Giuseppe Leuzzi
L’odio-di-sé-meridionale
Siamo sudditi. Primitivi, materiale per antropologi. Non abbiamo essere, né quindi diritto di parlare, se non come pentiti. Ma i nostri antropologi non sono Bateson, Malinowski, Mead, Leiris, Lévi-Strauss, Meillassoux, neppure Griaule con tutte le sue architetture. Sono Biagi, Bocca, Leoluca Orlando, e qualche gesuita ignorante.
Non ci sono gesuiti ignoranti, ma in Sicilia sì.
“Il sole nella questione meridionale” è trattatello di Antonio Altomonte sul “Caffè”, 1972, n. 2. Sulle condizioni climatiche che, come voleva Madame de Staël, influenzano i prodotti dello spirito, tra i quali la letteratura. “Di conseguenza”, diceva Madame, “non più una letteratura italiana, una francese, una russa, una inglese, eccetera, ma due grandi tipi di letteratura: una settentrionale e una meridionale”.
Altomonte ritrova l’argomento nel “Gattopardo”, in cui il principe del titolo spiega a Chevalley, l’uomo di Casa Savoia: “Sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste”.
Nel mezzo ci sono i viaggiatori stranieri tra Sette e Ottocento, per i quali tutto al Sud era classico e bello, anche i briganti: “Fu il tempo della gente del Sud amante del bello, cordiale, aperta d’animo, dalla fantasia accesa, come i colori del sole che lustrava abitati e arenili”, ricorda Altomonte. Poi venne l’unità, “e subito qualcosa cambia anche nel carattere degli abitanti delle regioni meridionali, che vengono descritti piccoli di statura, dal tratto arabo, nonché pigri, bugiardi, privi d’iniziativa”.
Ora, i meridionali stessi si ritengono tali. Magari dicono il contrario, ma lo pensano, specie la notte.
Paradiso e diavoli ricorrono già in una descrizione dell’Italia in versi di John Harvey, 1728, che Voltaire traduce nelle “Lettere inglesi”, pp. 125-129. Un poeta di cui si ricorda un’opera epica in sei volumi, “The Bruciad”, finita nel 1729 e pubblicata quarant’anni dopo, sugli eroismi di un Bruce di Caledonia, quando ancora Walter Scott non aveva creato il mito della Scozia, in difesa dei suoi diritti conculcati, “che gli Stuart, i Douglas, i Graemes e i Wallace” emulavano.
Ognuno è causa del suo male. Per buona parte del Sud, la Sicilia e la Calabria, prevale la cancellazione del sé. Complicata in Sicilia dalla storia – è il paese europeo con più storia – nonché dall’abbondanza delle testimonianze. Che non si possono celare, e dall’essere stata bene o male regno e vice-regno. La Calabria, latinizzata via Sicilia, segue la Sicilia in tutto, non solo nel linguaggio. Ma non avendo quel patrimonio, non ha altro che l’odio di sé. Non c’è mare in Calabria, non c’è montagna, non c’è olio, non ci sono arance, non c’è storia, non ci sono monumenti. Solo povera gente, sporcizia, prepotenza, corruzione.
Alvaro e l’odio-di-sé meridionale – 2
La Calabria c’è spesso nei primi articoli di Alvaro, corrispondente da Parigi del “Mondo” nel 1922, ma rifiutata. È un reperto.
In uno degli articoli Alvaro ha la “desolata sera meridionale sotto la cui stretta le città diventano più anguste e le lontananze in sormontabili”. Alvaro manzoneggia. La serata meridionale può essere più breve, più luminosa, più gemütlich. Rispetto alla serata settentrionale, ovvio. D’estate, poiché il racconto di Alvaro è estivo. È rischioso umanizzare il paesaggio e il firmamento, si fa ideologia. Alvaro ha anche, nello stesso elzeviro, “Usi e costumi”, una paginetta uscita sul “Mondo” l’11 gennaio 1925, una “storia meridionale di tranquille sopportazioni e di violente risoluzioni”. Quanto tranquille? Ne è sicuro?
Sempre sul “Mondo”, il 7 settembre 1923, c’è il testo più misterioso di Alvaro sul “ritorno”, che egli intitola “Ricordo della Calabria”. Denso di cose non dette: recriminazioni? dispetto? nostalgia? E di che? A volte siamo privati di un’origine, delle radici, non per colpa. Al paragrafo “Una civiltà che scompare” esordisce: “Il carattere primitivo e naturale, che era l’unico stile della Calabria, va scomparendo, senza trasformazioni”. Condannando la Calabria alla mancanza di storia. Non degli eventi, quelli non mancano mai, ma della memoria. La damnatio memoriae si praticava in antico quando moriva un tiranno: è la Calabria tirannica per Alvaro? Un’origine infetta.
