Ci si interroga ancora, dopo quindici anni, sui motivi del successo di Berlusconi. Per il populismo si diceva, ma non ha funzionato. Per la politica spettacolo si dice, ma non funziona: Berlusconi come uomo di teatro è un flop, e anzi si danneggia. A meno che per teatro non si intenda la Commedia dell'arte, di cui gli italiani furono maestri, ma si pensava di un tempo antico: dei suoi personaggi buffi e delle sue situazioni Berlusconi è interprete sempre azzeccato. Ciò spiega tra l'altro le sue esagerazioni, quelle uscite che si pensano dannose e invece non lo danneggiano. Ma allora non è tanto di teatro che si parla, quanto del fatto che l'Italia vive ancora al ritmo e ai canoni della Commedia dell'arte - per mancanza di meglio? per scelta di vita?
Si potrebbe anche parlarne seriamente, malgrado il boccaccesco che gli viene ora riversato addosso (mancava, questo sito lo ha tempestivamente segnalato). Le elezioni del 2008 hanno manifestato in modo perfino eccessivo la vera ratio del voto al centro-destra: l'attenzione del centro-destra verso i problemi. I problemi di oggi, non quelli di ieri: il governo della spazzatura e dei terremoti, e della globalizzazione in qualche misura, le schiavitù fiscali, la sicurezza, di polizia e economica, contro la speculazione e i paradisi fiscali, più opportunità per il lavoro autonomo, più previdenza, meglio distribuita, più certezza processuale se non normativa, e quello che rimane del welfare. Altro che fascismo, questo sarebbe un governo minimo, e tuttavia è singolarmente mancante, se non per la politica, sia pure in forma di "uscite" estemporanee, di Berlusconi. Il vero fascismo sarebbe oggi l’estremismo dei vecchi baroni dell’università e dell’editoria, e degli agitatori di piazza, sia pure televisivi, al solo fine della audience, per la battuta, per potersi dire migliori. Che non sono di sinistra – se sono fascisti! Ma che la sinistra si beve avidamente, questa sinistra che respira solo con la Rai, le liberalizzazioni, le privatizzazioni, il business più spericolato, e l’anticlericalismo. Ma non è tempo di parlarne, non ancora.
Berlusconi prospera per la sbrigativa personalizzazione dell’esecutivo, cioè per la principale obiezione delle opposizioni? E' possibile, gli si oppongono Montesquieu molto immaginari: presidenti della Repubblica subalterni al Csm, partiti dinamitardi delle Camere, con l’irrisione, le assenze, gli emendamenti a migliaia, e giornaloni pierini di nessun credito. È insomma tempo di aggiornare la biografia dell’uomo che ci governa (http://www.antiit.com/2007/11/il-mondo-com-2.html).
Sempre si dice che Berlusconi è un profittatore, un trafficante, un evasore fiscale e un corruttore, nonché un fascista e un capomafia, ma con cautela, poiché è uno che qualche volta ha perduto le elezioni e le altre volte si è fatto eleggere regolarmente, e allora bisognerebbe dire che gli italiani sono ladri e fascisti, come fanno all’“Economist”, la bibbia del ladri, quando sono sobri. Oppure dimettersi da italiano, e altre cose lacrimevoli. Ed è vero che è in lotta con i giudici. Ai quali minaccia sempre una riforma che poi non fa, e quindi non si sa se non è un gioco delle parti, tra giocatori un po' cialtroni. Roba loro, insomma. Ma è difficile credere che siano solo dovuti e casuali gli avvisi di reato che arrivano il giorno in cui si apre una campagna elettorale, oppure tre giorni prima del voto, o il giorno prima di una Conferenza Onu sulla criminalità, o il giorno della Conferenza mondiale sulla fame. O il giorno dopo che un sindaco vezzeggiato ma incapace è finito al ballottaggio. Non con una pratica formale ma con anticipazioni e indiscrezioni ai coraggiosi quotidiani "Repubblica" e "Corriere della sera". E uno vorrebbe poter non pagare così lauti stipendi, roba da parlamentari della Repubblica, a magistrati felloni o goliardi, per statuto irresponsabili e intoccabili.
