Il titolo “Versi del senso perso” è di Scialoja e sembra tradire lo spirito delle sue poesie. Ma ne sottolinea invece il senso recondito, perso come vago e nuovo - sono i giochi di parole a cui forse pensava Wittgenstein quando voleva rifondare il linguaggio. Il libro è del 1989, e raccoglie i sei libri di poesia pubblicati da Scialoja dal 1971, a quasi sessant’anni, al 1985, con le poesie scritte dal 1961 al 1980: sono titoli, poesie e, nelle edizioni originali, illustrazioni: “Amato topino caro”, “Una vespa, che spavento!”, “La stanza la stizza l’astuzia”, “Ghiro ghiro tonto”, “La mela di Amleto”, “Tre lievi levrieri”. Scialoja si diverte con le assonanze insistite, le allitterazioni, una girandola di anagrammi, l’assortimento del rimario, che è incongruo e non lo è, e calchi di versi noti, letteralmente vi sprofonda. Generando, seppure solitario, il nonsense e il limerick italiano, come Calvino al solito dice giusto già per la prima raccolta. Un limerick libero, non nella metrica – che oggi non si rispetta peraltro neppure in inglese, le regole ritmiche e quantitative - ma sì nello spirito: gli stessi temi, gli stessi riferimenti (geografici, zoologici, storici), lo stesso senso musicale, nella svagatezza. Ne è esemplare il più celebre, anche se rispetta le regole del genere: “Il sogno segreto\ dei corvi d’Orvieto\ è mettere a morte\ i corvi di Orte”.
Ma è una forma che resta in italiano infantile, una forma di dialogo con i bambini e di rappresentazione liberamente fantastica del mondo. Come per l’autore classico per bambini del dopoguerra, Gianni Rodari. I versi più tardi, nella raccolta “La mela di Amleto”, sono allucinati.
Toti Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi, pp. 285, € 14,50
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