Nello stesso articolo c’è un primo “ritorno in treno”, che si ritroverà in tanti racconti e negli articoli del postumo “Un treno nel Sud”. Il calabrese, si sa, deve viaggiare molto in treno su e giù per lo stivale. Questo è una celebrazione gioiosa di San Luca, un’eccezione.
San Luca è ovunque in Alvaro, perfino nella tragedia “Medea”. Ma avulso, un reperto perennemente senza contesto, i cui significati sono servili: abbandono, trascuratezza, violenza, asocialità.
Alvaro vi tornava raramente, e solo per un giorno, per salutare la mamma. Si dice che non voleva rischiare d’incontrare gli Stranges, da lui perfidamente dipinti in “Gente in Aspromonte”. Non per sentirsene minacciato, ma per un’oscura colpa.
Anche del padre, che ricorre in molti racconti, l’immagine è tra sbiadita e critica. Anche dove è più felice, nei campi fuori del paese. Che pure l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato.
Pentiti
La spia s’inebria della violenza senza limiti (l’indiscrezione malevola, e le trappole, le calunnie, gli incidenti, perfino l’assassinio, l’attentato nelle forme più diverse) nel nome delle istituzioni, e dei valori più sacri, la libertà, la democrazia,. La patria (la nazione, l’indipendenza). È un piacere totale, e totalmente irresponsabile, alla portata di chiunque, sia esso abietto o imbecille. Senza regole anche: lo sbirro deve invece sottostare alle leggi.
Si estende nella figura del pentito: la delazione fa parte dell’arsenale spionistico.
8 gennaio 1996. Molti pentiti, venticinque, garantiscono che la mafia in Calabria è Gaicomo Mancini. Il giudice Verzera ci crede, col procuratore Pennini. Sono “giovani”, persone cioè che non hanno mai fatto nulla nella vita, e anche del genere fascisti di sinistra, che va di moda su “Repubblica” e per la carriera. Su “Repubblica” dove Scalfari ha conoscenza diretta e approfondita di Mancini.
Alcuni mafiosi, non altrettanto numerosi, hanno confidato a Caselli che la mafia è Andreotti. Caseli ci crede. Ma non è un cretino.
15 ottobre 1997. La famiglia Brusca al completo, tre figli e un padre, quattro animali con le zanne, che vuole dare Andreotti in pasto a Riina (in alternativa: vuole subentrare a Balduccio di Maggio nella posizione di Primo Pentito della Procura di Palermo), è uno sketch sublime. Che lascia perà imperturbabile il Procuratore vicario Lo Forte. Ma anche il suo capo Caselli. E i giornalisti, tanti, tutti, che fanno capo al Circolo della Giustizia palermitano. Si può anche pensare che il senso del ridicolo è scomparso in Italia. Ma ricordando che i mafiosi ne sono caratteristicamente sprovvisti.
Dieci anni fa Andreotti: la mafia nobilitata da Caselli
Sono dieci anni il 23 ottobre che Andreotti è stato assolto a Palermo dopo il lungo processo per mafia, avviato dal Procuratore Caselli. Un processo che ad altro non servì se non alla nobilitazione della mafia, per i best-seller di Biagi e Bocca. Nonché degli editori Rizzoli e Mondadori, si capisce che i loro giornali tengano Caselli in gran conto, il nobilitatore. Mettere Riina accanto a Andreotti è stato riconoscere alla mafia lustro intellettuale, potenza, capacità politica, capacità di governo. Nelle stesse questioni di giustizia, attraverso i pentiti, che sono in genere i killer, i mafiosi più ignoranti e feroci.
Quello che non era riuscito ai mafiosi in cento e più anni, e a cui essi sono anzi inetti, costruirsi una leggenda e un ruolo sociale, è stato il regalo di alcuni Procuratori della Repubblica. Preterintenzionale?
Un baraccone di processo, su e giù per l’Italia, frotte di avvocati, questurini, magistrati, cancellieri, giornalisti e pentiti in carovana. Davanti a un Tribunale che ascoltava visibilmente assente. E come avrebbe potuto occuparsene, di un processo con 120 mila fogli di accusa, cinque o seicento testi citati dall’accusa, e nessuna prova?
“Lei conferma”, chiese il sostituto Lo Forte a Di Maggio al momento clou del dibattimento, “l’incontro e il bacio tra Andreotti e Riina?”. “Sì”, fu la risposta. L’unica “prova”, dopo due anni di dibattimento, a carico di Andreotti. Sulla parola di un pentito cafone e pasticcione – che purtroppo era anche un confidente, probabilmente dei carabinieri.
leuzzi@antiit.eu
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