D’Alema torna e vince, ma non sa cosa. Ha riunito al ballottaggio tutta la sinistra, da Bari a Torino, con lo “scossone”, e ora rimette la barra al centro. Riunendo i banchieri. A Milano, perché non si disturbino troppo. E tuttavia non è contento. Personalmente, D’Alema non ha mai perduto il contatto con la Milano che conta, Bazoli, Profumo, e gli eredi di Cuccia che amava, Geronzi in testa. In questo particolare momento, in cui tutto il milanese è elettoralmente a destra, la riaffermazione di questo contatto testimonia, unitamente al ripudio di Berlusconi in curia, che il Nord non è off-limits. E tuttavia D’Alema è prudente. Ritesse la tela – la rete – da unico leader del centrosinistra che manifesta capacità politica. Ma senza smettere la smorfia del “senza di me, dove andate?”. E con una punta, bene avvertita a Milano al convegno coi banchieri, d’incertezza sul da fare.
Il ballottaggio ha tirato dentro i voti, prima contrari o astenuti, della sinistra. Ma ha irrobustito le posizioni strategiche, se non i voti, di Casini e Di Pietro, un centro e un centro destra che D’Alema ritiene nocivi. Mentre il mancato referendum ha allontanato per sempre ogni possibilità di “partito del presidente”. E il partito Democratico arranca nel nulla delle procedure e degli assemblearismi. I banchieri hanno avuto la sensazione che D’Alema facesse le sue primarie con loro, che si presentasse a loro proprio per non potersi presentare al Pd, un partito di formichine che vanno non sanno dove.
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