Occasione esemplare di come una letteratura di viaggio si potrebbe avere ben viva in Italia. Dov’è nata e poi sarebbe morta. Occasione che questo stesso libro manca: Luigi Testaferrata vi ha raccolto venticinque anni fa testi sparsi di Malaparte, evitando però il viaggio etrusco che Malaparte fece per il “Corriere della sera” nella primavera del 1936. Se non per i tre o quattro pezzi che gli consentivano il titolo. Che bastano tuttavia a marcare una cifra superiore. D.H.Lawrence, al confronto, nel quasi contemporaneo “Etruscan Places” è didascalico al più, e quasi sempre ininteressante. Se non in un paio di casi, il fauno, l’asfodelo.
Malaparte racconta convincente come siano loro, i misteriosi Rasenna, ad avere inventato l’inferno. Come sono gli Umbri autoctoni a fare tutto, mentre i molli Etruschi oziano e giocano. Con “pacchi imbottiti e trecce finte”. Scopre l’Apollo etrusco, “delicato e forte”, “dalle lunghe trecce di donna sparse sugli omeri atletici”, che diventerà Cristo. E inaugura il sogno nel racconto, all’Argentario, allora Argentaro, il sogno invece del reale. Una prosa rondista, quale sarà ancora di Malaparte dopo la guerra, nei romanzi della crudeltà, e tuttavia sempre vivace.
In aggiunta, c’è il Malaparte che inaugura D’Annunzio in Versilia, dove fa rivivere “Alcione” e, al Cinquale, l’ “Iliade”. E il fortunato modello “come me”: “Città come me” (Prato: altro viaggio memorabile), “Santo come me”,
Curzio Malaparte, Il dorato sole dell’inferno etrusco
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