocento, ma dopo le 12,30 ogni minuto si è fatto contare. È passata così l’una. Un’altra chiamata, dal corridoio ormai deserto, non ha avuto esito: Renato non ha risposto, né la segreteria. Finché alle 13,25 Renato è uscito dall’ascensore. Sempre gioviale e un po’ affannato, “ci ammazziamo di riunioni”.
La sua vista ha infine animato i due funzionari, sembrava lo aspettassero. Non gli hanno chiesto un’identificazione. Hanno compulsato insieme l’indice degli stati di crisi. Uno dei due ha reperito in una stanza a fianco la “Gazzetta Ufficiale” che ne aveva dato pubblicazione, rendendolo esecutivo. L’altro ha fatto la fotocopia. Ha acceso la macchina delle fotocopie. Che ha imposto un’altra attesa di una diecina di minuti, il tempo di una sigaretta nervosa, ma con la certezza infine che il documento era ottenuto.
Sono poche righe di testo, su una facciata. Il decreto effettivamente dichiara la casa editrice in stato di crisi per ramo d’azienda. Riconosce cioè la crisi senza accertarla, consentendole di licenziare mille poligrafici e cento giornalisti. È un decreto di due articoli, e non sembra contestabile. Renato concorda: “Li fanno bene, sono studiati da grandi giuristi”. Né d’altra parte c’erano illusioni da coltivare. Solo che, essendo disoccupati, uno ha il problema la mattina di trovarsi un’occupazione del tempo.
La morale è: tutto questo non sembra, ma è giusto. La prima lezione del professor Giannini all’università, Massimo Severo, era: “Il diritto amministrativo è la scienza che consente ai dipendenti pubblici di non lavorare.”. L’architetto E.C, che, nel tempo libero, si presta a dirigere l’ufficio tecnico della XVIma circoscrizione, di Garibaldi, della Repubblica romana eccetera, con la sua prosa al ciclostile, sapientemente redatta nella sua concisione per ogni occasione possibile di non fare, bisogna riconoscere che è studioso accorto.

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