Il ritiro americano dall’Irak l’anno prossimo ha messo in moto una dinamica deflagrante in tutto il Medio Oriente, il Pakistan incluso. Coinvolgendo i paesi limitrofi all’arco della crisi, la Siria con il Libano, e la stessa Turchia.
Visto da Teheran, è un temuto sgonfiamento della politica ormai quarantennale della Casa Bianca, di Carter come di Reagan e dello stesso Bush jr., che l’Iran ha valorizzato come una pedina importante della sua complessa geopolitica mediorientale. L’equilibrio vuole una serie di soggetti di eguale peso specifico, e l’Iran degli ayatollah, sciita, fondamentalista, e tutto sommato occidentalista, è stato questo. A fronte di Israele e del mondo arabo. Di questo soprattutto, in tutte le aree sensibili, Libano, Palestina, Golfo, Irak.
Il ritiro americano dall’Irak apre un grande vuoto, e questo diventa il fulcro del gioco: se l’Irak sarà sciita, quindi in qualche modo legato all’Iran, o se non tornerà saldo nel fronte arabo. Il feroce terrorismo degli ultimi giorni, in Pakistan e in Irak, apre ufficialmente le ostilità - un caso a sé si pone in Afghanistan, di tribalismo affine alla mafia. L’affrettata rinuncia iraniana all’arricchimento dell’uranio a fini bellici, per quanto temporanea, è la prima contromossa.
Quella iraniana non è una decisione, anzi prima di diventare una rinuncia alla bomba molto tempo e molta diplomazia ci vorranno (senza la bomba la scelta nucleare iraniana è inutile, cioè insensata, poiché il paese dispone della riserve di gas maggiori forse al mondo, nel Golfo Persico e in terraferma, molto più flessibili e molto meno care delle centrali nucleari). Ma qualcosa si muove. L’America per prima ne è cosciente, che conduce il gioco in prima persona, col presidente Obama e col segretario di Stato Hillary Clinton. Finora Washington ha favorito un Irak sciita, prendendo atto che gli ayatollah sono tutto sommato un fattore di stabilità, in una regione per ogni altro verso politicamente volatile. Ma ultimamente ha mostrato di poter cambiare vincente.
Un segnale è venuto proprio in Irak, con la cosiddetta strategia Paetreus. Ora, sotto i violenti colpi degli interessi sunniti da una parte, in Iraq e in Pakistan, e dall’altra la riproposizione del governo Ahmadinejad, la strategia filo-sciita americana è sembrata vacillare, se non è già cambiata.
L’uscita americana dall’Irak condiziona omai da tempo tutta la politica dell’area. In Libano ritarda la composizione del governo, a quattro mesi dalle elezioni. Hezbollah, che dev’essere parte del governo, valuta come prendere le distanze dall’Iran, sia in Libano che nei confronti di Israele. La Siria del giovane Assad ha ormai abbandonato ogni contatto privilegiato con Teheran. La stessa Turchia di Erdogan tenta di entrare in gioco, trascurando per il momento i legami con Israele: Erdogan vuole apportare un contributo alla stabilizzazione dell’Irak in senso arabo moderato, temendo le insidie del khomeinismo sul fronte confessionale interno.
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