lunedì 6 luglio 2009

Letture - 10

letterautore

Freud – Ipernarcisista. Non amante, non buon marito, ma forte padre-padrone, iperpossessivo nell’amicizia, e non per pulsioni sessuali, non cristiano, non ebreo, non ateo, non religioso seppure mitizzante, così riduttivo della storia e dell’arte, compreso il mito.
La psicanalisi è un esercizio in narcisismo. In quanto ricostituzione dell’Io (ricostituzione dell’Io?) in ostilità agli altri – la madre, il padre, la storia familiare, i maggiori, i minori, tutti corruttori. In quanto cioè liberazione dalle pulsioni dell’Io, perfino dell’aggressività, nella vita relazionale. È scienza indiziaria, ma Sherlock Holmes ne avrebbe riso, non a torto – che poi era Arthur Conan Doyle, stolido dottore a caccia di spiriti e mondi scomparsi. Scardina le opere di misericordia spirituale sostituendole con l’autocritica, ma senza darle corpo, se non come autodistruzione. Dello scardinamento di ogni limite, ogni contorno, ogni area di sosta fa anzi il suo pregio.
La sua è una terapia volutamente distruttiva. Per una gnoseologia volutamente confusa: la logica dell’abbattere è quella di chi si addentra in territori incerti o sconosciuti senza strumenti di rilevazione (critici) e quindi senza la possibilità di scoprire (riconoscere) alcunché – di chi faccia addentrare soggetti deboli in territori sconosciuti.

Ha rotto tabù e pregiudizi, ha quindi avuto un effetto liberatorio, e ancora ne beneficia – quando qualche tabù si vorrebbe ricostituito. La rottura dei pregiudizi è sempre affascinante, ma è un fatto storico: come andare di corpo, dopo una crisi di stitichezza. Il suo fascino rinnovato sta nella semplificazione: la psicanalisi semplifica – anche nelle forme selvagge – in nome di preconcetti più grandi e via via anch’essi radicati, come i complessi, la simbologia, gli archetipi, e altre piccole-grandi costruzioni. Non può essere che così, poiché si pone un fine terapeutico. Ma questa immediata circolarità – riproduzione di pregiudizi – inficia la psicanalisi come scienza.

Manzoni – Non ha interrotto la narrazione, che non c’era – il racconto è sempre manierato in Italia, sulla traccia dei poemi cavallereschi. Ma l’ha deviata sulla declamazione e la politica. Abile retore e formidabile leader culturale, tutto ha organizzato: la storia, la lingua, la filosofia morale, la poesia civile, riducendo i personaggi a marionette, mossi con gesti goffi, parlati con frasi fatte. Ha scavato una traccia che è una trincea, che dura da centocinquant’anni. Tanto più in questo dopoguerra, pregno del moralismo verista, neorealista, comico all’italiana, drammista alla Pasolini. Sotto l’egemonia presunta dei sovietizzanti, che i cattolici invece si assoggettano senza combattere, per corrività.
Quant’è diverso il suo romanzo storico da quello di Walter Scott, per non dire di Stendhal, senza sublime, senza bellezza, senza grazia. Senza il più piccolo scarto del soprannaturale.

Mitteleuropea - È l’anti-Germania, dice Magris. E com’è possibile?
È “tedesco-magiara-slava-romanza-ebraica”. E perché non italiana (lombardo-veneta)? Perché è tedesca.

Nietzsche – Brahms, dice Wittgenstein, è kelleriano: ascoltando l’uno è come leggere l’altro. Se si misurasse quanto Nietzsche è malgrado tutto wagneriano? Iperromantico, morbido, attraente, superiore. Tutto ciò che tiene su prima dell’atto: eccitante.

Proust – È il principe dei “sublimari”, gli insaziati di sublime. Fino alle mamme d’attempati figlioli, Mme de Caillavet, Mme Straus. Piccole emozioni, visite promesse o rimandate, una sedia da vendere, a dimensioni dantesche. Ma senza asperità: Proust è un precursore buonista.

O della pittura pop? Potrebbe essere. Se non bastano cinquecento e più pagine per dare rilievo ad Albertine, mancando il guizzo, il tratto caratterizzante, la parola chiave, il taglio, l’aneddoto rivelatore, o checchessia, l’origine di tanta malia potrebbe essere il multiplo, la ripetizione. Magari nobilitata, in estenuazione, ossessione (fantasma: Albertine è un fantasma), deliquio, deragliamento.

La durata è l’incontinenza verbale (Cohen in “Belle du Seigneur” fa telegrammi di quattro pagine). Non è un altro tempo, né reale né figurato. Gli appuntamenti al Ritz alle 13.30 pile sono intercalati da centinaia di pagine di ricordi, sentimenti, filosofie e morali. È l’incontinenza razionalizzata.