Il segreto è, forse, che questo egomaniaco un po’ cialtrone ha i piedi per terra, è l’unico che ce li ha. Che sa che c’è la crisi. Che la crisi è grave. Che i rischi sono enormi. Che sa che c’è stato il terremoto. Che c’è un partito dei giudici, catastrofico (affari a Milano, spazzatura a Napoli, veleni a Palermo). Ma soprattutto sa che vige l'antipolitica, che rivoluzionari della Seconda Repubblica sguazzano nell'antipolitica, e questo gioco sa condurre molto meglio di loro. Lasciandoli a sghignazzare e, sotto l’indignazione, a divertirsi: con i processi farsa alla Mills, che ha tutto della spia inglese, con la sua propria moglie, la Medea di Macherio, col Milan che non vince, con l’odio, specie quello uterino contro le ministre, che ha voluto giovani, brave e belle. E c'è a questo punto fondato il sospetto che l'uomo resterà di qualche spessore nel ruolo di federatore nazionale, dopo le sbandate della Lega, che potevano avere ben altro esito (le pacificazione di Formigoni e di Galan in Lombardia e nel Veneto sono a ogni effetto miracolose, la barbarie era già instaurata). E, seppure al coperto dei suoi interessi, di rianimatore della politica: riforma fiscale, della giustizia, degli appalti, della deburocratizzazione, che non ha fatto, né tentato di fare, ma ha sempre riproposto. Inefficiente, questo sì.
Mediocrità, stupidità? È questo il segreto del successo di Berlusconi: la mediocrità degli avversari, l'antipolitica è un brutto virus, non ultimo Franceschini, uno che al meglio è confuso. Anche lui, come tutti bisogna dire, con la presunzione che Berlusconi debba restituire i voti - quasi che essi fossero segnati, bel concetto di democrazia. E per questo alla rincorsa del Centro inafferrabile. Invece di ricostituire una salda e affidabile sinistra, cui il Centro inafferrabile si aggrapperà - il Centro è per natura incerto, e pusillanime. Una sinistra che solo sa esprimersi coi giornalisti-giudici.
In un clima di generale ipocrisia, è vero - è su questo che Berlusconi, eccessivo e perfino volgare qual è, capitalizza. Dove vige la retorica della prevaricazione, la scintillante invenzione di Umberto Eco ("A passo di gambero", pp. 53 segg.) sulla base di Tucidide, del discorso di Pericle e del discorso degli ateniesi ai Meli: ho, abbiamo, il diritto di prevaricare perché sono, siamo, i migliori. Retorica che sembra ingiusta, bisogna aggiungere, ma è insidiosa: il merito ha ancora parte nella giustizia, nella redistribuzione. Senza contare che la stessa giustizia - a ciascuno il suo - si può intendere in tanti modi oltre che l'egualitarismo. E' anche difficile peraltro pretendere da un milanese che sia come gli altri. E' così che gli ateniesi potevano, bontà loro, spiegare ai Meli: noi abbiamo il diritto di imporre la forza perché incarniamo il governo migliore.
Ma, poi, tutto questo, il discorso di Pericle e quello degli ateniesi, sono brodo di Tucidide, retore abile quanto altri mai, che però, per mero carrierismo, la sua città Atene aveva tradito nella guerra contro Sparta - o comunque per questo era stato ostracizzato e visse in esilio. C'è anche questo da considerare, il discorso delle fonti: c'è in campo un Berlusconi, per dire, un tipo non raccomandabile, e c'è il suo nemico Murdoch, uno che chiamano lo Squalo. Mentre noi siamo ancora al discorso dei "compagni di strada", per cui corrotti e grassatori possono dirsi amici, se non compagni, se combattono la stessa lotta.
Il sovietismo che non è morto
Dopo il populismo, non sapendo che pesci pigliare, la scienza che non si vuole piegare alla evidenza ha messo di moda la sospensione della politica. Un concetto che dice solo l’indigenza dell’analisi (o scienza della) politica: Berlusconi può essere solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, à la Clausewitz. Non più, ovviamente, quella dei minuettisti piroettanti sull’orlo della corruzione, del compromesso storico, col basso continuo dei sordidi procuratori della Repubblica, ma l’irrompere degli interessi. Quando Berlusconi parla di sé è talmente sbruffone che si resta interdetti, più che ridere o censurarlo. Ma se uno passa anche solo qualche giornata al Nord dell’Appennino sa che esprime una furia generale: tanti, tutti, farebbero la pelle a tutti i politicanti, i minuettisti cioè della glossa e della polizia giudiziaria.
