A Palermo Cavour mandò prodittatore, insomma questore, il marchese Massimo di Montezemolo. Piemontese, liberale, il marchese cercò di gestire la città. Ma c’erano da sistemare i nobili e i dignitari del vecchio regime, che altrimenti sarebbero diventati nemici, tutti i parenti di tutti i patrioti, e perfino convincere diecine di funzionari, che prendevano quattro e cinque stipendi, a prenderne uno solo. Fece perciò poco. Anche perché il suo compito era principalmente di consentire a Cavour di liberarsi di La Farina a Palermo, e di Farini a Napoli.
Quando Vittorio Emanuele visitò Palermo dopo la conquista, fu accolto da manifestazioni folli d’entusiasmo. La plebaglia staccò i cavalli, spinse la carrozza reale su per via Macqueda fino alla cattedrale, e infine lo incalzò dentro il sacro edificio. Regalmente indignato per questo trattamento, Vittorio Emanuele disse al sindaco disinformare la folla che non era un tenore né un ballerino, e che sarebbe stato bene che si comportassero come uomini e non come bestie. Parlò poi in cattedrale, senza mai menzionare Garibaldi. Evitando di farsi rivedere in pubblico nel resto della visita. Benché Montezemolo e Lamarmora spiegassero che il contatto con la persona del re avrebbe fatto molto di più per l’Italia che non gli editti.
La chiesa e i cattolici furono il problema principale di Cavour dopo l'unificazione, e parte la ricostruzione. La sua idea “Libera chiesa in libero stato” egli proponeva a vantaggio della chiesa, e dei cattolici nella vita politica. Così egli la spiega ampiamente nelle lettere a Diomede Pantaleoni e in tre discorsi parlamentari a fine marzo 1861, “che, presi insieme, formano una sola orazione” (Thayer, 454), e rimangono di validità incontestabile. A fronte dei risultati controversi di molti concordati, compreso quello con l'Italia. Al termine dei discorsi Cavour predisse che, in un regime di reciproca libertà, il partito cattolico sarebbe stato la maggioranza: “Sono rassegnato a finire la mia carriera sui banchi dell'opposizione”.
Un tentativo di convincere il papa e il suo ministro cardinale Antonelli ad abbandonare il potere temporale, portato avanti da Cavour a Roma attraverso il dottor Pantaleoni, il gesuita Carlo Passaglia, e altri tre suoi agenti, Omero Bozino, procuratore legale vercellese, imboscato a Roma dal cognato architetto Giovan Battista Caretti, l’avvocato Salvatore Aguglia, mediatore d’affari degli Antonelli, e l’abate Antonio Isaia, segretario della Dataria, le Finanze vaticane, col sostegno di numerosi cardinali liberali, fallì all'ultimo minuto, quando già gli stessi Pio IX e Antonelli si erano convinti. Il 17 marzo 1861, all'improvviso, il papa ingiunse a Pantaleoni di lasciare Roma entro le ventiquattro ore.
Non si è trovato il motivo dell'improvviso mutamento. La spiegazione più plausibile è che Antonelli abbia scartato all’ultimo, quando alcuni cardinali di curia si sono manifestati contrari. Perché il suo assenso era stato comprato: il governo italiano avallava tutti i contratti della sua famiglia con la curia vaticana, e a lui personalmente donava tre milioni. Antonelli non poteva rischiare di vedersi rinfacciare i traffici familiari in concistoro.
Lunedì 18 marzo, la vigilia di san Giuseppe, Pio IX pronunciò un discorso, con la solennità di un'enciclica, contro il governo di Torino, il progresso e il liberalismo, ribadendo l’inviolabilità del potere temporale, al quale attribuì carattere religioso, non potendolo elevare a dogma, com'era nelle sue abitudini. Tre anni dopo la condanna sarebbe diventata definitiva col “Syllabus”.
Sarebbe stata un’altra storia, dell’unità e dell’Italia.
Prima del discorso il papa insultò tanto pesantemente il cardinale Santucci, uno di coloro che gli consigliavano l’abbandono del potere temporale, che il prelato impazzì, e dopo pochi mesi morì.
Con Pantaleoni Pio IX avrebbe voluto cacciare da Roma anche la famiglia del dottore. Non poté, perché la signora era inglese, e Palmerston non si sarebbe privato dell'occasione per attaccare il papa. Ma il papa si permise un: “Ah, quel maledetto Palmerston!”.
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