Ai primi del 1861 c'era già una sinistra, Rattazzi, Depretis, Brofferio, Pepoli e altri, che si faceva forte di Garibaldi, pur non essendo mazziniana, non più, né repubblicana: voleva solo fare le scarpe a Cavour. Quando Garibaldi uscì dallo sdegnoso esilio a Caprera e fece ingresso alla Camera dei deputati a Torino, il 18 aprile 1861, da un passaggio secondario che lo portava direttamente agli scranni più alti della sinistra, da dove fu istantaneamente visto da tutto il (piccolo) emiciclo, aveva in mano un discorso scritto da Bertani. Garibaldi era quello che tutti si aspettavano, col solito abbigliamento studiato, camicia rossa, poncho gaucho grigio, la coppola da pastore meridionale. Non lesse il discorso di Bertani, ma fece quello che Bertani si aspettava: disse Cavour uno spergiuro, un traditore, e il fomentatore di “una guerra fratricida”. Cavour ne fu segnato a morte: “Se l'emozione uccidesse, in quell'ora sarei morto”, dirà.
Tra sospensioni e riprese il dibattito durò tre giorni, Cavour fu difeso da Ricasoli e anche da Nino Bixio, e rispose a Garibaldi composto, dicendosi sicuro che tra lui e il generale c’era solo l’incomprensione sul “compito doloroso” da lui assolto di cedere Nizza alla Francia. Su iniziativa del re poi lo stesso Cavour incontrò Garibaldi, e la cosa finì lì: la guerra, il tradimento e tutto.
Nell'incontro con Cavour dopo lo scontro del 18-20 aprile alla Camera, Garibaldi tenne le mani ostinatamente coperte. “Non ho visto affatto le sue mani”, scrisse Cavour a Ricasoli, “le ha tenute sempre sotto il suo mantello di Profeta”. Né Cavour gli porse la mano salutandolo alla fine dell’incontro: Garibaldi aveva giurato che piuttosto che stringere la mano di Cavour si sarebbe tagliato la sua.
Il teatro comincia presto nella storia dell'Italia unita.
Dal fatale 18 aprile Cavour non si riprese più. Ebbe sbalzi fortissimi di pressione, ora rosso fuoco ora cadaverico. Era gentile e diplomatico, divenne brusco e intrattabile. Aveva sempre voluto gli incontri importanti la mattina all’alba – un'abitudine che l’Avvocato l’Agnelli ripeterà. Ma ora non dormiva quasi più nel corso della notte. Il conte Gabaleone di Salmour, suo vecchio amico, lo trovò esaurito e quasi inerte in uno dei loro incontri, all’alba del 26 maggio: “Non sto bene”, gli confidò l'amico, “dopo quella disgraziata seduta in cui sono stato attaccato così ingiustamente da Garibaldi, non mi sono sentito più bene”. Dieci giorni dopo era morto. Di un malanno che i medici non hanno saputo diagnosticare.
Quando Cavour morì tutti lo piansero, i torinesi “papà Camillo”, i parlamentari il politico, gli italiani il patriota. I cattolici ne rimpiansero l’onestà di carattere e di propositi. Solo l’Italia del popolo, mazziniana, lo vituperò come cinico, malato, diabolico.
L’odio è antico.
venerdì 23 ottobre 2009
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