Non ha avuto un debutto facile, col fallimento della General Motors, nientedimeno, e una possibile guerra nucleare in Medio Oriente. Ma di più Obama ha fatto di suo: come la mula del Berni, sta sollevando le pietre per inciamparvi dentro. Vittima della stessa voglia di piacere e compiacere che lo ha portato al successo: patronizing è la sua divisa, Obama passerà alla storia come il Buono, ma lo sta mettendo in un imbuto, e con lui il mondo.
Una falsa partenza Obama ha avuto con la crisi. Occupandosi delle banche, che non ne avevano bisogno, mentre invece è tutta l’industria americana che rischia di fermarsi, con la General Motors, l’energia (l’energia verde purtroppo fattura poco), e la stessa informatica. Una falsa partenza ha avuto con la Corea del Nord. Che vuol essere trattata col bastone, e non con gli squittii della signora Clinton. È così che dopo un lungo sonno Pyongyang può di nuovo pensare di annettersi Seul, l’impensabile. Una tripla falsa partenza ha avuto in Medio Oriente.
Obama ha convocato il governo israeliano a Washington, per chiedergli uno Stato palestinese. Non era sbagliato. Ma lo è diventato alla seconda mossa, il reverente omaggio ai rais e capataz arabi, col presidente degli Usa che si scomoda apposta per loro. E più per il deferente linguaggio - benché sempre informe, monotono, di chi legge sul “doppio gobbo” laterale, a destra e sinistra alternatamente - che usa in loro omaggio. Sta esaltando cioè il peggio del mondo arabo, e ancora non lo sa, perché è come se chiedesse loro perdono. Gli Stati Uniti non sono in guerra col mondo arabo, che anzi hanno sempre protetto, contro l’Europa, contro il sovietismo, contro la sovversione. Hanno solo protetto anche Israele, come è loro dovere – e come è ancora loro interesse. Il presidente degli Stati Uniti non è il papa e non ha mea culpa da recitare, perché tanto siamo colpevoli. Né ha un dialogo interreligioso da intrattenere. Non ha neanche della crociate da farsi perdonare, o delle scorrerie e avanzate turche da memorizzare, perché no. L’islam è adulto, è ricco, è forte, e quello di cui ha bisogno sono atti conclusivi, non le pacche sulle spalle per ottenerne dei bravo! bis! per il giubilo della piazza, che solo ne alimentano la sterile immarcescibile superbia.
Il risultato immediato è che nessuna pace sarà possibile. Tanto meno quella a due stati che Obama ha decretato prima di mediarla. Perché gli arabi non sono pronti, e Israele ora meno che mai. Un altro presidente, Carter, ha tentato al primo mandato una mediazione, ed ha ottenuto Camp David, il solo buon risultato in una guerra ormai di sessanta anni, la pace fra Israele e Il Cairo. Ma aveva a segretario di Stato un duro, Brzesinski, e non la signora Clinton, che non sembra capire come va il mondo. Fare il primo passo isolando Israele non è prenessa di nessuna trattativa - e uno scenario perfino si intravvede in cui Obama, che tanto ama essere popolare, non sarà rieletto.
Il tributo ai potentati arabi è fatto anche per irritare l’Iran. Un risultato concreto dle suo triplice errore sarà che l’Iran non si arresta e anzi avanza col programma nucleare. Nel mondo degli ayatollah tanta arrendevolezza ha un solo significato: incrementare la diffidenza, e lo spazio di manovra. Non ci vorrà molto per saperlo: dopo le elezioni, anche se faranno eleggere un moderato, non c’è dubbio che incrementeranno il contenzioso nucleare. Non c’era altra ragione per sperimentare due settimane fa il missile a lunga gittata. Che, anche se l’Iran dovesse, in cambio della luna, firmare il trattato di non proliferazione nucleare, comunque resta negli arsenali. Ma Obama non l’ha capito.
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