venerdì 19 giugno 2009

L'Aspromonte mal amato

Tanta narrativa ha qui le radici. Parise del “Prete bello”. Pavese, come dice Pampaloni. Quasi tutta la Morante. Pasolini in parte, mediato dal neo realismo. Che invece vi entra quasi tutto. Oltre alla narrativa “meridionale”, Domenico Rea, Scotellaro, Jovine, Nigro, Strati, i sardi, lo stesso Silone, che più di Alvaro ebbe vita e interessi cosmopoliti. I pastori dell’Aspromonte non sono i vinti di Verga, l’umanità è qui più varia. Ma per un sessantennio una buona metà della narrativa italiana non esce dal format alvariano: poveri indigenti, donne mute, violenti impuniti, bambini tristi – nella forma più alta “l’eterno profugo” che, nota Pampaloni, caratterizza tutta l’opera di Alvaro.
È il caso più eclatatante, dopo la “Spagna” e i “bravi” di Manzoni, di realtà creata dalla letteratura. Veritiera e non, ma più no che sì. Ci sono le donne, ovunque. Ma c’è anche il clichè. Si toscaneggia. E manca la luce, che fa l’Aspromonte, una montagna per questo diversa. Tutta aperta. Un buon caso, al di là delle intenzioni certo, dell’odio di sé meridionale.
Il racconto (“romanzo”) del titolo, “Gente in Aspromonte, identifica la Calabria. Nel celebre attacco, lirico, e nella chiusa, mordace. Nel mezzo Alvaro è molto allievo del San Giuseppe de Merode, ancorché dall’istituzione rifiutato: il buon borghese che il Risorgimento e l’Italia unita volevano, un modello interiorizzato in Calabria, per quanto periferica, più che altrove - il tifo è più radicale nelle periferie. Tutto l’oscuro dell’essere borghese e italiano che fonda la questione meridionale, ma calabrese in particolare. Non c’è altro posto in Italia dove “italiano” ha significato e significa così tanto, dai plebisciti alla politica divorante. Col verghismo, certo, ognuno è causa del suo male: “In questo paese anche la pioggia è nemica”, o “È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere”. C’è anche dell’altro, Alvaro è forte scrittore (la relazione di Schiavina con Andreuccio anticipa, plausibile, lady Chatterley), ma la cifra è quella.
Da più parti è stato detto, Walter Pedullà, che l’ha frequentato, lo definisce “il desiderio di scappare”, da una terra peraltro “dove non si può rimanere e da dove è impossibile fuggire” (“Per esempio il Novecento”, p. 417). Da qui, forse, un “ritroso complesso di colpa”, ma anche l’urto rinnovato, il disprezzo se non l’odio: la fuga è una condanna, risentita. Che costante si rinnova. “Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino”, sottolinea Pedullà (id., p.426).
Nemmeno questo è del tutto vero. Nella stessa raccolta del “romanzo”, come nelle precedenti raccolte di racconti, specie “L’amata alla finestra”, e nelle successive, specie in quelle postume, Alvaro si lega alle origini. Sempre con dispetto, per il padre, per il paese, ma è lì che trova il realismo magico che lo rende sempre vivo. Con dispetto soprattutto verso la Montagna, ecco, che pure aveva tutti i mezzi per conoscere come fa con il mare, gli interessi del padre, compresa la (poca) letteratura sul grande mistero di Polsi, i vagabondaggi di bambino, i personaggi, che ancora s’incontrano: l’Aspromonte è vittima deliberata del titolo che l’ha reso celebre.
Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte

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