Non votare o votare a sinistra. Per fare i conti con D’Alema, e con la supponenza democristiana. Alle amministrative (forse) no, ma alle europee sì. A Roma, a Firenze e a Torino è marcata la diffidenza della base diessina nei confronti di Franceschini e di D’Alema. Ombre ci sono anche a Bologna e in altre piazzeforti emiliane, seppure mitigate dalla fiducia in Bersani. Massimo D’Alema non ha più l’aureola dell’ex Pci che per primo e unico ha governato l’Italia da palazzo Chigi, e un altro ex Pci ha portato alla presidenza della Repubblica: è visto ora nelle vesti del king maker dello stesso Franceschini, e nel dissolvimento del partito nelle trame democristiane. Che per molti sono una sorta di tradimento. Per D’Alema non sono comunque più i tempi di quando ordinò al Mugello di votare Di Pietro, e tutti i sessantamila compagni della circoscrizione andarono diligenti a votarlo.
Non è la vendetta di Veltroni, che si è veramente eclissato, ma di quelli che una volta si sarebbero chiamati i miglioristi. Chi nella svolta riformista ci ha creduto, sapendo anche che era una lunga marcia verso la socialdemocrazia, e non si riconosce nell’opportunismo e nei giochi infiniti di potere, e anzi si sente tradito. Che ha nostalgia della politica e delle scelte discusse. Gli scontenti sembrano maggioranza, forse perché ne parlano apertamente nei circoli e nelle associazioni. Sono più vecchi che giovani, più legati alle questioni del lavoro, del governo, dell’amministrazione, che non alle vendette della moglie di Berlusconi. A Bologna peraltro è rimarchevole pure il silenzio di Prodi, che non vuole neanche lui identificarsi con i cascami della sinistra Dc.
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