L’Italia che “salta” da sinistra a destra, con costanza, da quindici anni, con fatica, barcamenandosi tra i mille ostacoli posti dalla vecchia politica delle consorterie, lo fa per stare in linea con il nuovo assetto mondiale, il passaggio globale al mercato e quindi alla destra – senza obiezione possibile, giacché ne è protagonista la Cina comunista. Ma l’Italia lo è in modo speciale: 1) abolendo la politica; non solo i partiti di massa ma ogni espressione politica, individuale e di circolo, di idee, di programmi, di bisogni; 2) affidandosi a uno che non si sa cos’è ma sicuramente è un impolitico. Di Berlusconi non si può trattare che per scherzo, e tuttavia è uno scherzo che dura, fatto tanto più straordinario per un pubblico poco propenso ai cambiamenti, poco succube alle tendenze (acquario, gossip, stupidità), e anzi critico e ipercritico. Berlusconi è uno schiaffo che il pubblico dà alla non politica italiana.
Se così è – è così – il rebus italiano è in realtà manifesto. Il “salto” dalla sinistra a questa incredibile destra origina dal golpe del 1992. Dalla mancata autocritica del partito Comunista. Nonché non sciogliersi (ha solo cambiato nome), il vecchio Pci: 1) si è trasformato in un partito di potere (dossier, ricatti, spregiudicatezza), attraverso le dirigenze dei giornali e alcune Procure della Repubblica; 2) ha imposto una generazione dura a morire di personaggi incapaci; 3) ha obliterato ogni concorrenza fuori dell’ex Pci, sempre attraverso i media e le Procure; 4) ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto, sulla scuola, l’università, la sanità, il lavoro, le pensioni.
Eccetto che per l’uso delle armi, tutti gli ingredienti del golpe sono stati usati, con la complicità della marionetta Scalfaro: carcerazioni in massa, condanne senza processi, Parlamenti disciolti. È solo qui la sinistra, nell’uso della forza, nelle redazioni e nelle Procure. Residuale dunque – anche se, in questa forma, si può dire un miracolo che raccolga ancora un voto su quattro.
Quando Berlusconi attacca i "comunisti", lo farà per ridere, ma morde. Giocando al “re è nudo” vince, senza barare. Così quando accusa Rai 3 di ostilità: una cosa che tutti vedono, ma Rai e il Pd si affannano a negare. Sylos Labini ha voluto intitolato il suo ultimo libro “Berlsuconi e gli anticorpi”, all’editore spiegando: “I «berlusconi» ci sono ovunque, da noi mancano gli anticorpi”. Avrebbe potuto dire, se avesse voluto vedere, che mancano perché questa è l’Italia della sua stessa rivoluzione legale, l’Italia di Milano – al coperto dei giudici napoletani.
Poi ci sono i fatti, oltre cioè la retorica cominfomista. Nessun commentatore, anche onesto, ama soffermarvisi, ma il fatto è evidente, forse paradossale ma perno ormai consolidato del “ciclo berlusconiano”. L'ultima (non) incongruenza della destra berlusconiana è che beneficia di alcuni milioni, fra i quattro e i cinque, di voti di sinistra: molti socialisti, i repubblicani, non pochi verdi e radicali. L’evidenza è che ci sono in questo governo di destra più socialisti che in qualsiasi altro governo della Repubblica. Con Brunetta, Frattini, Tremonti, Sacconi, Bonaiuti, Stefania Craxi, Eugenia Roccella. E Chiara Moroni, Margherita Boniver, De Michelis, i tanti giuslavoristi che hanno dato un qualche assetto al mercato del lavoro, da Marco Biagi a Michele Tiraboschi. Sono necessari per combattere lasovietizzazione persistente del Paese. Che c'è, e pesante anche per un non liberale, dalla fila alle Poste al controllo dei media, pubblici e privati, e combatterla è una risorse politica evidentemente pagante.
Ritorna a questo proposito il Berlusconi usurpatore caro alla vecchia Dc, in tutte le sue forme. Che ne sarebbe stato della destra senza Berlusconi. Berlusconi ha occupato un posto non suo, solo perché era libero. E altrettali. E invece senza Berlusconi ci sarebbe stato molto più di cui preoccuparsi, questa destra è un problema. Fini, Casini, Bossi sono solo stati capaci d'impedire al governo di governare, le tre volte che hanno vinto le elezioni, questa ovviamente compresa. Non di fare una legge invece di un'altra, ma semplicemente di fare qualsiasi legge. Bossi un po' meno degli altri due, meno vanitoso, meno principino, meno piccolo Andreotti, ma, insomma, Bossi senza Berlusconi è meglio non pensarci. Né Fini né casini hanno mai avuto un'idea, un progetto, un disegno di legge, né hanno promosso perdonalità di governo affidabili. Tengono dei partiti come piedistalli e basta, epitome della politica talk show.
