Giuseppe Leuzzi
Hanno benevolmente salvato, senza spendere una lira, su invito perentorio della Banca d’Italia, la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, per prima, poi quella delle Puglie, quindi i banchi di Sicilia e di Napoli. Guadagnandoci, evidentemente, poiché non se ne sono lagnate, ma sempre col cipiglio del salvatore suo malgrado, per la solita malintesa solidarietà con il Sud. Di propria iniziativa invece le grandi banche di Milano hanno rilevato le banche dei paesi dell’Est, in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Croazia, paesi baltici. Le hanno pagate, anche molto caro, e ora per esse temono il fallimento. Ma mai una critica.
Nella rubrica che apre un mensile pubblicitario del “Corriere della sera” Ernesto Galli della Loggia dice l’autostrada in Calabria infestata dalla ‘ndrangheta - “da casello a casello” dice il titolo, ma questo è un errore, non ci sono caselli. È così, spiega lo storico, perché Fanfani che ne varò i lavori, parlava da fascista. E perché “le oligarchie politiche calabresi” ne imposero un percorso interno invece che “la linea costiera”.
Galli della Loggia è forse il miglior storico contemporaneista dell’Italia, non pregiudicato, che ha elaborato su molti aspetti tracce importanti. Ma a Sud non ci vede bene. Nel 1992 voleva che si recintasse col filo spinato. Nel quadro di un suo indimenticabile decalogo contro la mafia, per il quale lo Stato doveva rendere impossibile la vita al Sud, tagliando acqua, elettricità, telefono e patente.
Sarà la passione – Galli della Loggia non è il solo. Ma lo storico non sa, per esempio, l’inattendibilità del pentito di mafia singolo, senza riscontri. Non sa la natura speciale del pentito di mafia calabrese. Non sa che l’autostrada fu costruita in pochi, pochissimi, anni – la metà di quelli che ci sono voluti per il passante di Mestre, 475 chilometri pieni di gallerie e viadotti, contro 32 piani. E così via. Né sa che l’autostrada, per fortuna, ha risparmiato “la linea costiera” calabrese, anche se non tutta.
Sembra non sapere dle resto nemmeno come si fanno gli appalti in Italia, e questo è grave. Si appella ai “cittadini della Calabria e di molte altre zone del Sud”, ai quali chiede, a “questi nostri connazionali”, di darsi una regolata. Altrimenti, dice, “prima o poi (e più prima che poi) il resto del Paese non ne potrà più dei loro problemi, li abbandonerà a loro stessi”, eccetera eccetera. Cioè, non si rende conto, lo storico, che sarebbe meglio prima che dopo, che il Sud si liberi finalmente del sistema italiano di fare gli appalti. Sa Galli della Loggia come si fanno gli appalti a Roma, dove vive, o a Milano, la capitale morale d’Italia?
Ma, poi, Galli della Loggia cita l’Antimafia, la commissione parlamentare. E uno non può dargli torto, è l’Antimafia che scrive, nella relazione 2008: “La ‘ndrangheta controlla metro per metro, casello per casello, grazie a una spartizione-accordo, i lavori perenni di ammodernamento e di ampliamento della struttura, sostenuti da finanziamenti pubblici nazionali ed europei interminabili, con continui incrementi di previsioni di spesa e relativi aggiornamenti di bandi di gara”. Siccome questo non è vero, si conferma che l’Antimafia è in realtà uno dei più grossi promotori della mafia – un onest’uomo legge le sue relazioni e dice: “Che ci sto a fare?”. Ben protetto, e anzi immunizzato (alcuni dei suoi presidenti e membri autorevoli sono stati e sono percettori dei voti mafiosi, non innocenti). Ma resta il dubbio: se è come dice l’Antimafia, tutte le imprese che hanno l’appalto dell’Anas per l’ammodernamento, le maggiori imprese nazionali, del Nord, sono allora della ‘ndrangheta.
Perché non si fa una storia dell’Antimafia?
Il Sud per i viaggiatori inglesi del secondo Settecento era il Sud della Francia, povero, sporco, in rovina. “Chambéry, la capitale della Savoia”, scrive il dottor Burney (“Viaggio musicale in Italia”), è una poverissima città, senza commercio, piena di fannulloni e mendicanti”. Nel “ricco vescovado” di Saint-Jean de Maurienne, ai piedi del Moncenisio, la cui ragguardevolissima rendita raggiunge le 22 mila sterline annue, “la gente vive allo stato quasi selvaggio: una sola camera basta a tutta la famiglia, compresi muli, asini, vacche e maiali” – oggi Saint-Jean de Maurienne è rinomata stazione di sci.
