giovedì 24 settembre 2009

Quando l'italiano era colto

Un riesame sentimentale, di ciò che era e non è più: la conoscenza dell’italiano come chiave d’accesso a una cultura. Con un forte senso d’identificazione. Fra gli autori più recenti Brugnolo documenta il caso noto di Joyce, e quello rimosso di Pound. Con largo spazio a quelli classici di Milton, Montaigne, Louise Labé, Rabelais. La diffusione dell’italiano si rinverdisce ora con gli immigrati che l’adottano quale lingua, ma è poca cosa rispetto a ciò che fu.
Non solo dei petrarcheschi, l’italiano è stato a lungo, fino al Seicento, la lingua colta d’Europa, anche se i dotti continuavano a scriversi in latino. E non solo dei poeti (tra essi pure la regina Margherita di Navarra, cui però non piaceva l’“Inferno”, e Christine de Pisan, veneziana di nascita), ma anche degli storici e degli scienziati. Montaigne e Diderot, qui ricordati, lo scrivevano con arguzia. Voltaire lo praticò fino a imitarne i dialetti – scrisse a Goldoni in veneziano, come documenta una vecchia pubblicazione di Emilio Bodrero, il nazionalista che fu senatore e sottosegretario di Mussolini alla Pubblica Istruzione, “Poesie e prose in italiano di scrittori stranieri”, uscito postumo cinquant’anni fa (giustificandosi col Cesarotti: “In italiano si dice tutto ciò che si vuole, in francese soltanto ciò che si può”, censura cioè permettendo). Una lingua indubbiamente necessaria per avere accesso un mondo d’arte – un tempo, oggi è ridicolo perfino ricordarlo, che l’italiano più dell’Italia si mostra degradato, impoverito, nell’uso quotidiano e nella letteratura. La “fuga a Roma” era normale e anzi d’obbligo per gli artisti a fine 500, inizi 600: Callot, Lorrain, Poussin. Mozart trovava Salisburgo chiusa all’arte, l’Italia al contrario…. Era prima dell’Italietta costruita da Savoia, dopo avere rinnegato il Settecento, e il Seicento.
Furio Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore, Carocci, pp. 136, € 15,50

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