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Montagna incantata, Mann feroce
"La Montagna incantata” come romanzo dell'ipocondria? La malattia che si coltiva è una condanna grave per ogni altro su cui pesa, parente, innamorato, amico. Si spiega che se ne possa fare gigantesca vendetta, con gli eletti confinati in un sanatorio per reggia, e con un dottore per re, una scena grottesca, insopportabile, di maschere. Ma è anche un teatrino dello psicologismo, molto fin-de-siècle. E una micro rappresentazione dell'Europa? Un’agghiacciante – lunga, insistita, irata – presa per il culo: della sensibilità di fine Ottocento, o morbosità, della estenuazione del romanticismo? Scritta dopo la carneficina della guerra. Una fin de partie. Del romanticismo perenne, anche: introspezione, inerzia, culto del disordine e del dolore, autogratificazione.
Ma ottocento pagine d’ironia a corpo 8 sono troppe. Con chi ce l'ha Thomas Mann? Perché questo ghgino stiracchiato invece di una pernacchia semplice? Perché c'era dentro. Ma non lui, non direttamente. Se fosse la moglie, che si è fatta ricoverare a lungo in sanatorio? Con la quale ha fatto tanti figli, come il Tolstòj della "Sonata a Kreutzer". Ma che è l'oggetto, si sa, di "Sangue velsungo", racconto molto violento. Il mondo della moglie, ebrei snob, entusiasti di ogni tendenza, proni a ogni moda? L'irritazione palese di "Sangue velsungo", e anche dell'"Eletto", è indizio di un malanimo forte. Il Berghof è il mondo dei pamés di fine secolo (Montesquiou, Proust). Chi vi si diverte è la signora Salamon, nome ebraico per definizione, anche se la connotazione viene taciuta. Nel saggio del 1939 Thomas Mann ne dice tutt'altro. Ma forse lui stesso idealizza la "Montagna incantata".
C’è molta amarezza in Thomas Mann, qui e non solo. Tanto più se si considera che l’ironia non è divertente per il signore di Lubecca, sotto le sembianze del rivoluzionario Settembrini: “L’ironia è il fiore velenoso del quietismo, il falso splendore dello spirito corrotto, la maggiore delle dissolutezze”. Con chi ce l’ha? Settembrini non rileva mai connotati razziali, H.Castorp e l'autore sì. L'autore non è Settembrini. Settembrini è Heinrich? Thomas è stato sempre ambiguo in politica, per ultimo con il Bruder Hitler, fratello Hitler. L'autore si colloca tra i due "vestiti neri", di suo nonno e del nonno di Settembrini, il conservatore e il rivoluzionario, entrambi in rotta col presente?
Poche cose di Thomas Mann non sono ironiche: i “Buddenbrook”, “Giuseppe”, “Morte a Venezia”, per quanto melodrammatico. Alcune volte è feroce. In “Sangue velsungo” per esempio. Qui nell’ “innamoramento” di Castorp – le donne, la malattia. O nelle cineserie dei titoli: “Rispettabile annuvolarsi del volto”, “Zuffa dell’eternità (è l’“innamoramento”) e luce improvvisa”…
Tomas Mann fa il verso all’ipocondria, al romanticismo estenuato, per ridere del quale gli viene buono anche Carducci, alla noia come arte, all’introspezione inerte. Di una “profondità di petto”, se la tubercolosi si potesse dire in musica, cioè esterna. Vent’anni dopo tenterà di salvare il tutto battendo su questo tasto: un concentrato di svariati mondi spirituale risucchiati dalla voluttà della morte. Che non è falso: tutti quelli che entrano al sanatorio, sia pure per una visita di poche ore, “hanno” una malattia. È l’aura di Léon Daudet (“Mélancholie”). E si può dire al contrario: va, anche casualmente, al sanatorio chi è “portato” alla malattia. Ma Thomas Mann può non essere cosciente che ha ridicolizzato un mondo, con ragli acutissimi e sberleffi anche tropo insistiti (sempre l’“innamoramento” di Castorp)? Se così fosse il romanzone è agghiacciante.
Perché tanta rabbia? E tanta ipocrisia? Il Grande Borghese era terribilmente in dissidio: col mondo che lo circondava, come spesso dice, e quindi, come si suol dire, al fondo con se stesso. Ma, se così è, per portare le colpe di altri. Questa “storia ermetica”, nell’“addio” finale di Castorp, è una resa dei conti con qualcosa che l’autore non riesce a liquidare, o non può. Che non è la Germania – la difenderà anche contro gli Usa che l’avevano ospitato esule e onorato.E non è se stesso, Thomas Mann è inscalfibile: lui è, e solo lui, un Buddenbrook, un signore del “reale”, delle cose solide - o meglio degli “uomini vestiti di nero” (“per porre una severa distanza fra sé e le epoche nelle quali vivevano”), qui sotto i nomi di Castorp e Settembrini, il conservatore e il rivoluzionario, entrambi tutti d’un pezzo.
Una curiosità resta la lettura seriosa che Thomas Mann fa dell'Italia: era così l'Italia di fine Ottocento? O era lui così? Più positivo, quindi, che sarcastico.
Una seconda curiosità è la ricorrenza di molti tempi agostiniani, delle "Confessioni": storia, tempo, memoria. Sarebbe stato più ovvio trattarli alla maniera di Aristotele, "Fisica", e più divertente, o di Platone, "Timeo". Chi è Thomas Mann?
Thomas Mann, La montagna incantata
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