Si pubblica tutto di Ripellino, è lo scrittore del Novecento forse ancora più letto, ma le corrispondenza dall’amata Praga sotto i carri armati erano rimaste confinate, in piccola parte, in un libricino di Scheiwiller vecchio ormai di vent’anni, “I fatti di Praga”. Ora si ripubblicano, tutti, nell’ambito della “sicilitudine”: Antonio Pane, che aveva curato la raccolta Scheiwiller con Alessandro Fo, la riedita ampliata in qualità di cultore dell’isola. Un po’ di contesto non avrebbe fatto male, al coraggio di Ripellino e anche dell’“Espresso”, che era quello di Livio Zanetti, e in quegli anni si trasformava dal formato lenzuolo a quello magazine, ma era sempre ben diverso dall’attuale.
Allora parlavano di Praga, ne parlavano da sinistra, i media di destra, allora di destra, Il “Corriere della sera”, Montanelli eccetera. A sinistra prevaleva, e prevale, il non detto. Valga quello che racconta di quegli anni, 1968-1969, “La gioia del giorno”, il romanzo del secondo Novecento di Astolfo, che i lettori di questo sito ben conoscono. Al festival di Venezia del 1968, che fu rivoluzionario, “una petizione per Praga non ha raccolto una sola firma, il Partito non vuole”. O si prenda Pasolini, che fu poeta d’occasione ma fu, ed è ancora, la coscienza della nazione: nel 1968 “l’hanno inviato a Praga per dire ai cechi di rinunciare alla libertà e al socialismo per «una dimensione internazionalista e planetaria», argomentando per Breznev il «dovere» d’invadere il Paese”. Nel 1969 “Jan Palach non gli è piaciuto, lui che piange su ogni destino. È andato a Praga e ha dato a quei signori una lezione. Inaugurava la rubrica su Tempo al tempo dell’invasione e non ne ha fatto cenno. Lui è proprio quello che «non sa nulla, ma lo sa meglio», come si dice a Praga. I guasti del comunismo, anche senza la tessera, sono illimitati – è questo il realismo politico che dà fastidio, quello dei maestri analfabeti”.
Pasolini non era solo naturalmente – lui è sempre in qualche mainstream, sia pure di anticonformisti, purché non solitari. C’era Enzensberger, la coscienza dei tedeschi: “Anche Enzensberger capisce di più. «A Praga», dice, «hanno un orizzonte politico estremamente limitato. La loro sostanza politica è misera. Le concezioni e le esperienza cubane e cinesi sono ignorate o respinte in blocco». Meglio Cuba che Praga, insomma, o Mao”. E “il Manifesto”, sempre nel 1969, dopo Palach: “«Il Manifesto» è già al numero quattro e il commento s’intitola «Praga è sola». Comincia: «La Cecoslovacchia non suscita più vera emozione»”. Ripellino, vero poeta, era un inviato davvero speciale.
Angelo Maria Ripellino, L’ora di Praga, Le Lettere, pp. 325, € 22
mercoledì 23 settembre 2009
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