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sabato 24 ottobre 2009

Letture - 17

letterautore

Céline – Esclamativi e punti di sospensione emergono nel Settecento come segni di linguaggio non articolato – primitivo – e non logico. In particolare per le anime sensibili. Così li adoperano Rousseau per Julie di “Nuova Eloisa”, Laclos per la Presidente dei “Leami pericolosi”, Sade per “Aline e Valcour”.

È il prototipo (ironia!) dell’Arbeiter di Jünger: antiborghese, forgiato dal sangue e dalla morte.

Don Chisciotte – O delle avventure prolisse e non divertenti: per vincere la paranoia bisogna moltiplicarla?

Moravia – Di estremo distacco personale, anche dagli intimi, Morante, Pasolini. Di diffidenza anche. Legge attraverso due soli (semplici) indicatori: Freud (la consanguineità, il déréglement e Marx (il boghese che fotte ed è fottuto). Il tutto in chiave materialistica: la vilenza non è spiegata (interpretata), e nemmeno il sesso.

Pasolini – Reincarnazione mistica di Malaparte. Autore e primattore del narcisismo italico del Novecento: arcitaliano (si dice D’Annunzio ma è Malaparte).

Insopportabile è l’idealizzazione del popolo, nei romanzi e nelle poesie friulane: buono allo stato “naturale” (Friuli), integrato cioè alla tradizione, depravato nella società moderna (borghese, urbana) che lo costringe alle borgate e all’abiezione. L’artificio qui è al doppio grado, voluto: Pasolini sa che il popolo non è buono: ha condannato lui, ha ucciso suo fratello.

È l’anti-illuminista. Manca totalmente d’interesse per i valori laici – libertà, democrazia – anche nella fase di vicinanza a Pannella, opportunista. Mai un moto di curiosità, nemmeno minimo, nonché rapporti personali, con socialisti o liberali. Non poteva che essere cattolico e comunista, con cattiva coscienza.

Molta passione e moltissima (insolita nel grigio panorama dopoguerra) cultura. C’è sant’Agostino nel ciclo mediterraneo, Vangelo compreso, anche se Pasolini parla di san Paolo, nella trilogia del piacere (ridotto, come per Agostino, al piacere sessuale), in “Teorema”, “Salò”, eccetera, cioè nel ciclo della morte, che è la morte della carne, lo strazio tragico del neoplatonismo – di Plotino e Porfirio in aggiunta al fascino ambiguo (ipocrita) del manicheismo. C’è anche una sensibilità eccezionale per il tempo, le angosce piccole e grandi, le lievitazioni di superficie e le correnti di profondità, i falsi scopi e i falsi specchi, e c’è partecipazione indubbia, che nobilita lo sforzo di comprendere.
Ma il linguaggio è falso – la posizione è falsa. È artefatto, anche negli articoli: se i Democratici cristiani sono fascisti, non possiamo che prendere il mitra, nient’altro. Le sue morti sono teatrali, “dannunziane”. La politica è umorale – malapartiana. Nel nome della verità. Perché? Quale rimozione la lingua deve coprire, quale faglia nascondere? Non è un’eredità culturale, non era artefatto il Pasolini ragazzo. Perché in tanto biografismo, perfino coltivato, è taciuto il fatto più drammatico, l’unico vero? L’assassinio del fratello giovane, bello, buono, a opera di partigiani titoisti. Il “tradimento” a scuola di Sergio Telmon? È un caso di doppio linguaggio?
La sua passione è diabolica (ma chissà, naturalmente, chi è il diavolo): fredda, arrogante. Spcie nella mitezza che gli viene attribuita. È incerto ma è apodittico: quale dei due è affettato? La mitezza deriva dal disprezzo. Un occhio d’indifferenza truce – su tutto, borgate e Terzo mondo compresi. E gli amanti? Non ne aveva: Pasolini non s’innamorava

Proust – O della letteratura “mostruosa”: la borghesia ottusa e contenta, di cui fa il “ritratto fotografico”, école du regard, come proiezione. Ha gli stessi tic, gli estetismi, o snobismi, perfino la sessualità frigida, incapace di passioni, nemmeno in realtà della geloisia, la passione del possesso,. Proust ne è parte, non critico, l’ironia è affettuosa. Così come i suoi avidi lettori. L’orrido è quello dell’io che si guada compiaciuto essendosi scarnificato a morte, di un narciso moribondo. Che è una contraddizione: da qui la stucchevolezza.

Molto è Des Esseintes, studiato. Il ricordo non viene solo con le madeleines, viene anche col cesso degli Champs-Élysées.

Le Albertine come romanzo della gelosia? Ma che gelosia, su che “diritto di possesso”? Su quale storia, che non c’è. È la storia di una mantenuta. Con tanti deliri adolescenziali? E una coabitazione incongrua: A. entra ed esce, P. idem, è questo che la “Prisonnière” registra – se dormono insieme non si sa. La “Fugitive” è atroce – scadente balzacchismo. È la “piccola” filosofia della gelosia, molto fin-de-siècle (anche se la storia si completa durante e dopo la grande guerra), come tante altre “piccole filosofie”.
L’Albertine della “Prisonnière”, ma anche prima, rasenta la parodia dell’amore femminile romantico. Se è l’autista di Proust, non è però un gioco rabelaisiano, è uno sfogo assurdo.

letterautore@antiit.eu

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