“Il mondo com’è” registrava vent’anni fa, il 26 agosto 1989, la fine degli Stati nazionali:
“Decentramento e autonomie, comunitarismo negli Usa, sussidiarietà a Bruxelles, si va verso il disfacimento dello Stato unitario, costruito con molti lutti nel corso di più secoli, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Russia, e sanzionato dalla Rivoluzione francese e da Napoleone. Sul presupposto che il valore politico supremo fosse l’unità – ex impero. I valori sono ora i diritti locali, i privilegi, le esclusioni.
È una deriva pericolosa, dice Maxime Rodinson intervistato per il giornale: “Ci si rinchiude in se stessi, come il racconto di quell’autore polacco che anticipava “La peste” di Camus: subentra la misantropia e l’egoismo”. È un tema di destra: Action Française, Daudet, movimenti nazionalistici regionali, fronti patriottici, il nazionalismo delle piccole patrie. Però, con quali argomenti! No alla leva. Dopo un secolo e mezzo, anzi due, possiamo liberarci dell’incubo della guerra necessaria, o guerra come condizione permanente, per tornare a Clausewitz. Fiscalità modulata, perché no (v. Scandinavia)? Scuola aperta, perché no? Purché lo Stato garantisca un livello minimo – sussidiarietà – a tutti.
Si dice la devoluzione necessaria anche per poter costruire l’Europa unita, e probabilmente è così. Il caso britannico della common law. Il comunitarismo sociale in America, fortissimo, e il decentramento della polizia, della magistratura, della politica, della politica industriale. I vecchi statuti locali mai abbandonati in Svizzera e in Germania: si comprende l’antimilitarismo e il pacifismo in questi paesi, che hanno radici molto più antiche della Schuldfrage –mentre lo Stato nazionale ha deciso che non poteva essere se non imperialista”.
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