Galvanizzato dalla rimonta ai ballottaggi a Bari e Torino (e anche dove il candidato Democratico ha perduto, a Milano e Venezia), col voto in massa della sinistra, D’Alema ripropone la politica. Prende cioè atto che il sistema politico è plebiscitario, come solo i lettori di questo sito parevano sapere fino a qualche tempo fa, lo addita come una deriva pericolosa, e perfino nazista (avrà letto l’antinazista Jünger?), e chiede che si torni a parlare di politica. Ma, non avendo il coraggio di proporre lo scioglimento del partito Democratico, non subito, e il ritorno ai vecchi compagni Vendola il senatoriale Bertinotti, parte prigioniero e, allo stato, già vittima. Non si candida alle primarie, non si può candidare perché questo sarebbe già lo spaccamento del Pd. Ma non ha idee migliori per governarle se non il ritorno all’antico. Che è impossibile, e anche un proposta debole, per almeno quattro motivi:
1) D’Alema stesso parla “estremista”, lo stesso linguaggio dei reucci dei talk-show che denuncia;
2) parla in nome proprio, senza precisare la scelta politica, che magari è nota ma non è detta: questo è linguaggio dissimulato, cominternista, trasfuso nel modello del “partito del Capo”;
3) non propone un’alleanza o un progetto diverso, ma la vecchia novena, “discutiamone”;
4) non tiene conto che il sistema elettorale-politico è ormai plebiscitario, con la sola eccezione del governo – e non per caso: ogni governo, sia di destra che di sinistra, e lui lo sa, è ricattabile e ricattato. Questo, Veltroni lo sa. E il presidente Napolitano, che pure è stato “fatto” da D’Alema, lo sa e lo dice. Posto cioè che non si può tornare indietro, che tutta la politica è organizzata attorno ai reucci, allora è opportuno che ci sia anche un primo ministro, uno che si prenda le responsabilità, che “decida”.
Forse il difetto è solo che D’Alema è partito troppo tardi, su un dibattito congressuale. Che è copia, effettivamente, povera del modello americano del “partito del Capo”, con i candidati che via via si dichiarano, per poi rabberciare un’identità politica. Ma di cui D’Alema, se non scende in campo, non può farsi il pontefice. Non doveva aspettare Scelsi e la D’Addario, doveva muoversi dopo le due sconfitte elettorali e prima del congresso, quando il Pd si era dimostrato unfit.
Un quinto motivo di debolezza peraltro c’è, da non escludere anche se solo ipotetico: che lo “scossone” dalemiano sia stato contingente, legato al moralismo degli italiani che vanno a puttane, e in cui, insieme con i vendoliani e altri comunisti, siano confluiti molti topi di sacrestia. Che, se Berlusconi si facesse terziario, lo voterebbero santo. E cioè che la sinistra è forse relativa, o una illusione.
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