Al suo primo governo Berlusconi diede un’impronta liberale, trovandosene a mal partito, tra l’ideologia dei buoni ragazzi Martino, Marzano, Urbani, Biondi, Costa, e i lazzi dell’Avvocato, ma ebbe il coraggio di nominare Emma Bonino e il professor Monti alla Commissione europea. Il secondo inefficientissimo governo Berlusconi del 2001 fu dominato dal democristianesimo: dei Letta, Fini, Fazio, Casini, Follini, Scajola, e l'incubo ancora persiste. Il terzo Berlusconi è marcatamente, forsennatamente, riformista, e quindi ha come riferimento i socialisti, con la Gelmini di Comunione e Liberazione. Acculando l'opposione di sinistra al blocco delle riforme che pure dovrebbe e vorrebbe fare. Ma a Fini non sta bene, e benché sia presidente della Camera fa di tutto per indebolirlo.
Ma, poi, Fini e Casini non sono nulla. Per quanto riguarda la destra, di Berlusconi si può solo dire che ha irreggimentato – non provocato - la massa populista e razzista che altrove, in Francia, in Germania, alimenta fazioni politiche forsennate. All’insegna del perbenismo, che però è meglio delle squadracce. Due volte ha domato la Lega, il partito del Milano. Dall’8,7 per cento del voto alle elezioni del 1992, Bossi era cresciuto al 10,1 nel 1996, per le macchinazioni di Scalfaro. Con Berlusconi è sceso al 4 per cento, il 3,9 nel 2001 e il 4,2 nel 2006. Nel 2008 ha raddoppiato, ma dopo due anni di centro-sinistra, portandosi di nuovo all’8,3 per cento.
Mentre si può argomentare che questa sinistra è diventata destra. Che non sarebbe una novità, le ambivalenze sinistra-destra hanno connotato tutto il Novecento, il secolo ideologico, e sono ormai una forma mentis - Fini, almirantiano, che diventa leader della sinistra, o la sinistra che marcatamente, forsennatamente, blocca le riforme per tentare di affossare Berlusconi. Ma, restando nell’ambito della costituzionalità e della moralità politica, ciò sempre denota un cambiamento. Non tanto dell’opinione – raramente si muta un’opinione – ma dei riferimenti. Succede che tanti moderati votano a sinistra se la sinistra assicura la legalità e il buongoverno. Per quale altro motivo mai tanti destrorsi professi sono colonne della sinistra, Di Pietro, Travaglio, Zucconi, D'Avanzo? Mentre tanti riformisti – i socialisti, se sono ancora qualcosa, sono riformisti, per l’efficienza e il buon lavoro delle istituzioni – devono votare a destra.
Il mondo politico tutto si perde nel reality quotidiano televisivo, mostrandosi per quello che è, senza qualità. E Berlusconi diventa un gigante solo per fare le cose che per ruolo deve fare – non al meglio, lo sanno tutti che è inadeguato. Può pure dire che questo parlamentarismo è inutile. Che è la verità, anch’essa a tutti nota: è di un livello così basso che tutti i legislatori di Berlusconi, Brunetta, Gelmini, Carfagna, per non dire di Sacconi e Tremonti, giganteggiano al confronto. Di fronte, Berlusconi ha un Pd(C), un partito 'dde che? Una formazione affrettata di vecchi berlingueriani, spregiatori dell’universo, settari, furbi, che non sanno che la guerra è perduta, e di ex democristiani che li temono e li odiano. Con le ali marcianti Casini e Di Pietro, ed è tutto dire. Il Tg 1 di questi anni resterà nelle cineteche come un “Metropolis” seriale di piccoli mostri: di facce assurde che dicono cose assurde, per di più col cipiglio del papa in trono.
Dopodichè, e anche per questo, resta il fatto che l’Italia di Berlusconi non sa riprendersi dal golpe, non è pacificata, non è bella. Non ha risolto nessuno dei suoi tanti problemi, la scuola, l’università, la giustizia, i trasporti urbani, e ne ha aggiunto altri, la sanità, la viabilità, l’efficienza pubblica, senza “porsi il problema” del debito. Immersa nei vizi di sempre. Inefficienza, corruzione, evasione.