La storia di Albertine, ricalcata per intero sulla storia vissuta con Alfred Agostinelli (non memorabile peraltro, se non per il pettegolezzo) è esempio atroce di mascheratura, così prolungato. Sono questi amori finti tra finti personaggi che caricano la “Recherche” di artificio, di uno snobismo incontinente. La frase più lunga delle sue lunghe frasi è, “Sodomia e Gomora”, Pléiade, III, 17-19, la classificazione degli invertiti. È anche il suo punto più drammatico.
Artificioso in secondo grado naturalmente, se la letteratura è artificio.

Si può leggere in chiave grottesca. I suoi modelli dal vero, immortalati nelle fotografie invece che nei dipinti, sono atroci. Ordinari, brutti. Le pose che usavano nei ritratti dipinti, riutilizzate nelle foto sono grottesche.

Amori idilliaci: è qui la chiave della sua popolarità? Idilliaci moderni, fantasmizzati. L’altro è indistinto, è lui\lei, ieri\oggi, vago, decorativo, normalmente inespresso, figurine di cera. E inespressivo\a, se non per derive moderniste: umori vegetali, ghirigori minerali, mutismi allusivi su cui tutto è possibile al lettore costruire.
È una parte caratteristica dell’animo piccolo-borghese, che è asociale, specie quando è artista. Ma è anche una maniera d’essere dell’uomo, del maschio, all’epoca della parità dei sessi, un ritrarsi nell’onanismo, riducendo lei\lui ad affabulazione. Normalmente di cose turpi, distrazione, superficialità, inganno, solo salvando le “vecchie” amiche, meglio se ricche e nobili, e la mamma.
È il procedimento della pornografia, così tipicamente onanistica (Sontag): fantasmizzare per estrapolazione, fuori contesto, fuori storia, fuori ogni reale.

È l’ultimo romantico in senso spiccio. L’epitome dell’adolescenza attardata: le fanciulle-fiore, il damismo, la gelosia, la diversità vissuta come diversità, la distrazione per gli eventi. Viene riportato a Kant e, in funzione di precursore, a Heidegger, l’essere come tempo, la durata, Bergson, la fisica einsteiniana, l’oblio (o la memoria?). Di un uomo e un letterato alieno dalla storia e dalla società. Incapace di vivere l’epoca, o anche soltanto di capirla: quando scrive, o riscrive, la belle époque è finita drammaticamente. Fuori dal secolo ventesimo: attardato dietro una piccola borghesia di provincia, che egli fantasmizza – quanto di più lontano, per gusti e vezzi, dall’aristocrazia del sangue e del denaro.
È vero che con la fenomenologia, comunque con Heidegger, il sentimentalismo torna centrale.

L’imborghesimento della nobiltà si vede se dalla “Recherche” si risale, oltre che a “Guerra e pace”, fino a Stendhal, la “Certosa” e “Il rosso e il nero”. Senza Stendhal sembra che Proust, borghese, ristabilisca la nobiltà che Tolstòj, nobile, ha imborghesito, tra eredità, stupidità, e romanticismo. Con Stendhal si parte dal romanticismo, o borghesia dei sentimenti, si ha un sussulto aristocratico in Tolstòj (la summa snob è all’inizio di “Guerra e pace”: “Le vicomte de Mortemart, il est allié aux Montmorency par les Rohans” – di un personaggio mediocre) e si conclude con Proust all’imborghesimento della nobiltà, tra gelosie, vecchie zie, e buggeratori con scrupoli.

Ristabilire la nobiltà? È importante per la storia, la critica letteraria, la storia della letteratura - o come valore?

Racconto - È ricordo. Anche l’invenzione: è richiamo di ciò che si – o non si – sarebbe voluto.
È interpretazione. Esegesi attorno alla (alle, a una) realtà. Che può non essere la storia – la natura, Dio.

Ogni narrazione è per se stessa.

Revisionismo – È dispositivo totalitario – Stalin ne fu maestro. La storia viene aggiustata alla “nuova necessità”.

Sherlock Holmes - È l’opposto del logico deduttore-abduttore di tanta scienza semiologica, o del divertito Umberto Eco. È un istrione e un immaginario, “me lo sento” è la sua divisa. Contro ogni prova, ogni ragionevolezza, ogni verità (condizione che condivide – da lui copiata? – con Auguste Dupin e Nero Wolfe, due per i quali l’osservazione del reale è dannosa). Che anche grazie a lui sono diventate altro da quello che erano, la prova, la ragione, la verità. Andrebbe messo con la trimurti del Dubbio che ci assedia dal secondo Ottocento: Marx, Nietzsche, Freud.
Quello delle “celluline grigie” è Poirot. E ancora: di una verità sempre avventurosa, e su base incredula - per la non-identità del personaggio, in età, grasso, lento, belga, cioè senza età, senza passione, senza carattere nazionale.

Western – Nobilita la violenza. Che invece è sempre brutta, non ci può essere il buono\bello nella violenza.
È l’autopurificazione dell’America: l’America si battezza con il sangue.
È il Medio Evo della storia americana. In questo senso, ex post, si può creare il mito della violenza buona, come esorcismo.

letterautore@antiit.eu

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