“Gente in Aspromonte”, prima di diventare il marchio d’infamia di quella montagna, è stato un grazioso elzeviro, il primo di Corrado Alvaro sulla “Stampa”, il 14 gennaio 1927. Più in armonia con la natura dell’Aspromonte: un eremita e il suo aiutante sono beneficiari e vittime, con la forte ironia dei luoghi, dei portenti che promettono e non sanno produrre - i portenti accadono in natura.
Alvaro è con questo “Gente in Aspromonte” così fin dall’inizio il maestro del racconto breve, quale poi si confermerà, in contrappunto minuto, arguto, allo scorrere della vita. Con illuminazioni per questo insolite, e a loro volta vivificanti: infinite sono le immagini che ne risaltano, anche per il lettore distratto. Uno dei pochi autori per i quali la natura c’è, i fiori, le piante, le stagioni, le ore, i bambini, i ragazzi, il mare.
Non la montagna, Corrado Alvaro la sua non l’amava. Anche se è sempre lo scrittore che meglio ha conosciuto l’Aspromonte, e per strano parallelismo, proprio nell’ultimo elzeviro, sul “Corriere della sera”, prima della morte, e ultimo di questa raccolta, ricorderà il fascino “nei poemi antichi” che per lui hanno sempre avuto “gli arrivi dei cavalieri sperduti nei castelli incantati, da cui la vita si è ritirata, e vi abitano personaggi superstiti a una rovina, a una civiltà, o fede, spenta”. Che è la geografia ideale della montagna calabrese.
“Gente in Aspromonte” è uno dei primi racconti di questa raccolta per più aspetti memorabile. Che si legge dopo una introduzione magistrale del curatore, Giuseppe Rando. Sono i “racconti dispersi” che Alvaro pubblicò sulle terze pagine – allora usava avere ogni giorno un racconto – dei quotidiano “Il Mondo”, “La Stampa” e “Corriere della sera”, non ripubblicati nei volumi a stampa, ordinati per data di pubblicazione, interessante per tutti i lettori di racconti, non solo per gli alvariani. Alvaro non esclude, con tutta la sua fantasia e il forte senso del mito, “il recupero del mondo sommerso calabrese”, nota Rando, gentile eufemismo per la vita dei vinti, che è un’ingiuria oltre che una bugia. Ma i suoi temi quasi gli si impongono: l’infanzia, la solitudine, la natura, le stranezze dell’amore. La solitudine, il silenzio, che Rando sottolinea, sono il segno della narrazione di Alvaro, mai “rumorosa”, fragorosa. “Vide un bel sogno” è tra le prime cose della prima novella pubblicata, “Quaresimale”, estrapolata, avverte Rando, dal manoscritto del suo primo romanzo “L’uomo nel labirinto”, redatto nel 1921.
Alvaro, scrittore calabrese per antonomasia, benché grande viaggiatore, poliglotta, autore cosmopolita unico nel Novecento italiano, con Arbasino, solo progressivamente è tornato con amore, con interesse vero, ai suoi luoghi. La disposizione di Rando, cronologica per essere quanto di più vicino all’edizione critica (senza le sofferenze del genere), è un colpo di genio a questo riguardo. Dopo un rifiuto totale, fin dei sentimenti familiari, e un’identità a lungo rifuggita, per una molto meridionale caratterizzazione italica – non c’è più italiano di un meridionale. Nella quale le origini (linguaggio, modo di essere, vita vissuta) non sono assenti, ma fanno da specchio negativo. Nulla di altrettanto curato per l’Aspromonte come la campagna alvariana attorno a Roma, del racconto “Campagna”, del 1932. Ma “Distacco”, subito dopo, apre la problematicità delle origini.
Alvaro resta così nelle storie alfiere dell’odio di sé meridionale. Non nella sua esperienza di scrittore, però: a un certo punto, scrittore e intellettuale riconosciuto e di fama, rivive in modo diverso i luoghi e i ricordi. Qui come nei racconti di “L’amata alla finestra”. L’origine è anzi una sorta di morbida ossessione, ricorrendo ovunque in questi racconti. Spesso un ragazzo mangia “le cose di casa”, spesso portate o mandate dal padre, e ritorna nelle donne una voce gutturale, “che io conosco bene”, o “la forma delle gambe femminili” delle “razze camminatrici”, zingare, bagnarote.
C’è sempre il rifiuto, anche sarcastico, dell’indigenza, ma la qualità diversa del linguaggio e del modo di essere, se non appunto della vita vissuta, specie la qualità del silenzio e dell’immaginazione, nonché il senso intimo (immaginario) dei luoghi, emerge autonomo. Non più rifiutato e anzi apprezzato. Per una maturazione personale, forse per una caduta dell’utopia – che era l’utopia borghese, anzi dell’inurbamento.
È con questo ritorno alle origini che si sigilla il suo realismo magico. Alvaro resta il più orwelliano degli scrittori del Novecento, per il radicalismo piano, ineccepibile, e per la densità di verità. Ma la sua natura, il mare, la campagna, la stessa montagna, diventa il segno forse più duraturo della sua narrativa, per l'aura appunto di magia. Quello non riducibile al sentore borghese dei racconti urbani, il genere forse più perento del Novecento.
Corrado Alvaro, Gente che passa. Racconti dispersi, Rubbettino, pp. 406, € 15
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