È lunga la lista delle questioni in cui gli studi sono rimasti indietro in Italia, anzi fuori dalla realtà: l’indigenza della cultura politica è perfino sorprendente, non si penserebbe mai di una scienza che possa essere così vecchia (antiquata, faziosa, subdola) e incancrenita. Poco male, non è per denaro. Per partito preso qualche volta, o per abitudine. O per incapacità, capita. Ma è diffusissima, se contagia gli stessi presidenti della Repubblica, che per istituto si circondano dei migliori consiglieri su piazza. E puzza di ipocrisia, tanto è indigente.
A un elenco anche breve, le assurdità appaiono in effetti incredibili.
La riforma è impossibile delle istituzioni soprattutto perché la impedisce la cultura: le università, gli scienziati della politica, gli scienziati della Costituzione. L’Italia, paese vivo malgrado le prefiche a loro volta molto scientifiche, sguscia, s’assottiglia, si rigonfia, si adatta, riesce a spuntarla, attraverso i referendum, i regolamenti, le leggi elettorali, la decretazione, e la scienza non se ne accorge nemmeno: parla della Costituzione come se fosse ciò che era – che non peraltro si sa.
In particolare il plebiscitarismo. In Italia di matrice Usa, quindi anche nobile, rispettabile. Nelle leggi elettorali locali con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti, della Provincia e della Regione. Mentre il presidente del consiglio si elegge ancora indirettamente, ma il suo nome è indicato nelle liste parlamentari, e negli apparentamenti. È dal voto plebiscitario che, a ritroso, si costituiscono e si animano le forme politiche intermedie, i comitati, i circoli, le primarie.
Dove le primarie si fanno, per il presidente o segretario del partito Democratico, sono un mero show pubblicitario gratuito, ma sono presentate e avallate come il vero criterio di selezione democratica. Non sanno gli scienziati della politica che le primarie hanno un senso per indicare un candidato nazionale, non un capo partito? Il quale invece dev’essere espresso dal partito? Lo sanno.
Incredibile è l'indigenza degli studi su Max Weber e su Montesquieu, che basterebbe leggere. È incredibile la leggerezza con cui l’etica si lega al protestanteismo, per dire che l’Italia è corrotta, solo l’Italia, e talvolta – non sempre, sennò che sinistra siamo – che l’Italia non è nemmeno capitalista. O l’assurda argomentazione della divisione dei poteri.
Il giornalismo è paurosamente schierato, per interessi non dichiarati. E, dal punto di vista politico, che qui interessa, unicamente per il “non governo”, o il governo mediante la crisi. Che lascia piena discrezionalità ai padroni, dell’opinione e degli affari. I 14 conflitti d’interesse che avevamo documentato sul “Mondo” sedici anni fa, al momento della “discesa in campo” di Berlusconi, sono più numerosi ma non peggiori di quelli dei suoi concorrenti sui giornali e le tv, che però non si documentano.
Compresi quelli del gruppo spagnolo Prisa (“El Paìs”), che da maggio ha in atto una campagna per costringere Berlusconi a comprarsi la sua rete tv e i suoi debiti. Mentre Murdoch (Sky, “Wall Street Journal”, Times,” Sunday Times”, e indirettamente “Guardian” e “Independent”) è impegnatissimo ad affondare la sfida di Mediaset al comodo monopolio Sky sulla tv a pagamento – e, uomo di estrema destra, fa la fronda a sinistra a Berlusconi.
L’insegna è dichiaratamente ipocrita dei fatti separati dalle opinioni, anche questa sopravvissuta solo in Italia. Dove è presentata come ricetta inglese o americana, di due giornalismi cioè che più faziosi non si può immaginare, dichiaratamente.
Tutto sempre all’insegna dell’emergenza, la priorità, la guerra, per condurre al rinvio, e giustificarlo – la politica della crisi. Pretendendosi impegnati alla riforma. Ma questa è già la più larga disonestà intellettuale.
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