Golpe continuo giudiziario
Nell’attesa dell’alba vale tuttavia la pena, benché l’esercizio sia rischioso, tentare di capire perché Berlusconi vince facile. Intanto, è una vittima. Berlusconi e i suoi, Fini, Bossi, sono il lascito della “rivoluzione giudiziaria” che ha annientato quindici anni fa la politica. Una controrivoluzione (ma fu un golpe, dei giudici con Scalfaro, che se è qualcosa è un giudice, l’ultimo che ha comminato la pena di morte in Italia, beghini e collo torto quale si professa) da cui l’Italia fatica a riaversi: non c’è democrazia senza politica, il voto è rassegnato. C’è peraltro a Milano una questione morale fortissima nella magistratura, a petto della quale le leggi ad hominem di Berlusconi sono senz’altro legittima difesa: avere assistito anche a una sola udienza del falso processo Mills genera una repulsione fisica, non per Berlusconi.
Berlusconi ha vissuto, da milanese sopraffattore, una brutta storia di sopraffazioni. Un signore che si siede a palazzo Chigi con tutte le sue aziende e un campo sterminato d’interessi. Portando a giustificazione la difficile successione tra i figli di due matrimoni. Di che stropicciarsi gli occhi. Ma peggio per i suoi nemici. Per quanto svergognato, questo stesso signore è stato vittima di una campagna violentissima contro la tv gratuita o commerciale: “Interrompe le emozioni”, e altre stronzate. E ben due refererendum contro questa stessa tv, che ha vinto. Roba certamente da “comunisti” – due referendum per chiudere una televisione, Mussolini non avrebbe osato tanto, forse Stalin, ma Stalin, certo, non avrebbe fatto un referendum. Senza che nessun sindacato o teorico della libertà di espressione pronunciasse nemmeno una mezza parola di difesa, nemmeno una barzelletta se ne poteva fare. Contro una Procura e una Guardia di finanza che a Milano per quindici anni hanno avuto occhi solo per lui: nessuno ruba a Milano, com’è noto, solo Berlusconi. Negli stessi anni in cui sparivano intere aziende, come la Rizzoli-Corriere della Sera, la Sme un paio di volte, Telecom Italia, e altre giocavano impunemente alle tre carte, Tiscali, Saras, Seat Pagine Gialle anch’essa un paio di volte.
C’è un’illegalità generale, di cui Berlusconi è una parte, non preminente. Non della corruzione per esempio, né delle pratiche antisindacali, sui salari o sui contatti. Nella cajenna milanese, semmai, Berlusconi brilla per lo stellone, che a questo punto è da ritenersi una prova speciale di abilità, se non un segno divino. Più volte lo ha fatto col banchiere di De Benedetti, Ruggero Magnoni – quello che per De Benedetti s’inventò Omnitel, una cosa costruita nel 1989 per comprarsi dal direttore generale del Tesoro Draghi una licenza dei telefonini durante la campagna elettorale del 1994 per 750 miliardi, per venderla l’ano dopo a Mannesmann per 14 mila miliardi. Magnoni nella prima metà del 1994 ha trovato un compratore per Telepiù, la tv a pagamento di Fininvest che Draghi fece dichiarare illegale, il magnate sudafricano Rupert. A metà 1994 Fininvest-Mediaset rischiavano il fallimento, con oltre quattromila miliardi di debito, ma Cesare Geronzi se ne fece provvisoriamente carico alla Banca di Roma. Finché nella seconda metà dell’anno Magnoni, insieme col produttore tunisino Ben Ammar, non mise insieme un ricco parterre di acquirenti della minoranza di Mediaset, Rupert, al Waleed e Leo Kirch, con 1.250 miliardi.
Il rifiuto della partitocrazia
Altre evidenze. Non c’è paragone, quanto a moralità negli affari, tra il Berlusconi paladino della destra e un De Benedetti cavaliere della sinistra, di cui non si sommano i tradimenti, le incursioni, le vendette, i veri e propri imbrogli (la Sme). Eppure di quest’ultimo la sinistra compromessa ha fatto e fa un eroe, un profeta, un portabandiera. Uno legge la squallida indagine di Boccassini e Colombo sulla Sme, il misfatto degli anni Ottanta, e trasecola. Dell’improntitudine più che della faziosità. Di fautori storici dell’antipolitica (il governo dei tecnici, il governo dei professori, la società civile, il emico Berlusconi) che si erigono proditoriamente a difensori del parlamentarismo quale baluardo della democrazia. Certo che la democrazia e la Costituzione sono parlamentari, ma non dei Parlamenti maneggioni di Lor Signori. Il fatto è che rappresenta la sinistra non è di sinistra. Anche perché la sinistra, cessato il togliattismo (il cesaroleninismo) non sa che pensare,se non fomentare l’odio - è un morto vivente, dopo un suicidio, un incubus.
