È il romanzo, critico e amorevole, di quella che usa chiamare la “Francia profonda”. La “vita scialba e solida” della provincia, che l’autrice spesso annota. Con passione e acume che le circostanze della pubblicazione esaltano: scritto nella seconda metà del 1940, quando la Francia era già sconfitta, occupata e divisa, pubblicato a puntate tra l’aprile e il giugno 1941, quando gli scrittori ebrei, tra essi Irène Némirovsky malgrado professasse il cattolicesimo, erano già interdetti dalla pubblicazione. Sotto pseudonimo su “Gringoire”, una pubblicazione fra le più antisemite. È un romanzo quietamente hobbesiano, negli affetti (gli amori non corrisposti), nella vita (le invidie), nella politica (la guerra). Che la fiducia nella vita supera, come da programma: il romanzo è volutamente balzacchiano, di una borghesia letta senza pregiudizi. Nel presupposto, che la guerra e la disfatta acuiscono, che le generazioni passano, le guerre pure, i destini si fanno e si disfano, ma l’amore dura, durano il lavoro e la forza d’animo, dura la patria.
Un romanzo anticonformista, come tutto nella vita e l’opera di Irène Némirovsky. Che la polemica sull’odio-di-sé-ebraico rischia di acculare all’antisemitismo, dopo il successo di stima e di simpatia di “Suite francese”. Per l’effetto perdurante che l’Olocausto rifrange su tutta la storia precedente. Anche se, per molti indizi, era una storia più complessa e articolata. Così come, forse, l’antisemitismo.
Némirovsky è scrittrice di qualità, se riesce ad animare anche una storia tutto sommato di buoni sentimenti come questa. E scrittrice francese. Di una cultura di cui dimostra di possedere i segreti intimi: gli affetti e gli odi familiari, la religiosità, questa meglio di ogni altro scrittore francese, compresi i cattolici Bernanos e Mauriac, la “roba”, la strafottenza. A distanza, e nel contesto della sua opera successivamente ripubblicata, “Suite francese” è una sorta di romanzo nazionale: l’epopea simpatetica della disfatta, di una scrittrice che ne sarebbe anche morta, a fronte di quella amara e anche cattiva di Céline, l’unico altro scrittore che abbia voluto sfidare quello che ancora è un tabù.
Ma i fatti della vita sono ancora preminenti. Benché scrittrice affermata, residente in Francia da una vita, a Irène Némirovsky fu più volte rifiutata la nazionalità francese. Anche per questo fu nel 1942 deportata a Auschwitz, dove morì. Anche questa è Francia, sebbene non se ne sia trovato il romanziere. Irène Némirovsky pubblicava prima della guerra su riviste di destra. Di questi il “Candide”, giornale di destra generica, non la pubblicò più, dopo le leggi razziali dell’ottobre 1940. “Gringoire” invece, rivista antisemita, ne pubblicò anche il romanzo a puntate.
Irène Némirovsky, I doni della vita, Adelphi, pp. 218, € 18
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