Sempre notevole, benché invecchiata, raccolta di saggi su Pessoa, di cui Tabucchi è stato il caronte italiano. Per primo per la differenza tra le scritture di Tabucchi e la posteriore introduzione, che non dice nulla, dello stesso Tabucchi ma alapagizzata sullo “spazio letterario” di Blanchot – chi era costui?
“Il poeta più misterioso del Novecento” è il Pessoa di Tabucchi. Per il fatto che fu quattro poeti distinti, e tanti autori diversi di racconti, critiche, polemiche, saggi storici e politici, interventi, una guida turistica di Lisbona, alcuni pseudonimi, altri come voleva eteronomi, cioè dotati di una propria “vita”, nonché più volte editore, anche di un numero rilevante di riviste. Per un grano di follia, si disse subito di lui in vita. O per la solitudine, aggiunge Tabucchi, e per i tempi, quelli della dissociazione dell’io. Ma perché? Pessoa è uno psicagogo e non un folle, fu attivissimo, socievolissimo e conosciutissimo, anche se morì, è vero, di cirrosi epatica. Mentre di dissociazione dell’io non è morto mai nessuno e in tanti semmai ci hanno prosperato, compresi Conrad, Kafka e Beckett che Tabucchi cita. Tabucchi stesso peraltro attribuisce a Pessoa “la perversione di abdicare al reale per possedere l’essenza del reale. Una radicale, quasi disgustata, rimozione”, che ne fa “il più sublime poeta del rovescio, dell’assenza e del negativo di tutto il Novecento” (p.24)
Molto viene da Kierkegaard, come sarà poi accertato. Autore dai molti pseudonimi – e perfino, cosa che stranamente non si rileva, di un intero libro di prefazioni, di libri non scritti, ai autori che il filosofo vuole altri da sé. Gli eteronomi di Pessoa, altri autori, come opposti ai pseudonimi, camuffamenti dell’autore, possono anche essere “tentativi di resistenza, e di conciliazione, col mondo” (Eduardo Lourenço). La lettura migliore è quella che Tabucchi applicherà al “Libro dell’inquietudine”: sono personaggi di una narrazione, Pessoa si voleva e fu anche romanziere. Che, in fatto di nomi (Ophelia, l’amata) e di personaggi (Sá-Carneiro, “l’amico dell’anima”, suicida a Parigi a ventisei anni, senza ragione apparente, in frac, nel mezzo di una guerra truculenta) se ne trovava di ben inverosimili nella realtà. O meglio di un teatro. Domestico. Personale. Illimitato. Pessoa può essere anche, sotto la specie di Álvaro de Campos, “un poeta metafisico che odia la metafisica” (p. 87). Ma “odia” è troppo per Pessoa. No, “non c’è altra metafisica al mondo se non cioccolate”, dice lo stesso “ingegner” de Campos: il tarlo dell’ironia non consente passioni, se non sigarette. È questo il punto: l’ironia dissecca.
Ci sono esistenze “impossibili” perché tarlate dall’ironia. Che è brillante e seducente ma, nella narrazione, più spesso faticosa, e inerte. Il contrasto anima l’ Ironia. E l’antifrasi di base è la narrazione il cui oggetto è la narrazione. Col rovesciamento, l’estraniazione poi di Brecht, l’interruzione. Che però non reggono la narrativa, sia pure poetica, solo l’aneddotica. Se non lievitata – alleviata – al modo dell’Ariosto, per una lettura multiforme, più immaginativa che critica, esagerata, che diventi patrimonio popolare. Swift, per questo, Voltaire, anche Sterne, sono un impianto - una posizione nella vita, una rigidità: l’ironia che dissecca.
In Pessoa questa riserva non c’è, poiché c’è l’ottimismo. Malgrado tutto, anzi proprio per l’esibizione di pessimismo, di dolore che si sa – si sente – non vissuto. La lettera, che Tabucchi trascrive, in cui Pessoa descrive e spiega a Casais Monteiro la sua istero-nevrastenia è un capolavoro, nemmeno tanto occultato, di sveviana simulazione. Nei testi in effetti l’eteronimia, presto divenuta un aneddoto esaurito e scontato, si ravviva: per aver ridotto l’ironia a una venatura sottile, accidentale, che attraversa la storia, più spesso girata in positivo, nel senso della lievità e bonarietà (sottolineature, a parte, macarismi, paradossi).
Pessoa vive del resto una fanciullezza e una gioventù straordinarie, nel senso delle esperienze – non c’è altro scrittore che vanti una biografia così avventurosa dei primi vent’anni. E una grande guerra che non registra in alcun modo. Che è forse il modo dei poeti di fronte alla guerra. Se Omero sintetizza in un anno, l’ultimo, una guerra durata già nove anni, che è l’ultima di nove o dieci guerre, e l’ultimo atto di una storia durata mille anni, facendone con distacco - con ironia – un’epopea di truculenza greca (achea, dorica), tipicizzata in episodi rivoltanti, e salvando per converso le donne, di ogni parte, Elena compresa, la fedifraga, e Ettore per il suo senso della famiglia. Ma è pur vero che l’ironia, seppure non cinica, è inevitabile nei fattacci. Anche il terribile Dio della Bibbia ha più di un sospetto d’ironia – litoti, esagerazioni, maledizioni.
Molto è stato detto, sia prima che dopo Tabucchi, su Pessoa, che ne chiariscono – appiattiscono - la molteplicità, la sorpresa. È inevitabile, anche per la stessa ripetizione. E per l’intervento inevitabile della biografia, che la stessa vita plurima appiattisce: una vita in famiglia, da spiritista noto, traduttore della Blavatsky, amico e complice di Crowley, e editore febbrile. Non c’è sostanza nella sorpresa, se non negli scritti. Ineguali.
Della raccolta è parte un’intervista con Zanzotto che da sola merita la rilettura. Il Pessoa quadruplicato come il diavolo del Vangelo, che si sente legione. L’io divso che “va a braccetto con un superlogico fingidor”, il marionettista. “E d’altra parte, negli innumerevoli autori che si diedero pseudonimi…, quanta falsa coscienza v’era proprio nell’accettare questo termine?”. Dal Foscolo Didimo dell’“Ipercalisse” a quella “intera società di pseudonimi” che fu l’Arcadia. Moltiplicata oggi nella rete, degli innumerevoli publisher di blog come questo, editori, autori, redattori (e forse lettori unici) di ogni minuto verbo. “E che dire dei romanzieri”, aggiunge Zanzotto, “dei «creatori di personaggi» presentati non importa se nelle prime o nelle terze persone verbali?” Con Gesù tornato bambino, in una delle poesie qui incluse da Tabucchi, Pessoa s’immagina di andare “godendo il nostro comune segreto\che è di sapere dappertutto\che non c’è mistero nel mondo”. Ma questo, si sa, non è vero – è l’antifrasi base.
Antonio Tabucchi, Un baule pieno di gente
domenica 5 luglio 2009
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