Anche in Italia, in tutto il Nord prealpino, il dottor Burney non trova che “polvere, sporcizia, ragnatele, pulci, cimici”. Tra Torino e Milano la campagna è infestata di “fuorilegge”, ladri assassini.
La Calabria è per Pasolini studioso della poesia dialettale (“Il Reame”, saggio del 1952 raccolto in “Passione e ideologia”), “isola anch’essa, come la Sardegna e la Corsica, tanto da avere con queste strette analogie geografiche e umane, e più isola della Sicilia”. Intuizione affascinante, che il poeta confina stranamente tra parentesi.
A conclusione delle cinque pagine che Pasolini dedica alla poesia dialettale in Calabria altre poche righe che valgono una storia della letteratura, e una storia civile e politica. Pasolini concorda con altri critici che la poesia dialettale calabrese è umanistica e borghese. “Ma”, spiega, “questa contaminazione col dialetto di tutta una cultura umanistica e borghese non è senza coerenza con tutta la Calabria: questa gentilezza, questa civiltà che lievitano ingenuamente i versi dei calabresi non sono essenzialmente diverse dalla gentilezza e dalla civiltà della più autentica poesia popolare; e forse bisognerà mettere tale fenomeno in relazione con l’italianizzazione recente della Calabria (in cui il greco dei Bizantini si era sovrapposto senza soluzione di continuità a quello antichissimo della Magna Grecia), per cui l’italiano importato in Calabria era già un italiano colto (e, inoltre, l’antico spirito “greco” sussisterebbe quale ideale struttura di questo dialetto recente): sì che non si danno nenie più vicine a quelle del Sannazzaro delle nenie cantate dalle madri calabresi”. Le nenie colte del latinista Sannazzaro.
Il resto delle cinque pagine è un’illustrazione del saggio di Corrado Alvaro, “L’anima del Calabrese”, che apriva il numero speciale del “Ponte”, la rivista fiorentina, sulla Calabria, settembre-ottobre 1950. Con una notazione anch’essa ancora vera, cioè nuova (naturalmente tra parentesi): l’anima del calabrese, dice Pasolini, “Alvaro delinea con eccezionale acume e umanità (meglio certo di quanto, in senso realistico, abbia fatto nel suo per altri versi importante Gente in Aspromonte)”. Sulla Calabria Pasolini ritorna, con altre cinque pagine, nel saggio sulla poesia popolare, dopo aver riscoperto, a Martano (Lecce) e Bova (Reggio Calabria) un canto grecanico quasi identico sul tema della bella e la pulce.
Sempre a margine, questa volta in nota, Pasolini osserva anche non c’è romanticismo nella passione meridionale, né pietismo nella bontà: “Uno studio sul “Romanticismo nell’Italia Meridionale” è ancora da farsi e sarebbe assai interessante, se il Romanticismo rimane nel Meridione pura applicazione di formule sentimentali e morali di natura assolutamente contraria a quella indigena; nella cui fenomenologia psicologica mancano quei caratteri “cristiani” immanenti al Romanticismo e che sono tipicamente nordici. La “passione” meridionale non è un dato romantico: come nella “bontà” del meridionale non c’è pietismo. La scena popolaresca o il fatto di sangue “romantici” hanno nel Meridione il sapore del mimo o della tragedia greca, anche quando restano involuti nell’equivoco culturale” (il riferimento è a Di Giacomo e altri romantici napoletani”.
Nello stesso libro, “Passione e ideologia”, Pasolini precisa in fine, recensendo nel 1957 Zanzotto: “Si sa che le aree marginali e le isole sono linguisticamente conservatrici”. E questa è la mancanza, che si sente così forte, della Calabria culta: non essere conservatrice come la sua lingua sarebbe. Non elaborare le radici, e quindi non vivere. Per legarsi invece saprofiticamente a Roma, a Milano, a ogni esperienza altra.
Suonatori dalla Calabria trova il dottor Burney nel 1770 a Napoli: “Poco prima del Natale suonatori girovaghi giungono a Napoli dalla Calabria: … cantano di solito accompagnati da una chitarra e da un violino, che non è appoggiato alla spalla ma tenuto in basso”.
Nessuno sa chi fossero, che fine abbiano fatto, che strumento fosse il violino tenuto basso, la storia (in Calabria) non esiste.
Tracce ampie lascia il dottor Burney: “Paisiello ha introdotto qualcuna di queste musiche nella sua opera comica che si sta ora rappresentando (“Le trame per amore”, n.d.r.). Piccinni mi promise di procurarmi alcune di queste appassionate melodie popolari”. Che quindi erano trascritte.
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