Berlusconi è, sgradevole, uno che sa di che si parla. Per il protagonismo, ma anche per il pragmatismo. Non è male sapere di che si sta parlando o si parlerà. Anche nei suoi pavoneggiamenti in politica estera. Come il famoso patrocinio dell’europeità della Russia, sostenuto davanti al suo “carissimo amico” Bush jr, sapendo cioè che gli Usa saboteranno sempre un asse eurorusso. Sa quali sono i tempi e le loro curvature in discussione, sa palarne compiutamente a braccio. È prolisso, l’opposto cioè di come usa nelle aziende e nei consigli d’amministrazione, ma forse per meglio rappresentarsi i termini del problema di sta parlando. E tuttavia è meglio del ronron indistinto in burocratese dei politici, avulsi dalla realtà e ad essa non interessati, solo al politicking.
Ha un distinto senso delle cose reali anche nel linguaggio. Da una lato ancora Berlinguer, con l’emergenza (lavoro, casa, futuro, donna, gay, bambini, anziani, influenza, incidenti stradali…), dall’altro un (tentativo di) governo, col minimo danno possibile. All’insegna del futuro che è qui, e contro l’insicurezza – che altro ci sta a fare un governo? Da un lato le “priorità”, di Berlinguer e La Malfa, esclusive: la spesa pubblica, il debito, la riforma sempre, e le opere pubbliche, quelle nostre, quelle degli altri invece non lo sono, e c’è perfino la priorità prioritaria. Un modo come un altro per non fare, con la coscienza pulita. Mentre, again, un governo che si sta a fare se non fa?
Sa il fatto fondamentale dell’epoca, che il processo di decisione politico va semplificato. Il fenomeno del plebiscitarismo, importato in Italia nelle forme americane, con le primarie, i circoli, i gruppi d’interesse e d’influenza, la scelta del candidato. L’immagine (sarto, parrucchiere, visagista) che Berlusconi cura ossessivo, come tutta la politica di accentramento dell’attenzione sulla propria persona, non è civetteria, è una strategia. La funzione principale di un partito è di scegliersi un candidato. La categoria del populismo è inadatta per un uomo d’affari, che se è qualcosa è un calcolatore. Lo stesso la sospensione della politica, l’idiozia maggiore – la politica non tollera il vuoto. Berlusconi, per come si presenta, è un adattamento alla politica plebiscitaria. Alla politica democraticamente nata dai referendum. Che non ci sono stati per nulla, per un capriccio di Pannella o di Segni, come poi di Achille Ochetto e Di Pietro, ma sono stati e sono, anche nell’assenteismo, l’espressione migliore degli umori popolari. E tutti, a lungo, con coerenza, hanno fatto blocco sul rifiuto della partitocrazia.
Si può anche dire che l’Italia, come sempre laboratorio d’innovazione, ha mutato gli assetti dell’espressione politica in Occidente. Anche se questo non c’è scritto nell’“Economist” o “Le Monde”, anche se l’ha fatto con Berlusconi. Il plebiscitarismo, la politica incarnata in una persona, seppure con vincoli e contrappesi, libera la politica dalla proliferazione e dall’ipocrisia, ne riduce comunque l’area (sottogoverno, lottizzazione, spoglie), supera nell’azione di governo la dicotomia destra-sinistra, che è al fondo una gabbia e non una ispirazione, una dialettica involutiva e non innovativa, e sopratutto facilita l’attribuzione delle responsabilità. Il plebiscitarismo si è affermato in Italia in risposta alla proliferazione dei partiti, e in favore della governabilità. In questo senso, affermando una leadership, caratterizza anche l’opposizione, la obbliga a caratterizzarsi, ad animarsi. È un modello che è stato presto adottato in Gran Bretagna, da Blair e ora da Cameron, in Francia da Sarkozy, ed è il modello attorno a cui si è costruito il personaggio Obama.
Dopodichè, resta il fatto che l’Italia di Berlusconi non sa riprendersi dal golpe, non è pacificata, non è bella. Non ha risolto nessuno dei suoi tanti problemi, la scuola, l’università, la giustizia, i trasporti urbani, e ne ha aggiunto altri, la sanità, la viabilità, l’efficienza pubblica, senza “porsi il problema” del debito. Immersa nei vizi di sempre. Inefficienza, corruzione, evasione.
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