Lo scrittore si seppellisce sotto un triplice artificio. Del “prendere il fucile” dopo sessant’anni, dell’incongruo estetismo – di triplice incongruità: del morente, del resistente, della scrittura fredda – e dell’ira giornalistica. È sorprendente, perché Tabucchi ne sapeva di più. Ma è, forse, solo uno dei tanti. Dei comunisti che non sanno di aver perso la guerra, non vogliono saperlo, ma sono numerosi abbastanza, nelle case editrici, le librerie, i critici, i giornali, nonché fra i lettori evidentemente, per continuare con foga, con successo, questo genere inerte, l’invettiva resistenziale. Non inerte, negativa, poiché occupano gli spazi e anche gli interstizi, togliendo il respiro.
Il problema non è Berlusconi. Evitando l’esame di coscienza, questi comunisti confermano di avere essi stessi ucciso il comunismo, e impediscono di rifarlo o ripensarlo. I Tabucchi, i Saramago, i Garcìa Marquez sono loro gli Stalin e i Breznev, gli sterilizzatori del comunismo, per la faziosità stupida. Qui c’è anche il traffico d’organi, e lo sfruttamento del Terzo mondo. E Tabucchi diventa verboso, lui che scriveva scarno, creando per evocazione. Le due cose, il soggetto pompier e il verbiage, vanno insieme, sintomo e segno della mancanza di misura.
Antonio Tabucchi, Tristano muore
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